domenica 14 febbraio 2021

Il robot e il serpente (Prima puntata)


  In questa prima uscita del ‘progetto letterario’ del quale si è abbondantemente parlato qui, ho voluto proporre l’incipit  del romanzo ‘Il robot e il serpente’. 

 

                                                                                                        fabio painnet blade



 

Breve premessa:

 

   Uno psicologo di mezza età ritrova nella posta elettronica del suo computer un’enigmatica missiva. Non realizza a primo acchito chi possa essere, ma pensa si tratti di una vecchia paziente, affetta da chiassà quale malanno e, per giunta, un po’ bislacca. Legge velocemente poche righe cariche di apprensione:                                       

 

 Gentile Dott.  F,

    vi scrivo in un momento , per me, drammatico. Il mio capezzale è distante dal vostro studio, troppo distante nello spazio e ancor più nel tempo per sperare di potervi ricevere prima di esser morta. Sento di procedere speditamente verso la fine. Vi chiedo solo di ascoltare la mia storia, portarmi conforto, garantire che la mia versione dei fatti possa raggiungere un mondo della cui esistenza non posso che nutrire speranze. Tengo in particolare che mi  parliate un po’ di  questo vostro mondo, delle usanze e dei suoi costumi, ma soprattutto delle  genti e della civiltà che in esso hanno convissuto nel corso dei secoli. E’ un luogo felice o vi prosperano odio e rivalità?

     Perché ve lo chiedo?  Vi starete domandando. -  Già:  perché?

Se vi rispondessi che le mie son naturali premure di madre, non capireste. Pensereste di  aver a che fare con una pazza, perlopiù malata e moribonda.  Ed allora non ve lo dirò! Non ora. Non adesso. Forse in seguito comprenderete, ma per farlo dovrete disporvi all’ascolto, o alla lettura delle parole dell’ unico testimone  vivente  di una grande storia.

 

Adian 

                              Ohxen’im bat Asherah , madre di Temah figlia di Havel

 

  Il contenuto della lettera gli  trasmette ovvie curiosità. Incerto sul da farsi invita così la misteriosa donna a spiegarsi meglio, per permettergli di acquisire informazioni sul suo conto. Dall’altra parte l’invito è raccolto senza alcuna titubanza.                                                         L’uomo, qualificatosi come dottor Effe, riceve da quel momento in poi una serie di  comunicazioni e si dispone di buon grado alla lettura.  

 

 

 

                                                            Parte prima

 

  Di solito non ricevo grandi quantità di posta e quindi non ho l’abitudine di consultare la casella elettronica. Da almeno quattro giorni ristagnava infatti una comunicazione solitaria, il cui mittente non pareva appartenere alla ristretta cerchia delle mie frequentazioni e nemmeno a quella, altrettanto scarna, dei miei pazienti. Diviso a metà fra la consueta  indolenza da ‘fine settimana’ e la curiosità sbrigativa di un temperamento impiccione, mi decisi  a leggere e, in poche battute, a rispondere con tutto il garbo di cui ero capace.

    Come primo approccio inviai all’indirizzo di questa enigmatica missiva alcune semplici domande,  tanto per sapere se si trattasse di una vecchia conoscenza o di una persona che, solo dopo aver conferito con un mio paziente,  si fosse decisa  a scrivermi. Di una cosa ero arcisicuro: un nome del genere non l’avevo mai sentito e neppure avrei avuto la necessaria fantasia per immaginarlo di sana pianta.  .

  Scrissi appena poche righe, intuendo che una simile vicenda avesse un principio lontano e che la donna che si era presentata col nome di Ohxen’im, soffrisse da tempo di disturbi dovuti a visioni notturne molto simili a sogni,  ma di natura alquanto diversa.

Ricevetti la risposta appena un paio d’ore dopo e già, fin dalle prime righe, avvertii nelle sue parole un repentino cambio di personalità: quella che all'inizio mi era sembrata una donna matura, si era calata nei panni di una giovane, forse un’adolescente.

    Mi ritrovai confuso, sebbene non di rado i miei pazienti saltano da una situazione all’altra senza curarsi di seguire un ordine cronologico, o un eloquio regolare. Rammentai però che fui proprio io a chiederle di riprendere il filo della storia dal principio e fui persino molto magnanimo nel concederle la possibilità di dilungarsi, senza imporre limiti di sorta, secondo una prassi clinica volta a garantire tranquillità. Lei non fece altro che attenersi alle mie indicazioni, senza alcun preambolo, senza ulteriori chiarimenti.

 

e-mail  n° 2

 

   La ringrazio per l’invito. Apprezzo la sua premura e la delicatezza mostrata nei miei confronti vale a dire, nei confronti di una perfetta sconosciuta. Dovrei presentarmi, lo so e fornire i miei dati anagrafici, ma al momento ho soltanto bisogno di parlare con qualcuno che sappia rispettare la mia esigenza di riservatezza. Perdoni, dottore, la mia pretesa. 

    Posso dirle tuttavia che da qualche tempo ho cominciato a sognare in maniera assai realistica e che queste visioni mi hanno trasmesso forti turbamenti. Non chiedo che  essere aiutata a vivere serenamente gli ultimi giorni della mia vita. Conosco la sua professionalità, per questo motivo ritengo che potrebbe concedermi un insperato  sostegno psicologico.

  Queste visioni insolite, insomma, sono iniziate pochi mesi fa e da allora non si sono più interrotte. Nel sonno vedo immagini che non appartengono a ricordi recenti e nemmeno lontani: forse non appartengono neppure a me, al mio vissuto;  eppure tutto intorno  scorre in maniera tanto chiara da  farmi smarrire gli appigli  con la realtà. Con la realtà di  ‘questa parte’, che è la nostra.

   Le prime volte che mi capitava di fare tali sogni non riuscivo a mantenerne la memoria, poi i paesaggi presero forme familiari, i volti delle persone che ero certa di non aver mai veduto prima, cominciarono a trasmettermi sensazioni rassicuranti, finché un giorno al primo risveglio, dopo periodi di totale confusione, mi parve tutto estremamente più preciso, più logico. In uno dei primi sogni mi vedevo procedere spedita su un tratto di strada polveroso, ero forse in un bosco e davanti a me ruscellavano  le acque di un torrente posto a confine di una regione  ammantata di mistero. Mani esperte sembravano aver ritratto il volto della natura di quei luoghi, col rigoglio dei grandi arbusti ghiandiferi o con la monumentale autorità dei fitotitani dal fusto largo fino a dodici cubiti. Non so perché  continuo a chiamare tali alberi con quel nome assurdo. So solo che, dall’altra parte (nell’immaginazione onirica) mi sembra tutto perfettamente inserito in un contesto conosciuto sebbene slegato da riscontri reali. Superai così quel  fiumiciattolo, con l'acqua alla vita,  facendo attenzione a non bagnare lo zaino. Quante volte, da bambina, un  luogo simile era stato teatro dei miei giochi. Però in quell’attimo preciso provavo sgomento e  dicevo a me stessa:

 – tieni gli occhi aperti, Ohxen! il bosco può riservare brutte sorprese. Sulla riva opposta mi scrollai l’umidità di dosso con energici calcioni al suolo per poi alzare gli occhi verso l’orizzonte: le rassicuranti architetture delle grandi torri della luce mi avrebbero aiutata a ritrovare la strada di casa, al sopraggiungere  della sera. 

            La notte mi ha sempre trasmesso le peggiori paure e sentivo che  quel luogo  brulicava di oscure e minacciose presenze; meno male che in queste occasioni  portavo sempre con me un armamento leggero. Non erano i quadrupedi dai lunghi denti a preoccuparmi, difficilmente dopo la colonizzazione mihole e le invasioni latranidi, ne avrei potuto incontrare qualcuno perché nel tempo avevano mutato le migrazioni andando ad insediarsi nelle regioni dove la luce nasceva e da dove le dodici lune di Tarhar A’Ru non si sarebbero potute scorgere. Una volta raggiunte le steppe del nord est, alle pendici dei freddi altipiani, non tornarono più nelle terre d’origine, dove rivali efferati  avrebbero minacciato la loro sopravvivenza. 

   Ecco un’altra anomalia: le immagini del sogno si accompagnano sempre ad informazioni precise, nomi, situazioni che conoscevo e ripetevo perfettamente. Nel riprendere coscienza, rammento sempre i nomi delle cose e delle persone, poi la sensazione di familiarità svanisce come rugiada al sole. 

   Il ‘Medio Amadah’, che negli spazi onirici era la terra degli avi e  patria dei popoli amadahntini, era una località priva di coordinate geografiche: non esisteva perciò da nessuna parte del mondo.  In quel luogo sorgeva una città chiamata Tarhar A’Ru. Come ogni agglomerato urbano, anch'esso produceva rifiuti, che venivano ammassati entro apposite aree per lo smaltimento organico le quali erano ubicate a debita distanza e avevano la funzione di garantire scorte  alimentari pressoché illimitate ad ogni genere di predatore, la cui presenza avrebbe altrimenti minacciato la popolazione residente. Per costoro era molto importante conoscere la posizione di questi luoghi maleodoranti, che venivano sistemati a distanza di sicurezza e concentrati entro località circoscritte e vistosamente segnalate sul territorio. Non v’erano dunque motivi per coltivare timori seppure, di tanto in tanto, capitava che qualche esemplare in fregola si portasse nei pressi dell’area edificata, o trovasse dimora in mezzo alla vegetazione. Paura e diffidenza lo potevano rendere pericoloso, dacché l’aggressività delle belve è ravvivata più dal timore che dalla fame. Sapevo perciò di dover girare alla larga da certi tipetti tarchiati dai modi scontrosi e meglio l’avrei fatto se mi fossi tenuta lontano dalle discariche.    

 


     Tempo addietro ne avevo veduto uno – l’immagine mi tornava chiara anche in stato di veglia. -  grattava il terreno fresco del sottobosco in cerca di radici o insetti commestibili. Avevo quindi atteso che si allontanasse facendomi scrupolo di non tradire la mia presenza. Quando però la bestia si era arrestata a pochi passi e aveva cominciato  ad annusare l’aria, avevo percepito un brivido lungo la schiena, una di quelle sensazioni che portano gli intestini a liquefarsi nelle brache in men che non  si dica.  Ma non ne avevo fatto un dramma, perché nelle mie perlustrazioni portavo sempre a tracolla un folgoratore elettrico. Di questo mostriciattolo ricordavo caratteristiche precise: era un prototipo maschio di vecchia generazione, un ibrido che aveva potenziato alcune facoltà e perduto altre, in una mescola di caratteri difficilmente prevedibile. Era stato un primo tentativo sperimentale  a cui ne sarebbero seguiti di nuovi. Il modello Zero punto Zero, meglio conosciuto come mostro squartatore, era stato rimesso in libertà poiché le leggi impedivano la soppressione di un individuo con un innesto genico primario, (della specie mihole) maggiore del quindici per cento. Il tasso ben più alto innestato su Zero punto Zero era servito così a salvargli la vita. In seguito si era velocemente riprodotto mescolando i propri caratteri con quelli di altre specie compatibili, col risultato di sparpagliare nel bosco una considerevole quantità di materiale genico pronto a scattare su arti rapidi e  zanne letali con cui straziare le carni di chiunque avesse avuto la sorte talmente avversa di capitargli davanti. La pelle mi si accapponava all’idea di venir colta da un fortunale nel bel mezzo della notte (unica condizione che avrebbe reso i circuiti della mia arma da passeggio,  nulla più di un ingombrante ammasso di ferraglia ).        

 


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