mercoledì 29 giugno 2022

Scienza e astronomia nella Bibbia

-  segue da post precedente -

   Post  aggiornato il 5 Luglio 2022


                                 La Scienza nel mito

 

    Ciò che è sempre risultato difficile da comprendere è l’eventualità che certi studi si rapportassero al tempo piuttosto che allo spazio, dimensione quest’ultima che torna di gran lunga più congeniale alla mente dell’uomo moderno. Per secoli infatti, la scienza si è basata sulla concezione geometrica euclidea dello spazio concepito nelle astrazioni logico-matematiche e in un contesto finito di piani cartesiani. 

Per il pensiero arcaico, viceversa, il tempo era un mulino che ruotava incessantemente triturando i millenni in granelli infinitesimali. Le misure astronomiche del tempo costituivano quindi la dimensione del cielo in cui si potevano trovare rappresentazioni geometriche insieme a foreste, alberi, sovrani ed eroi coi loro eserciti, archi, frecce oppure navi. Il linguaggio esprimeva, in termini mitici,  verità matematiche, mentre la realtà raccontava una scienza perduta in un codice dimenticato del quale si è smarrita la chiave ma che rimane incastonato in frammenti di racconti epici, fiabe popolari, ballate e persino filastrocche. Ogni storia sembra così far parte di una complessa rete di indizi che rimandano a uno schema di fondo. La raffigurazione di un passato mitico nasconde il senso di una metafisica fiabesca dove gli déi azionano mulini in grado di far girare le stelle del firmamento, che ad un certo punto non possono evitare la lenta deformazione delle loro traiettorie, per effetto del moto ciclico della precessione degli equinozi, il quale comincia e finisce in un  tempo lungo pressappoco ventiseimila anni solari. Il mito, la fonte impregnata di Sapere scientifico, si serve perciò di immagini rubate alla quotidianità degli uomini e alle loro imprese ed essi, come mitici cacciatori, uccidono animali altrettanto mitici, talvolta draghi, oppure li catturano,  governano regni, o risiedono in templi sorretti da colonne e sono in grado di forgiare aratri o mulini che vengono a loro volta abbattuti segnando la fine di un regno/epoca e l’inizio di un altro/a.

   Alla luce di questo linguaggio ecco allora che ci par di comprendere quale sia stato il regno dell’eroe Kay Cosroe dell’iraniano Firdusi, situato fra i pesci e la testa del toro (la stella Aldebaran è l’occhio del Toro), o quale sia stato il viaggio del fabbro Ilmarinen che, nel Kelevala finlandese, viene trasportato ‘sopra la luna e sotto il sole’ sulle spalle di un’orsa (Orsa Maggiore).

    Eppure, questo patrimonio incredibile di racconti e la loro interpretazione, è fondato su ipotesi filologiche superate o traduzioni forzate, ipotesi affascinanti quanto si vuole ma completamente sprovviste di prove, dacché non pare che qualcuno  abbia mai dimostrato  che - ad esempio - la precessione  degli equinozi sia stata scoperta prima del 127 a.C. (Ipparco da Nicea), o che la scomposizione dello Zodiaco fosse una conoscenza appartenuta all’umanità in tempi precedenti all’impero babilonese, cioè oltre duemilacinquecento anni fa. Per questa ragione ho creduto che sarebbe bastato individuare la misura esatta della durata del ciclo precessionale in un qualsiasi brano del Pentateuco, per spostare di alcuni secoli la data della scoperta del suddetto fenomeno, sempre che i libri del Pentateuco fossero stati davvero scritti una dozzina di secoli prima della nascita di Cristo. L’individuazione di queste cifre nel corpo dei cinque libri del Pentateuco potrebbe confermare le ipotesi di Giorgio de Santillana e riconoscere una qualche attinenza scientifica rispetto quel linguaggio da lui definito ‘arcaico’; ma su queste correlazioni, la  teologia moderna sembra proprio aver emesso giudizi definitivi.

    Nei successivi passi di questo capitolo ci siamo presi la briga di trascrivere il parere del Cardinale Gianfranco Ravasi (Direttore del Pontificio Istituto della Cultura), che poi, è esattamente lo stesso della teologia ufficiale. La sua posizione - sia ben inteso - è emblematica di un indirizzo di pensiero diffuso anche in ambito scientifico, nel senso che anche e soprattutto fra gli uomini di 'scienza' esiste un pregiudizio di fondo rispetto all'attendibilità dei testi sacri. In riferimento a un suo articolo pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire il 23 luglio del 2012 (Cardinale Gianfranco Ravasi, La Bibbia e la scienza dei Numeri.), abbiamo cercato di fornire e descrivere  un  approccio differente agli scritti sacri, specie quelli biblici. Dal lontano luglio 2012 tuttavia, il suo orientamento critico non sembra essere minimamente cambiato, come egli stesso conferma in una e-mail lapidaria in cui (ci) ammonisce severamente dal seguire posizioni che, a suo dire, sarebbero indimostrabili. Mi domando quale significato attribuisca al termine 'dimostrabile', perché se vi è una dimostrazione che in questo saggio non abbiamo trascurato è quella che certifica la presenza di determinate cifre nel corpo scritto dei testi biblici giunti fino a noi. A rinforzo di questa verifica abbiamo portato la precisa prova che il contenuto cifrato della Bibbia, a differenza della parte alfabetica,  non sia mai cambiato nel tempo, da quando è stato redatto ai nostri giorni. Ed è un tempo abbastanza lungo, a ben vedere. Abbiamo preferito rispondere in questa sede poiché, ufficialmente, il cardinale non è parso disponibile a rivedere le sue ‘certezze’. L’articolo di cui detto sopra, è facilmente reperibile in rete, mentre le nostre chiose le riportiamo qui appresso.

   Il Cardinale Gianfranco Ravasi sostiene che, chi ha una grande assuefazione coi testi sacri sa che essi sono costellati di numeri i quali, spesso, non devono esser compresi in senso quantitativo, ma in senso qualitativo, cioè come simboli. Così che la creazione dell’universo sia stata, dalla Genesi, distribuita nei sette giorni della settimana e destinata ad avere il suo apice nel sabato liturgico. Ciò è dovuto al fatto - spiega Ravasi - che il ‘sette’ è un segno di pienezza e perfezione, naturalmente con tutti i suoi multipli. In questa luce - prosegue Ravasi - si comprende perché si scelgano nell’Apocalisse sette chiese o perché Gesù ci suggerisca dal perdonare, non solo sette volte ma ‘settanta volte sette’ (Matteo 18, 22), perché gli anziani del senato costituito da Mosè siano settanta, proprio come  i discepoli inviati in missione da Gesù,  settanta siano gli anni dell’esilio babilonese e via dicendo.

 Non sentiamo di negare nessuno dei significati menzionati dal Cardinale Gianfranco Ravasi, tuttavia preferiamo considerare anche elementi di carattere aritmetico (sviluppati in questo saggio), secondo i quali il numero sette sarebbe da intendersi come sottomultiplo del numero settanta  e dei multipli frequentemente riportati nei passi biblici: 144, 288 e soprattutto 25725 o 25920. Che queste siano cifre citate in modo evidente o nascosto, non è un’opinione, come pretenderebbe il sommo cardinale, ma un fatto! Ed è un fatto, non meno importante, che tali numeri riguardino più specificatamente tempi e durata di cicli planetari che la storia e i reperti ci hanno insegnato essere stati di estrema importanza per le passate civiltà, da quella egizia a quella babilonese, nelle cui culture  è fiorita e si è intrecciata la storia del popolo ebraico.

    Non ci soffermeremo a disquisire sul significato astronomico del numero settantadue, o del sette, ma ci limiteremo solamente a chiarire che queste cifre sono oggi ben note ai moderni studiosi del cielo, ovvero gli astronomi. Non ci riferiamo a cifre approssimate, ma a precise quantificazioni numeriche che riguardano principalmente il ciclo della precessione degli equinozi. Non può infatti essere un caso che sia stata individuata la misura esatta del grado relativo all’anno platonico, nella stessa identica cifra corrispondente fino all’ultimo decimale, sia nel libro della Genesi che in quello dei Numeri (Censimenti), o nel Salmo 89-90 (NT) ed addirittura, in una quantità quasi sovrapponibile, nel libri di Esdra e Neemia.

   Il Cardinale Gianfranco Ravasi sbaglia allora quando sostiene che le cifre inserite nella Bibbia non devono essere intese in senso quantitativo; ma non sbaglia  quando definisce il sette e i suoi multipli simbolo di perfezione, poiché l’anno platonico, in passato,  era meglio conosciuto come l’ ‘anno perfetto’. Peccato che egli non voglia accettare, o perfino solo prender atto, di spiegazioni sul piano logico-matematico, ben più solide della sua. Ciò per dire quanto, a volte, certe prese di posizione cozzino contro contenuti che in fin dei conti fungerebbero da conferma  rispetto le proprie, altrimenti sindacabili, come lo sono tutte le contraddizioni dell’esegesi teologica. Nell’articolo sopraccitato notiamo che viene riportato anche il significato del numero tre: la ‘pienezza’. Questo richiamo simbolico ci ha incuriosito, perché il numero tre, nelle nostre ricerche  è stato associato alla gravidanza e al suo simbolo astrale: la luna. Se poi volessimo considerare i tre giorni della Resurrezione di Cristo, dovremmo aggiungere che mai questa rappresentazione ci è sembrata tanto vicina alle nostre conclusioni, dacché l’esperienza di morte e rinascita del Gesù di Nazareth poteva e può essere tranquillamente correlata alla gravidanza della nuova umanità liberata dal giogo del peccato. Sul piano astronomico aggiungerei anche il fatto spesso trascurato, che riguarda la stasi del  sole  ai solstizi, quando cioè  al  termine del  suo cammino pare fermarsi tre giorni per poi invertire il senso di marcia. E poi c’è il quattro, la totalità e, con pari significato, il suo multiplo quaranta: quaranta sono i giorni e le notti del Diluvio Universale, quaranta gli anni di permanenza del popolo ebraico nel deserto. Le nostre indagini ci hanno portato, sebbene con minor certezza, a ritrovare queste due importanti cifre nel celebre numero ghematrico dell’Adam, il quarantacinque (1+ 4+ 40), che ancora una volta abbiamo potuto affiancare al significato di totalità, dacché Adamo poteva esser considerato l’antesignano o il ‘contenitore’ della specie che da lui  ha avuto origine. Egli infatti (secondo alcune interpretazioni) aveva in sé la totalità del patrimonio genetico da cui sono scaturite tutte le varianti del genere umano o, se vogliamo, tutti i caratteri potenziali  da trasferire alla discendenza. Secondo lo stesso ragionamento i dodici apostoli trovano precisa corrispondenza nelle dodici porzioni zodiacali che formano l’anno platonico ed  hanno una durata di 2143 anni, o 2160 anni a seconda che si intenda considerare il ciclo precessionale lungo  25725 anni o 25920 anni. 

   Tutti gli autori che si sono occupati di esegesi  biblica hanno fatto convergere le loro convinzioni entro un preciso ordine di valori e significati rispetto l’uso dei numeri fatto dai redattori biblici. Nessuno pone riserve sul significato simbolico delle cifre che, come visto, sono riportate in gran quantità entro il vasto corpo di reperti a nostra disposizione.  Gli esempi da citare sono numerosi: quando si dice che ‘Elia predisse una siccità di tre anni’  si  esprime un significato effettivamente simile a quello reale, nel senso che i periodi di siccità e conseguenti carestie possono durare uno o più anni; o quando si dice che Betania fosse lontano quindici stadi da Gerusalemme, distanza, quella di tre chilometri, corrispondente a tutti gli effetti.  I casi da enumerare sarebbero davvero tanti e tutti sembrano suggeriscono agli studiosi che, in alcuni casi la Bibbia abbia indicato informazioni e dati storicamente attendibili, in altri , elementi simbolici o rappresentativi di misure astronomiche. Nessuno tuttavia, pare abbia mai ipotizzato che i numeri fossero stati usati unendo congiuntamente il senso simbolico e il senso quantitativo, con riferimento a misure e quantità cosmiche, dacché teologi e accademici concordano nel ritenere le popolazioni di quel periodo, sostanzialmente incapaci di procurarsi  validi strumenti di rilevazione. Senza accorgersene essi conferiscono alla storia e alle culture una direzione cronologica  lineare tendente alla crescita, seguono insomma un modello oggi non più valido, specie dopo la scoperta di elementi non-confutabili, all’interno di testi indubitabilmente antichi, quando non antichissimi. 

                  

                       Il meccanismo anarchico delle stelle

          

Gli antichi greci chiamavano il cielo cosmos (ordine) sebbene sapessero non fosse esattamente così ed anche agli occhi di popolazioni  vissute migliaia d’anni prima, doveva esser ovvio che quest’ordine celeste, alla lunga, non lo si potesse imbrigliare entro ferree leggi di calcolo. Le tradizioni arcaiche contemplavano un’armonia dell’universo transitoria, che doveva ad un certo punto finire per lasciar posto ad un ordine interamente riformato. Il vecchio sistema, non più leggibile come cosmo, crollava e con esso cedeva  il perno logoro di una macina di pietra  millenaria che, senza una degna successione avrebbe consegnato il mondo nelle mani  dell’anarchia (imprevedibilità) più assoluta. L’accuratezza delle previsioni umane dipendeva infatti dai cicli regolari degli astri e tutto ciò che non si conformava a questa necessario principio d’ordine era  ritenuto figlio del caos, eppure non meno divino.     

  Se prendessimo insomma come riferimento la data dell’equinozio primaverile, per un tempo lungo un buon paio di decine di migliaia di anni (in realtà quasi 26.000) vedremmo alternarsi in quel punto del cielo, a quella stessa ora (cioè poco prima dell’alba, ma seguendo il senso inverso a quello annuale) tutte e dodici le case zodiacali a cominciare da quella attuale che cade sotto i segno dei Pesci. Intorno al venti Giugno, al posto dei pesci – sempre prima dell’alba – sarà visibile la costellazione dei Gemelli. Fra mille anni i Pesci lasceranno il posto all’Acquario, fra tremila anni al Capricorno, mentre  tremila anni fa , lo stesso punto del cielo oggi occupato dai Pesci, all’equinozio di primavera ospitava gli astri del segno dell'Ariete . Nella notte dei tempi, quando i nostri progenitori si dedicavano all’osservazione del cielo notturno, forse qualcuno si rese conto che il sole non sorgeva e non tramontava sempre nello stesso luogo, o dietro la stessa montagna. Andava e tornava, oscillando lentamente fra due punti estremi. Dopo un anno sembrava riportarsi al punto di partenza, ma non era propriamente così. Infatti, se un uomo avesse rilevato a terra un punto esatto nel quale ogni anno avrebbe potuto veder sorgere il sole, alla fine della propria vita si sarebbe accorto che neppure quel piccolo punto all’orizzonte si manteneva fermo, nel senso cioè che anno dopo anno il sole  tendeva a spostarsi di lato. Per fissare lo spostamento del sole sull'orizzonte si passò , probabilmente, dai rilievi naturali a dei sistemi artificiali: dapprima a  pali di legno e in seguito in pietra, come fu fatto a Stonehenge. Se perciò quell’uomo curioso avesse vissuto settanta anni,  avrebbe potuto apprezzare uno scarto netto (fra il punto che aveva segnato a terra all’inizio della rilevazione e quello stimato), di circa un grado angolare. Forse da allora, i nostri antenati cominciarono a capire che il cielo in definitiva non ruotava in maniera regolare, ma era come la macina di un grande mulino che ‘perdeva colpi’ al punto da sfasare il corso del tempo, non consentire cioè agli osservatori di valutare una traiettoria netta dei millenari percorsi  astrali. Da quella consapevolezza cominciarono forse a comprendere che il cielo è ordine sì (cosmos), ma… fino a un certo punto; oltrepassato il quale, sarebbe stato necessario  ri-calibrare l'intero meccanismo celeste. 

 

                             Il tempo è la dimensione del cielo

 

     Quella che ai giorni nostri viene sistematicamente ignorata è la volontà degli antichi di utilizzare una sorta di  linguaggio 'specialistico' per far sì che un racconto in forma poemica potesse celare dati riconducibili a elementi scientifici, affinché le generazioni future, in seguito a una corretta decodifica, avessero accesso al sapere e alla conoscenza di coloro che li avevano  preceduti.

     Per giungere a questo scopo si dovettero utilizzare sistemi per il calcolo del  movimento degli astri, in particolare del sole e della luna. Il tempo è stato visto quindi come la dimensione del cielo stesso e le precise misure dei suoi movimenti come chiave di lettura dei millenari cicli astrali. Non è sbagliato allora ritenere le caste sacerdotali depositarie di un linguaggio mitico che permetteva di ‘comunicare’ e, in qualche modo, comprendere il complesso mondo degli dèi, gli unici abitanti del cielo. Tutto principia in epoche nelle quali non esistevano rappresentazioni della natura come le intendiamo noi e  in cui i popoli affidavano le loro idee e le loro scoperte alla memoria non scritta.

    Il pensiero arcaico, insomma, è cosmologico: esso affronta l’analisi del cielo in vari modi i cui echi si ravvisano fin dalla tarda filosofia classica. In definitiva la realtà fisica non poteva essere ridotta a concretezza perché si partiva dal concetto che l’essere fosse soprattutto mutamento e variazione, movimento e ritmo e che fosse  rappresentato dal moto circolare del tempo, così come lo determinano i cieli. Il moderno analista tuttavia,  non si aspetta una favola o un racconto di fantasia da un testo di meccanica celeste, ma pretende uno studio immediatamente comprensibile; non si aspetta referti scientifici dalle immagini mitiche perché è abituato ai modelli attuali, in cui formule e computi prendono la scena senza tanti preamboli. A noi, uomini del terzo millennio non viene facile  pensare che una conoscenza tanto importante potesse essere espressa nella lingua di tutti i giorni, allo stesso tempo viene difficile ignorare l’entroterra di competenze tecniche celate nelle grandi opere del passato.

   Il linguaggio degli antichi è quindi verbale e sostituisce i termini e i concetti del linguaggio scientifico moderno; ciò dovrebbe spiegare come da esso sia lontana l’idea di una rappresentazione letterale (Così come sostengono Mauro Biglino, Zecharia Sitchin et al.). La terminologia del mito racchiude allora regole e analisi fenomeniche, cifre quantitative e dati per lo più aritmetici, benché la sua modalità espressiva diventi oscura, non meno di oscura e indecifrabile di come lo siano, per noi, i linguaggi specialistici.  Se pensiamo alla posizione del sole fra le costellazioni dell’ equinozio primaverile possiamo immaginarlo come la lancetta che segnava le ‘ore’ del ciclo precessionale. La costellazione che sorgeva a oriente appena prima dell’alba segnava il punto dove il sole sostava e veniva chiamata ‘portatrice’, o  ‘pilastro’ del cielo, dacché l’equinozio di primavera veniva riconosciuto come linea che determinava il primo grado del percorso del sole durante l’anno. Di fronte a questi elementi dobbiamo pertanto riconoscere che la terminologia adottata dagli antichi osservatori del cielo trattasse argomenti molto seri e non rozze credenze primitive.  Il divario fra i due linguaggi, arcaico e moderno, si è fatto oggigiorno incolmabile e l’astronomia si è ridotta, fuori da questi schemi poetici, a oggetto della balistica, disciplina utile solo ai temerari avventurieri degli shuttle e prima ancora dei soyuz. Non è che l’uomo comune abbia perso l’attrazione per queste cose, in realtà ne è stato escluso dalla specializzazione tecnologica.

   Il concetto di ‘terra piatta’, altro caso emblematico caro agli antichi, è distante  dalla  raffigurazione  letterale  che ne è stata  data nell’ era post-copernicana, esso veniva usato per indicare più propriamente la fascia delle costellazioni zodiacali dominata da quattro nodi essenziali (tutti sullo stesso piano, per l’appunto) che dominano le quattro stagioni dell’anno: i due solstizi e  i due equinozi. Questi quattro punti costituivano i quattro pilastri su cui si reggeva quella conosciuta come la terra quadrangolare, ma nient’affatto creduta, come pianeta, davvero quadrangolare. Erano semmai le quattro costellazioni  in cui  sorgeva  il  sole  in  questi  quattro momenti dell’anno, ed era lo spazio piatto (su un piano) a definire i confini di questo  superficie, ossia  di  questa ‘terra’.  Con  la  raffigurazione di una terra, cioè di una porzione di spazio che sorge dal mare, si soleva indicare la costellazione che all’equinozio di primavera saliva dalle acque/mare fin sopra l’equatore, mentre sul versante opposto vi era una  costellazione che all’ equinozio autunnale scendeva sotto l’equatore, quindi veniva ‘sommersa dalle acque’ .

  Il linguaggio adottato dagli eruditi che ci hanno preceduto era insomma assai diverso dal nostro, le loro priorità scientifiche riguardavano moti stellari, spazi cosmici in cui i pianeti e le stelle si muovevano come persone ed ecco perché alcuni fenomeni per noi irrilevanti, come il ciclo della precessione degli equinozi, diventava uno schema fondamentale di riferimento, la cui conoscenza aveva il pregio di far prevedere le imperscrutabili traiettorie dei corpi celesti, idealizzati come entità viventi ossia, come dèi. Da ciò possiamo tranquillamente supporre che, forse, quelle popolazioni tribali, tutt’ altro che rozze e arretrate, disponessero altresì di nozioni fisico-astronomiche piuttosto avanzate. Furono successivamente i principi evoluzionistici a sotterrare quanto di scientifico queste antiche civiltà avessero riposto nel linguaggio dei loro miti e fu l’antropologia moderna a fagocitare definitivamente l’idea che dieci o quindicimila anni fa potessero esistere pensatori dell’ordine di un Keplero o di un Einstein, benché provvisti di mezzi sommari non paragonabili a quelli moderni. Dovrebbe così esser abbastanza chiaro che per gli antichi il mito avesse rappresentato la dimensione del tempo, ovvero degli intervalli temporali espressi in termini di misure angolari e non di spazio (distanze, superfici, volumi etc.). Per Newton l’universo era formato da un tempo e da uno spazio assoluti. Questa modalità di pensiero è stata oggi completamente assunta come indirizzo guida, ma nelle modalità concettuali del mondo antico, il tempo rappresentava l’unica struttura dalla quale l’illimitato (lo spazio) era  escluso. Le indagini pertanto non potevano esimersi  dal considerare i rapporti fra le cose, fra i corpi cosmici e i loro movimenti. Nell’universo arcaico tutte le cose erano punti di riferimento e segni congegnati l’uno nell’altro che si influenzavano a vicenda. Il  linguaggio classico è fondamentalmente  relazionale, le  parole  cioè vi sono astratte il più possibile a favore dei rapporti, dove il segno è lo strumento di un legame. L’adozione del nuovo linguaggio comporta invece l’esistenza di una natura frammentaria che si indaga per compartimenti stagni. La Natura diviene allora un insieme discontinuo di oggetti solitari poiché i loro nessi sono virtuali. ‘di più, sono arbitrari’ (Barthes, Il grado zero della scrittura). L’unico significato che se ne può trarre è che sono congeniali alla mente di chi li ha creati. In campo artistico si parla di disintegrazione della forma, di ‘amorfismo’, di trionfo dell’ incoerenza. Se pensiamo ai grandi interpreti del cubismo, alle loro opere più significative non possiamo fraintenderne il messaggio:  la realtà misurata e confrontata in termini di volume, di cui il cubo è il simbolo più immediato, perde di coerenza, smarrisce la sua interezza e completezza. Cosa rimane di un albero una volta che lo si sottopone a misurazione? I cubisti sono stati eccezionalmente espliciti nel rimarcare artisticamente questo paradosso della cultura moderna scientista e meccanicista.

   Tornando ai motivi favolistici dall’ apparenza innocente, potremmo a questo punto verificare come essi, alla luce di una comparazione relazionale, possano essere considerati validi elementi lessicali di uno specifico linguaggio tecnico. Il mito non fa che render conto di una fenomenologia globale e delle relazioni che in essa intercorrono, partendo da una fase iniziale. Il mito quindi, volendo cogliere i principi del funzionamento sostituisce gli oggetti e gli elementi con le persone e procede all’umanizzazione di determinate astrazioni. Esso ci pone di fronte a una terminologia specifica che avremmo potuto cogliere anche noi se non avessimo confuso il senso fra ‘primitivo’ ed arretrato e se gli specialisti dello spirito si fossero resi conto che i fenomeni delle scienze naturali sono comunicabili solo attraverso un gergo appropriato. E’ stato Isaac Newton a fare il tentativo (fallito) di decifrare la lingua dei profeti. Egli era convinto che quella lingua avesse un significato certo almeno  quanto  le lingue  volgari  delle  nazioni, un linguaggio che perciò si doveva solo imparare invece che fare come  i traduttori (gli specialisti dello spirito di cui si diceva poc’anzi) capaci di piegare i moduli e le frasi profetiche ai significati dettati dalla loro immaginazione o dalle loro ipotesi (Giorgio de Santillana).

    Del resto, così avevano insegnato i Greci che cercavano di adattare le orbite o le traiettorie dei pianeti a moduli geometrici precostituiti. Essi volevano dimostrare, a tutti i costi e contro l’evidenza, che le orbite di pianeti fossero circolari, perché si domandavano quali moti uniformi bisognava ipotizzare per dare ragione/spiegazione ai fenomeni. Gli astronomi greci rifiutarono  perciò di credere ai sensi (fallibili) e si misero alla ricerca di modelli geometrici coerenti per giungere alla conclusione che i loro modelli non motivavano ciò che gli occhi vedevano e che in virtù di essi non si potesse alla fine ricostruire e dimostrare l’apparenza sensibile, operazione  perfettamente riuscita, peraltro, a Tolomeo. La questione posta invece secoli prima dai Babilonesi era invece la seguente: come si possono calcolare/prevedere i fenomeni celesti? Perché mai essi non si torturarono con costruzioni geometriche ausiliarie? La soluzione va ricercata nel fatto che, prima di loro l’unica preoccupazione degli eruditi astronomi era il tempo. Essi si chiedevano semmai: quanto tempo occorre a un pianeta per completare la propria orbita?  La forma di questa traiettoria era problema di minor importanza, dunque. In epoche più recenti si è forse giunti a porre in dubbio l’arretratezza primitiva di certe popolazioni e si è cominciato a prendere in seria analisi la precisione di molte loro conoscenze astronomiche. Ma a questo punto sono sorti nuovi interrogativi rispetto il veicolo che possa aver trasportato nei millenni questo incredibile bagaglio di conoscenze. Negli ultimi decenni del secolo scorso, in virtù di un metodo di traduzione strettamente letterale, pur di non riconoscere le modalità logiche e l’erudizione di determinate culture, si è preferito credere alla possibilità che esse avessero attinto pedissequamente il loro sapere dalla tecnologia ultra-avanzata (per il periodo storico) di civiltà aliene.

      Parallelamente, fra gli eredi (e mistificatori) dell’antica terminologia  vi  sono oggi studiosi che avallano l’indirizzo  spiritualista, sedicenti esperti aggrappati all’idea che le antiche formule cosmologiche fossero riferite unicamente ad azioni e ritualità religiose. La vecchia speculazione antropologica dell’uccisione del re, proviene con molta probabilità dall’associazione del ruolo ‘guida’ del sovrano con quello cosmico della stella polare, l’unico elemento del cielo che appare immobile mentre tutto gli ruota intorno. Va da sé che, proprio come la stella polare, anche il re fosse destinato a ‘morire’ e a perdere il significato di riferimento primario, e quindi che anch’egli dovesse essere ucciso alla fine del suo mandato di ‘guida’ (vedere in  questo saggio, il paragrafo 'Le stelle polari nell’antichità'. 

      La stella polare dunque, dopo poche migliaia di anni, va fuori posto,  alla scadenza di questo periodo, allora, essa non poteva  più svolgere il ruolo guida che le era stato conferito dai solerti osservatori del cielo. Per orientarsi rispetto ai moti stellari occorreva dunque scegliere una nuova polare, un riferimento che si prestasse il più possibile a fungere da nuovo fulcro di rotazione dell’ asse terreste. Nel mito, questa mutazione veniva spesso immaginata e raffigurata come la rottura dell’asse che sosteneva la grande macina del tempo. Esiste una vasta raccolta di studi sui miti che narrano di questo particolare fenomeno, ma la maggior parte di essi generalmente vengono trattati come una sorta di profezia sulla fine del mondo, il ‘Crepuscolo degli dèi’.

   La catastrofe, insomma, spazza via in un sol colpo il passato ma subito ecco che ‘rinasce’ una nuova età, un nuovo cielo e una nuova terra con la sua ‘nuova’ stella polare. Tutti questi fenomeni si svolgono però in lassi di tempo estremamente lunghi, tanto lunghi da aver fomentato molti scetticismi sulla possibilità che siano stati semplici uomini ad analizzarne e concepirne le dinamiche. La durata di una vita umana infatti, specie se intesa come breve,  e nemmeno  più vite, una  dietro l’ altra, non parrebbero infatti sufficienti a monitorare correttamente la durata di un solo anno precessionale. Forse per questo si è dato troppo spesso per scontato che certe informazioni il genere umano le avesse trovate   belle  pronte   da  qualche  parte o, più compiutamente, che qualcuno gliele avesse messe a disposizione. Più ostico è di sicuro sostenere l’idea che la scoperta e il calcolo di simili cicli temporali si siano potuti realizzare grazie alla perseveranza di solerti osservatori che si sono anzitutto preoccupati di tenere una documentazione e poi si sono ingegnati per tramandarla alle generazioni future. Eppure, a voler lavorare di logica, la tecnica di osservazione e trascrizione sarebbe potuta essere piuttosto semplice da realizzare. Sarebbe bastato accorgersi, tramite opportuni riferimenti a terra, che una stella che sorgeva nel punto equinoziale e dopo un certo tempo si spostasse, mutasse cioè la sua relazione spaziale col sistema terra. Per gli antichi significava che gli ingranaggi del cielo si fossero in qualche modo spostati, perciò che non funzionassero meccanicamente come si presumeva. Ai loro occhi si presentavano moti e rivoluzioni che non erano in grado di spiegare ma solo di descrivere e questi scrupolosi monitoraggi del cielo rivelavano che per ottenere uno spostamento equinoziale di un astro  di soli 10 gradi di ampiezza bisognava attendere  ben settecentoventi anni; nella loro mente il cielo ruotava come una grande macchina del tempo, come ‘un’immagine mobile dell’eternità’ (Platone).

   In tempi remoti si credeva che solo gli déi potessero far funzionare o distruggere l’universo, ma la grande macchina celeste, in quanto generata dagli dèi stessi doveva essere perfetta, avrebbe dovuto produrre solo armonia e così fu in un tempo ricordato come l’Età dell’Oro. Quel tempo tuttavia non durò.  Per comprendere a fondo questi sbalzi si dovette dare un nome alle stelle e alla costellazioni, si  dovette imparare a misurarne i lentissimi  movimenti ma lo si fece attraverso un linguaggio specifico, il  linguaggio  del  mito  in  cui  si  descrivevano  lotte, guerre, mostri e titani. Gli antichi pensatori individuarono così il tempo del Grande Anno in quel ciclo perfetto nel quale i pianeti e le stelle dopo ogni rivoluzione tornavano al loro posto. L’osservazione , più meticolosa di quanto siamo oggi disposti a credere, portò in seguito a dubbi, poiché le cose e gli astri sembravano via via mutare gradualmente il punto del ritorno. Così parla   Osiride  nel  Libro  dei morti :

 

   Salve, o Thot! Coosa è mai accaduto   ai  figli  di Nut? Hanno  combattuto, hanno  sostenuto  la  contesa,  hanno fatto   strage  e  hanno  provocato  guai: in realtà, in tutto il loro operato i  potenti hanno agito contro i deboli. O  potenza di Thot, concedi ciò

che Atum ha decretato! E tu non vedi il male né ti lasci provocare dall’ira quando essi portano alla confusione i loro anni , si accalcano e spingono per disturbare i loro mesi; perché in tutto ciò che ti hanno fatto essi hanno operato iniquità in segreto.”

 

   Anche nell’ Enuma Elis, il poema della creazione babilonese, i portatori di iniquità, le forze che disturbano il placido ordine di Tiamat e di Apsu, sono i loro stessi figli, che “ agitandosi in lungo e in largo turbarono l’umore di Tiamat…I loro modi erano sgradevoli ed essi erano prepotenti.” Questo gran  baccano estromise il sole equinoziale dal segno (zodiacale) occupato nella precedente Età dell’Oro, il tempo dell’ordine e dell’armonia, e lo indirizzò verso nuove configurazioni astrali. Il  tempo cominciò a ‘guastarsi’ e nulla sarebbe in seguito tornato al proprio posto. I Figli del Cielo avevano separato i loro genitori portando e generando un nuovo cielo, una nuova terra e una nuova età. Quando perciò nei racconti giunti a noi dalle antiche civiltà si parla di battaglie, peregrinazioni, o smembramenti non bisogna credere che simili fatti siano realmente accaduti.


                                 Giocare con le parole e ragionare coi numeri

                    

   Il problema dell‘interpretazione dei testi biblici ha coinvolto nel tempo competenze diverse che spaziano dalla teologia alla scienza. Se da un lato i teologi hanno individuato svariati approcci orientati a fornire significati per lo più spirituali ed etici, dall’altro, in chiave non scientifica ma grossolanamente scientista, in tempi recenti si è proposta con maggior insistenza la necessità di affrontare il senso e il contenuto delle Scritture Sacre in misura strettamente letterale.

    Tuttavia, anziché assonanze, le due diverse modalità di analisi, hanno palesato fortissime inconciliabilità; ciò è avvenuto quando le due fazioni di studiosi si sono confrontate, e spesso affrontate, sul corpo scritto di matrice alfabetica. In questi differenti indirizzi di metodo è stata, a nostro avviso, trascurata la porzione strettamente connessa al contenuto numerico dei testi, poiché forse è stato minimizzato il valore cifrato riposto nei codici.

   Non ci si è mai soffermati insomma, sul problema di fondo, ovvero, se i numeri rappresentassero precisi riferimenti a contesti quantitativi, piuttosto che ideali o, addirittura, storici. I numeri sono stati semplicemente ignorati! L’eventualità che i Testi Sacri possano essere stati altresì, redatti in chiave criptica è stata presa in considerazione solo di recente ed è, a nostro modesto parere, a differenza degli altri due indirizzi di pensiero, una modalità che può dar adito a  risposte decisive.

    Ho voluto così rimarcare il fatto che, l‘esposizione scritta in assenza di numeri, a prescindere dal metodo adottato, o dal valore conferito ai significati (letterale o simbolico), si presta sempre e per definizione, ad interpretazione arbitraria. Sotto il profilo allegorico, viceversa, il raffronto delle cifre con la misura di eventi astronomici, può fornire caratteri e qualità probatorie.

    In  una delle traduzioni più diffuse del libro di Ezechiele, per esempio, in cui si parla del suo famoso sogno, finché ci si attiene al testo letterale, la descrizione delle ruote del carro potrebbe richiamare alla mente la raffigurazione di grandi ‘corpi volventi‘, meglio noti come cuscinetti a sfera (fra l‘altro i medesimi artifizi vengono oggi usati proprio nella fabbricazione delle ruote). La definizione dei testi sembra tratta proprio dalla visione di simili elementi metallici, ma quest’associazione intuitiva non deve  trarre  in   inganno non fornisce una prova ! 

 

“Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come  del topazio e tutt’e quattro la  medesima  forma, il  loro aspetto  e  la  loro  struttura  era come  di  una  ruota in mezzo all’ altra ruota ( le  ruote parevano congegnate l’ una dentro l’altra)...“

                                                                     Ezechiele 1: 17

 

“ …potevano girare  in quattro direzioni senza aver bisogno

 di  voltarsi  per  muoversi. La loro  circonferenza  era  assai grande e i cerchi, di tutt’e  quattro,  erano pieni di occhi tutt’intorno.“

                                                                    Ezechiele 1: 18

                         ___________________________

 

   Ciò per ribadire che le ipotesi qui proposte, proprio perché di ipotesi si tratta, non pretendono di riscuotere maggior credibilità di altre; finché ci si attiene, infatti, al significato letterale, tutte le opinioni godono di pari fiducia, il che vorrebbe dire che le precedenti descrizioni tratte dal Libro di Ezechiele, potrebbero benissimo rappresentare - per quanto inverosimile - dei cuscinetti a sfera, ma non è affatto detto che l’autore volesse davvero descrivere tali dispositivi, nulla dice  infatti che al tempo se ne avesse conoscenza. Quando si elaborano contenuti cifrati la cosa invece cambia: il significato matematico e dunque la quantità menzionata, laddove si concilia con dati precisi, e va a sovrapporsi a misurazioni rilevate con strumenti moderni, detta le gerarchie di attendibilità. Se il testo contiene - per fare un altro esempio - il numero 25725 e, a quanto pare, ciò combacia esattamente con la durata, in anni solari, del ciclo della precessione degli equinozi (Rilevata attualmente. Vedere a tal proposito il paragrafo successivo, Alcune informazioni per schiarirci le idee, tratto dal sito internet dell’astronomo Adriano Gaspani), non si può negare che sia proprio questo il significato conferito alla cifra dagli stessi autori, e poco importa se qualche accademico si ostina a minimizzare la cosa, celandosi dietro il paravento della casualità; non si può insomma ritenere una tal corrispondenza, il prodotto di una trascrizione casuale, mentre la descrizione della ruota contornata da numerosi occhi, potrebbe viceversa nascondere elementi simbolici. Le cose starebbero perciò su piani molto diversi! Il rifiuto del significato allegorico del numero 25725, deriva dal fatto che, per alcuni esegeti non sarebbe plausibile  che  antiche popolazioni del tutto ignoranti (specie di nozioni astronomiche) potessero calcolare la misura esatta di fenomeni planetari tanto complessi, come quelli legati all’oscillazione assiale terrestre. L’attendibilità del corretto significato non può dunque esser dato dal giudizio emesso dal gradino di una cattedra eretta a pulpito dell’autorità accademica. L’attendibilità, infatti bisogna cercarla nelle correlazioni!    

     Ed anche quando si parla di ‘oggetti volanti‘ (ma qui ci si avventura nel metodo dei traduttori letterali, come Mauro Biglino o Zecharia  Sitchin), mi sembra  che  all’origine di questa colorita idea possa esserci un vizio di valutazione rispetto al processo mentale delle associazioni concettuali, nel senso che, certi autori prendendo a pretesto le nozioni biologiche sulla percezione umana, cercano di imporre la possibilità che nell’osservazione di un oggetto sconosciuto, l’occhio umano selezioni il dato reale più prossimo a quello percepito visivamente, accorpando a questa cognizione nuova, caratteristiche appartenenti all'oggetto che già conosce ma di cui non ha piena percezione in quello nuovo. Con questa scusa, essi sostengono dunque che un qualcosa di moderno (proveniente da civiltà extraterrestri) sia stato veduto e successivamente raccontato da testimoni secondo l’angolazione e i mezzi comunicativi di un intuito primitivo. Dunque la traduzione letterale, secondo questa logica, sarebbe il miglior  mezzo per sondare la realtà, per capire se un evento sia accaduto veramente, oppure no. Ma quest’ordine di idee nasconde un inganno, o forse una imprecisione di fondo dovuta a una carenza dei traduttori, i quali, piuttosto che ingannatori andrebbero considerati ignoranti. Il vizio insito in quest’ordine di idee poggia essenzialmente su due fattori:

 

1)      Il dato apparentemente realistico potrebbe celare 

          contenuti allegorici.

 

2)      Il testo da cui prende spunto la traduzione – essendo

          consonantico -  non fornisce un’unica traduzione ma, a  

          fronte di una vocalizzazione orientata, può soddisfare

          più significati e persino significati opposti.

 

                    Dato realistico e contenuti allegorici

   Rispetto al punto 1), a beneficio dei lettori più attenti, anticiperò l’esito di una scoperta di cui scriveremo meglio e più  dettagliatamente nelle prossime pagine. Mi sono permesso di usare un termine tanto impegnativo, ‘scoperta’, proprio perché la cifra venuta alla luce non riguarda  un risultato su cui poter sindacare liberamente. Più avanti riporteremo ogni passaggio matematico delle sommatorie eseguite rispetto le quantità fornite dai redattori biblici (Bibbia masoretica, versione più diffusa Edizioni San Paolo) nel capitolo 8° del Libro di Esdra, dove, dal versetto 24 si parla di metalli preziosi offerti dalla comunità israelita per la ricostruzione del tempio. Le poche righe dedicate alla generosa donazione, sembrano far parte di un racconto reale, non suscitano sospetti riguardo l’eventualità di significati nascosti. Sembra davvero  che gli Autori del pezzo non abbiano avuto altra intenzione che offrire una testimonianza della devozione del popolo d’Israele. E chi dice di no! Il racconto, infatti, è scritto in una forma perfettamente accessibile. Nessuno mette in dubbio il rispetto degli antichi israeliti per il loro Dio! Ma ciò non toglie che lo stesso racconto ricco di cifre, possa racchiudere anche allegorie riferite a fenomeni astronomici. La soluzione di tipo allegorico, peraltro, convive pacificamente con tutte le altre versioni volte a sottolineare il messaggio etico. E non decade nemmeno la possibilità di un di un richiamo storico. Perché mai, ci domandiamo, sono sorte tante difficoltà fra gli accademici, nel riconoscere anche la precisione e l’importanza delle misure astrali celate nei numeri? Volendo pensar male, potremmo dire che gli accademici soffrano profondamente quando qualcuno mette in dubbio la loro parola, la loro coscienziosità,  lo vedono forse come un attacco al carisma e alla reputazione faticosamente guadagnata sul campo, che evidentemente considerano al di sopra di ogni altra cosa, di ogni altro parere. Eppure qui non si tratta di pareri , stavolta c’è di mezzo la matematica e, subito appresso, la puntuale e incontestabile verifica astronomica. Quella ufficiale, s’intende. 

     In virtù di quanto detto finora, è bene chiarire categoricamente che non ci siamo soffermati alla prima e più superficiale lettura del testo, viceversa abbiamo provato a spingerci oltre la semplice apparenza. La quantità dei sicli raccolti dagli ebrei, menzionata nel Libro di Esdra, induce così a una più scrupolosa riflessione di fondo, se non altro perché lo scritto, così come si presenta, sembra esortare il lettore a svolgere di propria iniziativa una semplice  operazione aritmetica. Vediamo dunque cosa dice il testo ufficiale:  

     

Esdra 8;24: “Quindi scelsi dodici fra i capi dei sacerdoti, e cioè Serebia e Casabia, con dieci dei loro fratelli * ,  consegnai loro  al peso l’argento, l’oro e gli utensili che il re, i suoi consiglieri, i suoi capi e tutti gli israeliti là dimoranti avevano offerto in dono al tempio del nostro Dio. Pesai dunque il tutto e consegnai nelle loro mani seicentocinquanta talenti d’argento, cento utensili d’argento da due talenti, cento talenti d’oro, venti coppe d’oro da mille darici (l’una) e due vasi di metallo splendente , preziosi come l’oro.


   Il primo dato che balza all’occhio riguarda il seme specifico dell’ammontare delle offerte. Tutto ciò che viene registrato, infatti, può essere facilmente ricondotto a un’unità di misura esatta: i sicli del tempio. Il talento d’argento corrisponde a un certo numero di sicli, e così il talento e i darici d’oro. L’addizione finale, raccoglie quindi alcune quantità espresse piuttosto chiaramente in sicli. Lascio al lettore il compito di svolgere l’operazione, rimandando la soluzione, come nei quiz della Settimana Enigmistica, all’articolo da noi dedicato alla specifica questione (Dal titolo: Il tempo è denaro). Ciò che possiamo dire fin da adesso riguardo quei sicli  è che, una volta raggruppati assieme, danno come somma una cifra estremamente esplicita, la durata del ciclo precessionale moltiplicata per cento (Dunque con l’aggiunta di due zeri). Il risultato ottenuto è quindi frutto del caso? Solo un ottuso potrebbe pensare che un valore così simile alla durata di un fenomeno cosmico, e dunque così precisa e significativa, possa essere stata buttata nel testo a casaccio. Ma andando a leggere, oltre l’evidenza più immediata e dunque oltre il senso del valore temporale della sommatoria in questione potremmo sostenere una possibilità (Coincidenza) ancora più sorprendente. Se infatti considerassimo i due vasi di bronzo dello stesso valore dell’oro dei darici (Come suggerisce il testo), ovvero delle venti coppe d’oro (Pari a 20.000 sicli), otterremmo come risultato 2.590.000 che corrisponde in scala temporale (1 siclo = 1 anno solare) a quasi cento cicli precessionali (Da questo riscontro è venuta l’idea del titolo ‘Il tempo è denaro’),. Sembra così che gli Autori del testo avessero introdotto la possibilità di un calcolo approssimativo e quindi avessero voluto fornire un range di variazione  fra i due valori limite, da intendersi come massimo e minimo (Un po’ come dire che ai loro calcoli il ciclo precessionale fosse compreso fra 25900 e 25745, se questa volta si considerano i ‘due vasi pregiati come l’oro’, aventi peso di 6000 sicli, per   1vaso=1talento.)


    Ma le nostre valutazioni non si sono fermate qua! Infatti se da un lato pare evidente che il testo esprimesse delle stime temporali, dall’altro non possiamo tapparci gli occhi davanti a una misura così indicativa che, nel suo valore assoluto, replica esattamente la quantità di chilometri percorsi dalla terra in un solo giorno (tempo) nella sua traiettoria di rotazione intorno al sole (Orbita). Infatti, oggi sappiamo che in circa 24 ore la terra - alla velocità di 30 chilometri al secondo - percorre in un giorno 2.592.000 chilometri esatti. L’approssimazione individuata, in questo caso, sarebbe minima, lasciandoci intendere che gli antichi scrutatori del cielo avessero davvero calcolato la velocità del moto orbitale terrestre e soprattutto la lunghezza dell’orbita terrestre intorno al sole, ma soprattutto indicherebbe che, già in quel periodo, i giorni dell’anno solare sarebbero stati contati nella quantità di 365, al posto dei 360 corrispondenti alla suddivisione arcaica dell’anno solare. Vediamo adesso di quanto la misura calcolata attualmente differisce da quella ipotizzata in questo articolo:

Orbita terrestre rilevata attualmente = 946.080.000 (Tratto da Wikipedia)

Orbita terrestre teoricamente calcolata dagli antichi:

              2590000 x 365 = 945.350.000

 

Scarto = 730.000 Chilometri

 

Anche i più critici verso i nostri calcoli, non possono fare a meno di prender atto di come la misura attuale preveda una quantità di chilometri quasi uguale al multiplo di 25920, quella misura cioè calcolata su base 72. Il che, ci fa pensare che da un certo momento in poi, gli antichi avessero  cominciato a valutare la velocità del ciclo precessionale nella sua formula arrotondata di 25920 anni (Dai testi ufficiali ritorna difatti con ricorrenza la cifra tonda 72, che riguarda appunto la velocità di percorrenza di un grado d’arco). Essi avrebbero quindi considerato l’anno precessionale come cifra di riferimento assoluta, proprio perché rappresentativa sia della misura temporale (anni) che di quella spaziale (migliaia di metri, o cubiti). Forse l’origine dell’unità di misura, il chilometro, avrebbe avuto origine proprio in seguito all’acquisizione di questa misura, di questa conoscenza fisica. 

 

*Dodici persone in tutto. E già questo richiama alla mente l’idea che i dodici chiamati in causa possano riguardare un intervallo temporale, benché non si possa sapere se questo riguardi i dodici mesi dell’anno o le dodici case zodiacali, costituenti l’anno platonico.


   Il testo masoretico (Codice di Leningrado) è già un corpo di scritti     vocalizzato, quindi polarizzato verso  specifici significati

 

   Il testo masoretico della Bibbia più diffusa e popolare, non deriva direttamente dagli scritti dei primi autori, rispetto ai quali, come più volte ribadito, non sappiamo nulla di certo. Esso è giunto nelle mani dei traduttori della scuola di Tiberiade alcuni secoli dopo la morte di Cristo (Sette), in un tempo in cui già la narrazione cristologica aveva acquisito enorme divulgazione e mirava a produrre nuovi contenuti concettuali, etici e fideistici nel mondo romano il quale, dopo un feroce periodo di persecuzioni e repressioni, si impegnava, non solo a rispettare i seguaci della nuova religione ma anche a garantirgli un ruolo di assoluta centralità spirituale. Gli attuali esperti di ebraico antico, una volta messo mano alle traduzioni già vocalizzate non hanno  però assicurato ai lettori/devoti la fruizione di un testo incontaminato e veritiero, considerato che essi abbiano operato sempre al soldo di qualche ente religioso e quindi abbiano avuto  l’obbligo di avallare specifici significati.

   Le traduzioni di cui si oggi si occupano gli ‘esperti di esegesi’ (Sembra quasi un ossimoro), sono dunque traduzioni di traduzioni precedentemente orientate e perciò, già modificate rispetto le stesure delle prime origini. Questo fatto è bene  tenerlo sempre a mente quando si parla di traduzioni. Ripetiamo quindi un concetto divenuto oramai familiare: se si parte dal testo consonantico, non si giunge necessariamente a una sola versione, bensì a molteplici modi di intendere una stessa sequenza consonantica. E sappiamo anche che, nessuno dei traduttori a servizio di un committente (Sempre di estrazione religiosa) si è mai sognato di tentare anche solo un timido  approccio alla porzione numerica dei testi, ritenendo opportuno soffermarsi unicamente e preferenzialmente sulla parte alfabetica. Pochi autori, fra coloro che  si avvalgono del  metodo (della traduzione) letterale sono disposti a riconoscere nelle loro versioni questi due cosiddetti ‘fattori di disturbo’ (Pag.30), se però ne sono informati e persistono nel loro scetticismo, non si può più parlare candidamente di inconsapevolezza, o di ignoranza, ma di malafede conclamata.

   

                                 Tornando alle nuvole


   Quando nei testi biblici si parla di nuvole, e si attribuiscono alle formazioni vaporose avvistate in lontananza, caratteristiche proprie delle nuvole (come quella di fluttuare nell’aria ed emettere rombi temporaleschi), si può intendere, sempre per gli autori di cui si è detto,  che l’osservatore abbia veduto qualcosa di simile a una nuvola che per nuvola sia stato scambiato. La nostra mente classifica e registra le esperienze in base a ciò che già conosciamo (E.H.Gombrich), non  è detto pertanto  che l’oggetto in questione abbia avuto tutte le caratteristiche di una nuvola, pur assomigliandole parecchio. Tali qualità possono essergli state attribuite, verosimilmente, per semplice associazione d’idee. La nuvola infatti non sarebbe altro che la proiezione della nostra mente rispetto a una realtà sfuggente. I traduttori letterali, cavalcando il successo di determinati studi di settore, ipotizzano che l’osservatore  nel raccontare la realtà percepita, potrebbe aver veduto qualcosa che non conosce che ha scambiato per nuvola; nel loro ragionamento però non tengono conto del fatto che l’osservatore-scrittore avesse potuto introdurre nelle sue definizioni  una figura conosciuta, allo scopo di rappresentare un’entità idealizzata di tipo soprannaturale di cui non può aver avuto conoscenza in forma di percezione sensoriale, bensì come sensazione di un suo stato d’animo, come espressione di un sentimento di fede. Anche il dio insomma, può esser raffigurato fisicamente e la narrazione può chiamare in causa caratteristiche di una qualche materia che si sa appartenere al cielo (come il dio); lo si può rappresentare come una struttura aerea luminosa e candida come una nuvola, che è un elemento di cui si ha parziale percezione fisica; lo si può immaginare rumoroso come il tuono, che dalla nuvola viene emesso e che, a sua volta, ha il potere di atterrire chi lo sente, proprio come la presenza di un dio potente abitante dei cieli e dei mondi superni. 

    Crediamo a questo punto sia pertinente inserire in queste riflessioni alcuni pensieri sviluppati in un articolo di  Ernst Kris (Studioso dell’arte) e Ernst Gombrich, i quali sostengono che il valore di un’opera d’arte non nasce dalla sua prossimità al reale, bensì dalla sua prossimità alla vita psichica dell’artista.

    Questo criterio, e quindi la possibilità di comprendere il significato dell’opera d’arte, dipendono ulteriormente anche dalla vicinanza dello spettatore/lettore alla psiche dell’artista. In sostanza, questo processo empatico non può prescindere dalla reazione dello spettatore e dalla capacità di ripetere nella sua mente il gioco di fantasia realizzato dall’artista. Un simile processo presuppone l’esistenza di un legame fra chi produce l’opera e chi ne fruisce. La versatilità del testo favorisce quindi, sia la comprensione/ condivisione spirituale nella mentalità e nell’ attitudine psichica di un soggetto credente, sia la totale empatia con la predisposizione dell’uomo moderno verso la tecnologia e i manufatti tecnologici. Ciò spiega il successo delle interpretazioni spiritualistiche e tecnicistiche, due ramificazioni culturali della civiltà Occidentale (e non solo) e implica la tendenza a concepire il significato dei testi talvolta in un senso talvolta nell’altro, ma soprattutto ci dice che, volendo intraprendere una terza via d’accesso alla comprensione dei testi mitici e volendosi distanziare dalla soggettività dello stato d’animo di credenti e laici, si deve tener conto di un altro fattore in gioco, quello fornito dai numeri e dalla loro autorità.  

    

  Nell’articolo redatto in preparazione di un libro sulla caricatura artistica, che peraltro non vide mai battesimo editoriale, Ernst Kris ed Ernst H.J.Gombrich argomentano il valore e la possibilità di fruire di un’opera d’arte partendo dall’analisi del soggetto caricaturale (Il linguaggio dell’arte in E.H.Gombrich. Paola Corapi). Tenuto conto dell’influenza della psicanalisi freudiana, Kris sostiene, in coro con Gombrich, che la lettura di un’immagine non è mai ovvia, in quanto lo spettatore si trova solitamente di fronte un messaggio ambiguo, un messaggio cioè che può essere inteso in vari modi. Sotto il profilo letterario, difatti, esiste una differenza importante fra intendere Amleto come una tragedia della vendetta o,  invece, come uno studio dell’indecisione nevrastenica. Anche noi, in accordo con le conclusioni di Ernst Kris, abbiamo analizzato le possibili varianti nell’ interpretazione della tragedia shakespeariana e abbiamo immaginato di poter applicare lo stesso criterio ai testi della Bibbia, oggetto principale delle nostre dissertazioni.

    Anch’essi infatti, secondo l’analisi del solo testo alfabetico, possono presentare ambiguità irrisolte, tant’è vero che gli stessi testi sono stati ritenuti simultaneamente validi sia rispetto la versione letterale (Secondo cioè i significati letterali che possono essere conferiti alla narrazione), sia rispetto quella più prettamente spirituale. Gli Autori biblici infatti, così come il pittore, debbono essersi posti il problema di come interagire col loro potenziale pubblico che non si sarebbe limitato a quello delle società del loro tempo. Anche lo scrittore, dunque, esattamente come il pittore, fornisce un primo invito all’ approccio del testo, in seguito sarà l’immaginazione del lettore a fare il resto. Questo assunto costituisce l’universo estetico di Gombrich; universo in cui soggetto e oggetto sono in continua relazione dialettica. Ridurre, per quanto possibile, l’informazione sulla tela , vuol dire per l’artista figurativo, stimolare il meccanismo della proiezione del fruitore dell’opera. Il campo delle possibilità è così aperto!, nel senso che il medesimo oggetto può , di volta in volta, essere guardato, ricordato e rappresentato dalla stessa persona in modi diversi, secondo il proposito del momento. Per questo si dice  che l’arte diversamente dalla scienza, non descrive la realtà, ma la evoca. Ciononostante l’arte non può ridursi a mero giudizio relativo, perché altrimenti nel provocare la sola evocazione di un sentimento non darà mai un capolavoro il quale, per esser considerato espressione di un talento superiore deve superare questo suo stato di soggettività. Deve perciò fornire elementi universalmente comprensibili e condivisibili. Se supponessimo che il redattore biblico volesse porsi come obiettivo primario, il superamento del fattore relativo, dovremmo capire che limitarsi all’utilizzo di un particolare stile, di un taglio favolistico della narrazione mitica, ma soprattutto limitarsi all’adozione di un linguaggio scritto sprovvisto di vocali, potrebbe significare escludersi dal raggiungimento dei più alti livelli espressivi, ovverosia, la rinuncia al proprio talento artistico. L’opera letteraria, quindi, affinché possa aspirare al carisma di capolavoro e di poter così superare l’ostacolo sempre in agguato dell’oblio, dovrebbe garantire assieme a una precisa forma (Ad esempio quella del racconto di fantasia) anche la presenza nel testo di elementi necessari a superare lo status relativo. Uno scritto, allora, dovrebbe mostrare anzitutto il suo lato comunicativo e più accattivante, mostrare dunque quelle qualità stilistiche che lo facciano entrare in empatia col lettore, e al contempo garantire contenuti non interpretabili, e attraverso gli stessi limitare l’effetto di consunzione temporale conseguente al giudizio emotivo dei fruitori dell’opera, che non può mantenersi costante nel tempo.

    Per dirla diversamente, il capolavoro a differenza dell’opera comune, deve conservare la capacità di sapersi elevare oltre  i caratteri evocativi del sentimento, i quali rimangono sempre vincolati fra le altre cose, allo spirito del tempo, alla contemporaneità e alla tradizione culturale. Vediamo allora che, al giorno d’oggi, lo scritto sacro, che è anche mitico, una volta privato per ottusità intellettuale del suo lato meno evocativo, e non trovandosi più in un contesto culturale adeguato (che  varia progressivamente nel tempo), viene ridotto a mera rappresentazione fantastica di valore trascurabile.

   Lo scritto mitico, categoria di cui anche la Bibbia fa parte, ha insomma perduto al giorno d’oggi l’ancoraggio al suo contenuto invariabile ed ha finito per esser relegato a quel tipo di narrativa di genere fantastico, improbabile ed inutile, destinata a non lasciare memoria di sé, a meno di non voler riscoprire, laddove si presenta possibile, il carattere polisemico e gli aspetti nascosti in qualche modo legati al dato quantificabile, al dato non-interpretabile.                        

 

    Ci soffermeremo meglio sui meccanismi della percezione umana nelle note conclusive di questo saggio, andando a rispolverare un interessante trattato di Ernst Hans Josef Gombrich nel quale si afferma a più riprese che la fedeltà della riproduzione non è una caratteristica necessaria alla rappresentazione artistica. Qualcuno potrebbe domandarsi cosa c’entri l’arte in questo contesto, però ad assottigliare lo sguardo verso le narrazioni favolistiche di genere mitico, possiamo affermare che gli autori si siano espressi in guisa di artisti veri e propri. Assodato che la ‘favola’ mitica, sotto il profilo letterario non disdegni affatto il taglio artistico, potremmo concludere che gli sconosciuti Autori della Bibbia -  al pari di altri scrittori delle epoche passate e soprattutto di quelle successive - si fossero espressi artisticamente, senza  allontanarsi poi tanto dalle licenze che, ad esempio, si concedevano i grandi pittori del Rinascimento. E difatti un pittore non è un  fotografo! Non ha l’obbligo della fedeltà, per il fatto che, come creativo, egli è una sorta di medium fra ideale e reale, la cui percezione è un derivato della peculiarità del suo temperamento. Questo discorso però vale anche quando certi termini vengono usati in senso simbolico.

    Gli sconosciuti Autori biblici non possono allora esser considerati cronisti di eventi a cui avevano assistito, o preconizzato il corso,; possiamo casomai ritenerli letterati a pieno titolo a cui era caro un messaggio, quindi un contenuto, ed intorno ad esso costruivano la rappresentazione ‘letteraria’ di una vicenda (Non una cronaca). I condizionamenti culturali e stilistici, inoltre, hanno contribuito a minare il realismo di talune rappresentazioni e ciò lo ritroviamo sia in ambito pittorico che letterario; ma su quest’ultimo piano, dobbiamo tener presente che i racconti mitici di molti popoli vissuti in un passato remoto, non hanno alcunché di reale poiché, essendo largamente intrisi di immaginazione, pare vogliano dissuadere il lettore dall’ avventurarsi nelle incognite di un approccio letterale. A noi pare chiaro che  questi Autori del passato intendessero concentrare i loro sforzi su contenuti ben distanti dalla rappresentazione realistica degli eventi. Ciò che a noi preme tuttavia rilevare in questa nostra analisi è la facilità con cui talune espressioni, attraverso il presunto corridoio letterale, o letteralista, possano essere facilmente adattate a significati e contenuti estrapolati dalla modernità e dalla tecnologia, ma in definitiva derivati da rappresentazioni immaginarie e costruite su significati simbolici oppure, a nostro modo di intendere, puramente allegorici.

   Alcuni hanno cavalcato la duttilità del testo su cui si sono cimentati, per giungere a traduzioni estreme, come quelle che hanno sobillato la teoria degli alieni, ma a nostro modo di vedere tali pseudo-certezze, per quanto suggestive, non rappresentano che una fra le tante soluzioni possibili, tutte ugualmente percorribili in virtù dell’opinabilità di giudizio di un testo instabile come l’ebraico antico; però, quando al testo di per sé altamente manipolabile, si aggiungono numeri esatti, ecco allora che l’apparente elasticità sembra lasciar spazio a soluzioni più attendibili, ammesso che la  fiducia conferita al contenuto allegorico di un testo alfanumerico sia la risultante della corrispondenza fra numeri e specifiche misurazioni di fenomeni astronomici. Solo in questo caso, quindi, riteniamo si possano trarre spiegazioni convincenti, le quali, viceversa, senza questa necessaria correlazione quantitativa finirebbero per risultare equivalenti e rimanere confinati nell’ampio contesto dell’opinabilità di giudizio, caro a manipolatori e affabulatori di ogni epoca. 

 

  L’immagine realistica delle nuvole  che solitamente fluttuano nell’aria, (Ve ne sono diverse nel Libro di Ezechiele), possono aver riguardato, pertanto, fenomeni fisici associati alla concezione aerea del cielo. Ma se si vuole spaziare più liberamente nei significati, vediamo bene che il profilo di una nuvola in lontananza, si può conciliare con quello di un vecchio veicolo a vapore (l’antesignano dell’automobile moderna)


 con i suoi alti sbuffi bianchi che ne confondono la sagoma; secondo la prospettiva che ci siamo impegnati a seguire in questa indagine metodologica, i dettagli percepiti della realtà circostante potrebbero essere stati volontariamente favoleggiati da un autore allo scopo di scoraggiare il lettore accorto dal tentare un approccio al testo di tipo realistico, ovvero l’approccio letterale. Un po’ come dire: è talmente assurdo da non poter essere creduto vero!

    Tornando al tema delle nuvole, bisogna anche dire che in fondo i testi non descrivono mai il movimento preciso di queste vaporose formazioni atmosferiche e, d‘altra parte, sostengono i letteralisti, chi non avesse mai veduto una locomotiva di vecchia concezione, come gli indigeni di una remota isola del Borneo, o gli indios dell’Amazzonia brasiliana, attraverso la percezione ottica condizionata dalla distanza e da favorevoli condizioni del vento, potrebbe benissimo essere indotto a credere di aver veduto una nuvola. E perfino i riflessi cromatici descritti nel libro di Ezechiele come luce di un ‘arcobaleno’, non ricordano forse l’effetto di uno sbuffo vaporoso su una superficie metallica levigata?

“Era  inoltre  circondato  da  uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia.“

                                                                    Ezechiele 1: 28

                    

   Simili elementi giocano pertanto a favore della logica seguita da quegli spregiudicati traduttori che oggi intendono conferire agli scritti un tratto moderno, virato sulla tecnologia, ponendo abili presupposti per far passare l’ipotesi che, simili congegni provenissero dalle meraviglie tecniche di una cultura aliena, giunta dallo spazio sul nostro pianeta tanto tempo fa (nel periodo, appunto, in cui sono ambientati i racconti biblici, e non solo). E che dire poi del rumore paragonato a quello di un ‘reggimento in marcia’? Quale associazione produrrebbe l’orecchio umano nell’ udire il fracasso di un motore a scoppio senza aver mai veduto prima un’automobile, o senza avere la minima idea di cosa essa sia?

    Il nutrito corpo di testi biblici offre una varietà illimitata di dettagli che si possono, in assenza di numeri, tarare ogni volta  sul modello di raffigurazioni realistiche, o pseudo-tali. Ciò dipende, non dobbiamo scordarlo, anche dalla capacità immaginativa e dal bagaglio di conoscenze del traduttore, quindi dalla ampiezza delle sue acquisizioni culturali, oltre che dalla duttilità offerta dalle caratteristiche di uno scritto privo di vocali.  

   Naturalmente queste nostre riflessioni scaturiscono dalla volontà di voler semplicemente intraprendere un ragionamento alternativo che, in definitiva, avrebbe lo scopo di ribadire che qualunque descrizione, specie in assenza di cognizioni ed esperienze precedenti, può prestarsi a tutte le variabili di una fedele raffigurazione realistica. In fin dei conti, interpretare non significa altro che fantasticare sulle possibilità, non certo porre basi raziocinanti volte all’esclusione del meno probabile. Tutto ciò sembra confermare che solo le rappresentazioni numeriche possono dirsi affrancate dal rischio di interpretazione arbitraria e a quest’ultima riflessione, diciamo di esser stati ispirati nello scrivere questo saggio.      

 

                       Alcune informazioni per schiarirci le idee

   In queste prime chiose  introduttive abbiamo spesso fatto cenno a un fenomeno planetario che per gli antichi doveva rappresentare la base di ogni conoscenza astronomica: il lento ciclo della precessione degli equinozi. Al giorno d’oggi, viceversa, pur reputandoci superiori alla loro cultura e ritenendo la nostra civiltà ben più evoluta delle loro, non abbiamo grande dimestichezza col significato di questo concetto astronomico, né conserviamo alcuna conoscenza di quello che pur viene frequentemente citato e ricordato come ‘anno platonico’. Se questa inadempienza può sembrare una grave lacuna in seno alla schiera di teologi, storici, traduttori e specialisti nell’analisi del mito, non lo è di certo per il comune lettore, per quelli cioè che - come il sottoscritto -   si avvicinano per la prima volta alla complessità dello studio del mito antico. Ho trovato utile riporre in poche righe le nozioni fondamentali che bisogna conoscere per districarsi in questa disciplina o, se non altro, per afferrare alcuni concetti di cui faremo largo uso nei successivi paragrafi di questo saggio. Ho trovato particolarmente adatto e conciso il materiale pubblicato in rete dal bel sito di Adriano Gaspani, del quale riporto il link a fine capitolo. Per chi trovasse difficoltà, suggerirei invece di seguire la spiegazione di Robert Bauval (Il link è facilmente rintracciabile in rete); ancora su You Tube, vorrei segnalare il canale associato all’interessante sito Profezie Evangeliche, affinché coloro che, pur del tutto profani di questi argomenti, possano trovare un aiuto  concreto, direttamente per bocca di grandi e capaci divulgatori. 


                                                           L'anno platonico

   Prima di addentrarmi nella disamina vera e propria della parte  cosiddetta alfanumerica dei Testi, ho preferito soffermarmi meglio sul concetto di ‘anno platonico’. Si è visto che se ci attenessimo alle informazioni passate dalla rete ci ritroveremmo a considerare a una serie di valori estremamente difformi rispetto la durata del ciclo precessionale biblico. Dopo una breve indagine verremmo tuttavia a conoscenza del fatto che le attuali rilevazioni, portate avanti coi mezzi e gli strumenti avanguardistici della fisica astronomica del Ventesimo Secolo, differiscono sostanzialmente dai valori individuati col ‘vecchio’ criterio di rilevazione, quello che si atteneva al rapporto con un punto fisso nel cielo. 

 Le pagine digitali dello strumento di informazione più in voga del momento, Wikipedia, lasciano intendere che i sistemi moderni, valutando lo spostamento della stella polare o ‘fissa’ (che fissa non è), giungono a calibrare con precisione il ciclo di precessione degli equinozi. Anticamente gli astronomi si rifacevano invece ad un diverso criterio che, ignorando l’ ulteriore e lentissimo movimento astrale del polo ‘fisso’, prendeva in considerazione solo una posizione dell’astro su cui puntava l’asse di rotazione terrestre. In tempi successivi essi devono aver scoperto che lo spostamento lentissimo della stella polare rispetto all’asse di rotazione terrestre ( in realtà è quest’ultimo a non mostrare regolarità a causa di un’ulteriore, impercettibile vibrazione del suo moto millenario) causasse una perdita dell’armonia del sistema cielo e spostasse di parecchi gradi il moto degli astri, cosicché essi finissero per mutare lentamente i loro rapporti con i punti equinoziali.     

    Le cifre riportate in alcuni libri del Pentateuco (indifferentemente, in tutte le traduzioni) mostrano invece di attenersi a un solo valore, corrispondente alla durata di un trecentosessantesimo  dell’intero ciclo precessionale ( lo spostamento di un grado dei riferimenti astrali convenzionali).

   Possiamo perciò affermare senza incorrere nel rischio di una smentita, che anticamente, il ciclo precessionale fosse calcolato secondo  uno ed un solo metodo e che venissero rilevati costantemente gli stessi valori i quali risultano giungere a noi attraverso l’opera e gli studi di Ipparco di Nicea (II Sec. a.C.), a sua volta attinti da antichi documenti (forse risalenti al periodo delle deportazione babilonese) provenienti dai  rapporti  dei  Caldei in lingua accadica e poi trasmessi

alla cultura ellenica attraverso la mediazione di quella ebraica. Detto ciò,  lasciamo al lettore la libertà di farsi un’idea rispetto  la modalità di rilevazione e l’epoca in cui possa essere stata calcolata la durata del ciclo precessionale.


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L’illustrazione  è tratta dal sito di Adriano Gaspani

INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica.

Osservatorio astronomico di Brera – Milano.

adriano.gaspani@brera.inaf.it 

http://www.duepassinelmistero.com/elementiarcheoastro4.htm

 

                                               La posizione degli astri.                                                                   I fenomeni che fanno variare la posizione apparente degli astri

     Esistono almeno cinque fenomeni che causano la variazione delle coordinate  di un oggetto celeste nel cielo. Esse sono: la Precessione, la Nutazione, l'Aberrazione, il Moto Proprio e  la Parallasse Annua, ma altri fenomeni di entità minore agiscono unitamente a questi cinque. La variazione delle coordinate istantanee di un astro durante il tempo può  essere sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo include variazioni a tempo breve le  quali  sono  da  mettere in relazione con il cambiamento istantaneo di posizione della Terra nello spazio e al suo moto orbitale attorno al Sole, mentre il secondo tipo  include le variazioni di natura secolare legate alla periodica oscillazione della direzione dell'asse di rotazione della Terra per effetto delle influenze gravitazionali combinate della Luna, del Sole e in misura molto minore, ma non trascurabile, di tutti gli altri pianeti appartenenti al Sistema Solare, soprattutto quelli di massa più elevata quali Giove e  Saturno. Il periodo storico generalmente preso in esame dalle ricerche archeoastronomiche si estende dal 6000 a.C. fino ai primi secoli dopo Cristo, di conseguenza anche le piccole perturbazioni sommandosi con il passare del tempo diventano importanti e producono praticamente una sensibile variazione della posizione degli astri nel cielo, della posizione dei punti di levata e di tramonto all'orizzonte astronomico locale e delle loro date, osservati da una determinata località geografica. Se non si tiene conto in maniera accurata di tutti i fattori, o almeno i principali, che producono una variazione delle coordinate di un oggetto celeste, risulta molto difficile, se non impossibile, identificare il corretto significato degli allineamenti osservati nei siti archeologici di rilevanza archeoastronomica. Un intervallo di tempo di 8000 anni è in grado di produrre un rilevante  cambiamento di orientazione dell'asse della Terra con la conseguenza che il cielo visibile oggi e quello visibile 8000 anni fa nella medesima località geografica risultano essere consistentemente differenti. A titolo di esempio osserviamo che da Milano, 7000 anni fa, poteva essere agevolmente osservata la costellazione della Croce del Sud, cosa che attualmente non è più possibile, ma che lo sarà di nuovo in un lontano futuro.

                                                                La Precessione lunisolare

      La direzione dell'asse di rotazione della Terra non è fissa nello spazio,  ma varia ciclicamente durante il tempo. Con il trascorrere dei millenni essa subisce una lenta deriva, detta Precessione, dovuta alla combinazione delle attrazioni gravitazionali del Sole e della Luna e, in misura minore, degli altri pianeti che fanno parte del Sistema Solare, sul rigonfiamento equatoriale della Terra. A causa della Precessione la posizione del Polo Nord Celeste ruota lentamente intorno al Polo dell'Eclittica con un periodo di circa 26000 anni, più precisamente 25725  anni  solari  medi. Il  valore di  25725 anni si riferisce al periodo ottenuto assumendo fisso il Polo dell'Eclittica, ma tenendo conto anche del moto di rotazione del Polo dell'Eclittica, il vero valore del periodo precessionale diviene ben 25784 anni solari medi. Una conseguenza di questo fatto è il cambiamento della stella ritenuta polare durante il trascorrere dei millenni.

                                  Moto dell’asse terrestre a causa della Precessione lunisolare

    Attualmente il polo nord celeste è situato molto vicino alla stella alpha Ursae Minoris, cioè la Stella Polare, ma in passato non fu così e non lo sarà neanche in futuro. Un'altra conseguenza del moto di precessione dell'asse terrestre è che il punto occupato dal Sole nell'istante dell'equinozio di primavera, cioè una delle intersezioni tra l'Eclittica e l'equatore, regredisce di circa 50" d'arco ogni anno muovendosi incontro al Sole sull'Eclittica. Oltre a questo si verifica che il piano dell'Eclittica non è fisso nello spazio, ma a causa dell'attrazione gravitazionale dei restanti otto pianeti sulla Terra esso ruota lentamente attorno alla linea dei nodi con una velocità di circa 47" d'arco per secolo. Siccome, sia l'Eclittica che l'Equatore sono cerchi fondamentali per due differenti sistemi di coordinate, quello eclittico e quello equatoriale, i valori delle coordinate degli  astri  visibili nel cielo variano continuamente; quindi la posizione

apparente di un astro nel cielo deve essere riferita ad una data. Una delle conseguenze della Precessione è che talune costellazioni che erano visibili nell'antichità in corrispondenza di un determinato luogo geografico sulla Terra, oggi non lo sono più a causa del fatto che esse non salgono più sopra l'orizzonte astronomico locale. Talvolta accade che in taluni siti archeologici esistano allineamenti che puntano verso punti dell'orizzonte in corrispondenza dei quali, durante il Neolitico o l'età del Bronzo, o del Ferro sorgevano stelle luminose appartenenti a costellazioni situate nell'emisfero celeste australe che oggi ci sono precluse a meno di spostarsi molto più a sud rispetto a dove le strutture furono edificate.

     Il fenomeno della Precessione è quello che produce la variazione più forte della posizione degli astri nel cielo e quindi è un fenomeno che riveste un carattere fondamentale dal punto di vista archeoastronomico specialmente laddove è necessario ricostruire accuratamente l'aspetto del cielo nell'antichità.

                                                 Le stelle polari dell'antichità

      Con il nome Stella Polare è comunemente identificata alpha Ursae  Minoris, cioè la stella più brillante della costellazione dell'Orsa Minore che attualmente risulta essere quella, più vicina al Polo Nord Celeste. La Polare è una stella di seconda magnitudine ed è attualmente situata a meno di un grado d'arco di distanza dall'intersezione ideale tra la direzione virtuale dall'asse di rotazione della Terra e la sfera celeste. Il moto approssimativamente conico dell'asse terrestre dovuto agli effetti della precessione lunisolare implica un cambiamento della posizione del  polo nord celeste nel corso del tempo. Il raggio della traiettoria descritta dalla posizione del polo è pari al valore istantaneo dell'obliquità dell'Eclittica il quale varia lentamente durante il tempo con  un  periodo  di  circa  41000 anni, di conseguenza la sua  traiettoria

non è un cerchio e nemmeno una curva chiusa, ma è una curva  leggermente irregolare. Una conseguenza estremamente interessante dal nostro punto di vista sarà che la posizione del polo boreale si sposterà virtualmente sulla sfera celeste attraversando alcune costellazioni in modo che con l'andare dei secoli e dei millenni varie stelle più o meno luminose avranno la sorte di essere le più prossime al polo. Esse saranno quindi le stelle polari tipiche delle varie epoche.                    

                                   La Sfera Celeste nella direzione del Polo

                                            Nord Celeste dell’anno 2000

       Traiettoria del Polo Nord Celeste tra le costellazioni in seguito alla Precessione  lunisolare. Appare quindi evidente che durante le varie epoche preistoriche e proto-storiche diverse stelle potevano essere utilizzate come indicatrici  della direzione cardinale nord. Durante il periodo in cui furono costruite le grandi piramidi nella piana di Gizeh, in Egitto, la  stella polare fu alpha Draconis (Thuban), mentre durante l'età del Bronzo, la stella luminosa più prossima al polo boreale fu k Draconis, sempre nella costellazione del Drago. Durante l'età del Ferro, la stella visibile ad occhio nudo che indicava la posizione del polo nord celeste fu invece b Ursae Minoris, (Kochab) una delle componenti della costellazione del Piccolo Carro.

 

 Informazioni tratte dal sito di :Adriano Gaspani, aprile 2008

http://www.duepassinelmistero.com/elementiarcheoastro4.htm