domenica 28 febbraio 2021

L'interpretazione del valore letterario (quarta parte)

 Al vaglio due lettere: le domande di un autore esordiente e la risposta di Umberto Eco.

Prima parte 

                                Autori Esordienti: scimmie o dèi? 

Come autori esordienti dovremmo accettare i criteri imposti dalla grande editoria e farcene una ragione, oppure tentare di  formularne di nuovi, di originali e ambire a nuovi spazi e traguardi?  Nelle pagine successive ho inteso rispolverare una vecchia lettera di Umberto Eco allo scrittore esordiente Simone Bartoletti. L’intellettuale, scrittore e semiologo Umberto Eco, rappresenta la punta di diamante di un’elite che si fa forte dei propri titoli, un’enclave di dotti dall’atteggiamento superbo, ai limiti dell’arroganza, anche se mascherato di buon senso borghese. Ma ciò fomenta sinistri sospetti rispetto al nostro quesito e cioè rispetto alla possibilità che le case editrici – attraverso criteri condivisi e condivisibili – riescano a far  emergere la qualità di un’opera mai pubblicata prima. La posizione dell’ ‘immortale’ autore è quanto di meglio (o di peggio) ci si possa aspettare da coloro  che sguazzano e ingrassano all’ombra del sistema selettivo ufficialmente adottato dalla grande editoria. Ma l’aspetto più controverso riguarda la remissività apatica di quelli che , entro un siffatto ordine di idee, hanno tutto da perdere.Purtroppo nella mia ricerca in rete mi sono imbattuto prevalentemente in plausi ammirati per la ‘logica’ di Eco e ancor più tristemente ho preso atto che le approvazioni per le sue parole provenivano oltreché dagli editori, come era ovvio attendersi, anche dagli aspiranti scrittori, i quali avrebbero dovuto sottolinearne quantomeno le inverosimili cazzate.

lettera di Simone Bartoletti (scrittore esordiente)

Caro Umberto Eco, Tempo fa ho inviato un mio “libro” ad alcune case editrici, che non si sono minimamente degnate di darmi una risposta. I loro indirizzi sono stati presi sempre su internet, dove chiaramente si poteva leggere che avevano interesse a valutare inediti. Non ho mai avuto sogni di gloria, anche perché non credo di avere i requisiti adatti, però ho voluto realizzare un mio piccolo sogno, cercando soltanto un parere autorevole su quello che poteva essere saltato fuori dalla mia testa, un consiglio, un cenno alla mia esistenza, niente di più. Ho creduto di poterlo trovare in un’ ambiente di cultura, che vive di arte e quindi ritenuto da me più sensibile, ma sbagliavo, ho trovato la più totale indifferenza nei miei confronti e soprattutto verso i miei sentimenti, verso l’amore che avevo messo in quello che avevo fatto, e il tempo che ci avevo perso. Forse sarò un povero analfabeta che sporca fogli nel tentativo di mettere in fila due pensieri, ma credo che un minimo di rispetto lo meritassi, solo per aver tentato. Invece sono stato schiacciato dalla più totale incuranza del mondo d’oggi. Non voglio cadere nella retorica, ma è veramente triste che su una decina di editori da me contattati, nessuno abbia avuto la “cortesia” di scrivermi due righe, che so: “La ringraziamo per la fiducia a noi accordataci ma siamo spiacenti di dirle che la sua opera è un ammasso di cavolate una latrina maleodorante, ci risparmi d’ora in avanti simili schifezze!”. Era troppo forse? Chiedo l’impossibile? È troppo distogliere per un attimo il pensiero dai propri meschini interessi per pensare che dietro a quel misero lavoro esiste un cervello, un cuore con dei sentimenti e dei sogni infantili? Ne arriveranno a centinaia di porcherie alle case editrici, ma basterebbe una lettera standard per dare una risposta a tutti, per non tradire la fiducia che qualcuno vi aveva riposto. Forse la sensibilità non fa più parte del mondo degli affari, visto che ormai anche i libri, l’arte di scrivere non è altro un modo come un’altro per fare soldi, non è altro che un mezzo, come può essere produrre spazzolini per il cesso, né più né meno.    Non voglio giudicare, non credo di essere un grado, ma se considero le porcherie che vengono stampate, o quel groviglio di letterine messe in fila da chi sa chi o da nomi illustri che garantiscano le vendite, forse, in mezzo a questo letamaio, un rimprovero, un incoraggiamento, una stroncatura definitiva me la meritavo. Adesso vorrei solo sapere se Umberto Eco o uno degli altri editori è disposto a leggere il mio “libro”, semplicemente per avere dei suggerimenti, un “bravo” o uno “scemo”. Se possibile rispondetemi, inviandomi magari un indirizzo al quale mandare il mio lavoro. Vi ringrazio anticipatamente, certo di non ricadere in un nuovo baratro di freddezza e indifferenza.”

                                                                                                  Simone Bartoletti

 'Certo di non ricadere in un nuovo baratro di indifferenza'...                                                                                Sigh! Dalla padella nella brace: il baratro in cui è incappato il giovane ed illuso autore, è anche peggio di quello che s'aspettava. 

                                  Perle di erudita saggezza                                                                  Risposta di Umberto Eco (Quand'era ancora mortale)

Disegno di Tullio Pericoli

                       "NON È BENE INVIAR MANOSCRITTI…"

                                                           Suggerisce l’immortale scrittore.

A meno che:

1)  non si parta da una posizione di assoluto prestigio sociale, che so io,non si  abbia  la fortuna di esser re, presidente di una nazione o deputato parlamentare,  dirigente o consigliere d’amministrazione di un’azienda di stato.

 2) non si abbia a disposizione: un canale televisivo (meglio se sono tre)

 3) non si goda dei favori di  un editore di rango ( condizione conseguente al punto b)

4) non si goda dei favori di una testata ad ampia tiratura                                                        ( condizione  conseguente al  punto a, b, c .)  

5) non si ricopra un ruolo dirigenziale un un’azienda televisiva.

6) non si sia disposti ad infarcire il proprio lavoro di contenuti ideologici.

Per puro caso il signor Umbro Eco poteva permettersi  di soddisfare tutte e sei le condizioni precedenti e, nonostante ciò,  prestando attenzione a non menzionare mai questo suo stato di invidiabile privilegio, si permetteva pure di dare consigli agli scrittori emergenti. Ma leggiamole dunque, le sue impagabili perle di saggezza:

Opera del pittore napoletano Mimmo Di Caterino

Caro Simone  Bartoletti,                                                                                                                                                                 Rispondo volentieri al suo messaggio
 perché spero così di raggiungere altre persone che si trovano nella sua situazione, per dire loro candidamente come vanno le cose a questo mondo. Vengo anzitutto alla sua ultima richiesta, se io sia disposto a leggere il suo manoscritto. La risposta è no, e le ragioni sono tutte ispirate a un profondo principio di lealtà. Io (ma questa situazione è comune a molti scrittori e studiosi di una certa notorietà) ricevo ogni settimana almeno una decina di manoscritti (spediti da persone che non hanno avuto la delicatezza di fare come lei, e chiedermi prima se potevano inviarlo), dei generi più svariati, in gran parte racconti e romanzi, ma anche opere storiche o addirittura dimostrazioni sull’esistenza di Atlantide o del continente scomparso di Mu. A questi si aggiungono bozze di libri inviati liberalmente da editori stranieri che chiedono un blurb, e cioè una di quelle frasi di raccomandazione dell’opera che si stampano poi sull’ultima di copertina o in fascetta. Dieci manoscritti alla settimana fanno 520 all’anno. Una persona come me, che fa il professore universitario, dirige una rivista scientifica e due collane specializzate, è tenuto a leggere (e correggere, e rileggere) tesi di laurea voluminosissime e manoscritti inviati per la pubblicazione, per dovere d’ufficio, oltre a seguire quanto si pubblica nel proprio campo, per tenersi dovutamente aggiornato (anche se la mole di materiale che arriva è anche quella insostenibile). Anche a volersi eroicamente occupare degli altri manoscritti in arrivo, si può dedicare al massimo (diciamo) due ore giornaliere, strappate al sonno, alla lettura di tale materiale – a parte il fatto che, dopo aver letto per obbligo centinaia di pagine, ballano gli occhi. Tenuto conto che per leggere (bene) un manoscritto che può andare da cento a quattrocento pagine, anche procedendo a tre minuti a pagina (che è lo standard della lettura veloce ad alta voce), calcolando un libro medio di 250 pagine, saremmo a dodici ore, e quindi 24 giorni per libro, i conti sono facili da fare. 24 giorni per 250 libri fa 4000 giorni, e l’anno ne ha 365. Pertanto chiunque (che non faccia il mestiere full time di lettore per una casa editrice), ricevendo un manoscritto promette di guardarlo, mente. Al massimo lo annusa, ne legge le prime righe, ed emette un giudizio evidentemente poco fondato. A me non piace ingannare la gente in questo modo.La informo di un altro particolare, su cui nessuno ha mai detto la verità. Quando l’autore noto di una casa editrice invia alla direzione un manoscritto che ha ricevuto, dicendo che vale la pena di prenderlo in considerazione, rarissimamente gli si dà ascolto. Vige la persuasione che l’autore noto abbia rifilato loro qualcuno che lo stava sottomettendo a molte pressioni e che se la sia cavata in quel modo. È triste ma è così. Passiamo ora alle case editrici che sollecitano manoscritti. Di solito cercano autori a pagamento, sono disposte a pubblicare qualsiasi cosa e se non rispondono è perché ne hanno già troppa. Sul funzionamento di queste case si veda cosa racconto nel mio Pendolo di Foucault a proposito del signor Garamond. È un romanzo, ma fondato su fatti reali. Una casa editrice seria e importante, che non sollecita pubblicamente manoscritti, ne riceve comunque tantissimi – certamente cento volte più di quanti ne riceva io. Di solito (ma non esiste una regola generale) cerca di farli guardare tutti. È improbabile che li possa leggere il direttore editoriale (altrimenti non avrebbe tempo per dirigere), e spesso li si affida a lettori esterni.  Quando lavoravo in una casa editrice ne conoscevo uno, intelligentissimo e con una penna intrisa nel vetriolo, che passava la giornata sdraiato sul letto e leggeva tutti i manoscritti che riceveva. Queste letture gli venivano pagate con molta parsimonia, ma tutto sommato così campava. Li leggeva davvero, e mandava giudizi di fuoco – anche se qualche volta esprimeva rispetto e ammirazione per qualche testo. In casa editrice si faceva fatica a leggere tutti i giudizi, di una o due cartelle, che costui inviava giorno per giorno. Io adesso non ricordo bene (anche perché di solito i manoscritti in arrivo sono di carattere narrativo, e io mi occupavo solo di saggistica) ma non ho presente alcun manoscritto che sia poi diventato un libro. Perché? Anzitutto si legga il gustoso libretto di Fabio Mauri, I 21 modi di non pubblicare un libro (Bologna, Il Mulino, 1990; per questo libro ho scritto una prefazione: Chi manoscrive è perduto). Riassumendo, un bravo editore è ansioso di scoprire nuovi talenti ma non si fida dell’autore che spunta improvvisamente dal nulla. Va cercare il talento là dove si forma, così come avviene nello sport, ed è raro che qualcuno arrivi ad essere assunto come centravanti della Juventus se non è stato scoperto e apprezzato mentre giocava in una squadra di serie B, e prima di serie C, e prima ancora nella squadra della polisportiva locale o dell’oratorio salesiano. La vita letteraria, almeno dai tempi di Catullo sino a oggi, è fatta di gruppi, di persone anche giovanissime che s’incontrano e si scambiano i loro lavori, poi li pubblicano su una piccola rivista, poi su una più nota, e passano, per così dire, una prima selezione da parte dei loro pari. Ed è lì che l’editore va a cercare le personalità interessanti. È verissimo che può esistere anche il genio sconosciuto, che vive in un paesino isolato dal mondo, ma di solito ogni attività “creativa” si svolge tra gli altri, e in questo modo si affrontano i primi giudizi, si impara. Se un editore cerca qualcuno capace di fargli una buona biografia di Giulio Cesare, va a sfogliare le riviste di storia, o i programmi dei convegni sulla storia romana. Solo così sa che una persona, che sostiene di essere esperta su Giulio Cesare, è già stata valutata da chi segue queste cose, e ha così una prima garanzia. Ma lo stesso avviene anche per i giovani poeti, che incominciano ad apparire su piccole riviste di poesia, o ricevono il premio di poesia per i liceali di Roccacannuccia, e iniziano a farsi conoscere. Se non hanno saputo arrivare almeno sino a quel punto, dove stavano, con chi si misuravano?  Il genio solitario non è mai escluso, ma quando si legge di scrittori ignorati in vita e scoperti dopo la morte, esempio massimo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si vede che in vita frequentavano cenacoli letterari, erano stimati da molti scrittori magari meno bravi e più fortunati di loro, non erano affatto dei selvaggi spuntati dal nulla. Raramente un grande giornalista è arrivato al quotidiano nazionale senza prima aver mostrato le sue qualità sulla gazzetta locale, o addirittura sul bollettino parrocchiale. Chieda ai grandi giornalisti. Le diranno tanti che hanno fatto una lunga gavetta e solo così sono diventati poi notissimi – anche perché far la gavetta vuole dire migliorare lentamente giorno per giorno. Questa persuasione, che gli editori hanno, che di solito è meglio cercare i futuri campioni in palestra, è giusta, e il più delle volte ha funzionato. Quindi, ai giovani che mi chiedono come fare pervenire un loro manoscritto al grande editore, io dico di non bruciare le tappe, e iniziare a farsi conoscere tra quelli che, come loro, scrivono, e pubblicano lentamente le loro prime prove. Potrei aggiungere che io, neppure da giovanissimo, ho mai mandato manoscritti a case editrici. Ho aspettato che un editore, leggendomi altrove, mi abbia proposto di fare qualcosa. È passato del tempo, ma ho sempre sostenuto che se sei caporale devi darti da fare per diventare sergente, senza voler diventare generale di un colpo. Se poi qualcuno dice orgogliosamente che non vuole sottoporsi al giudizio dei suoi pari ma è disponibile solo per il grande editore, e non vuole fare gavette, perché è convinto di avere scritto un capolavoro (e magari è vero) deve anche pagare per il suo legittimo orgoglio, e spesso accontentarsi di avere scritto un capolavoro, anche se gli altri non gli danno retta. Aspetti la riscoperta dei posteri, nella storia è accaduto. Passiamo alle lettere degli editori. Un editore che non risponde all’invio di un manoscritto (anche se qualche tempo dopo, perché abbiamo visto che, se lo fa leggere, gli ci vuole del tempo) è scortese. Un editore che risponde con la formula solita (“i nostri programmi sono già definiti per due anni”), è un editore per bene, e nessuno può lamentarsi se ha fatto il suo lavoro, che è anche quello di respingere almeno l’ottanta per cento delle proposte che gli arrivano. Quanto alla sua richiesta di ricevere almeno un giudizio sincero come “la sua opera è una schifezza”, ho conosciuto redattori editoriali che scrivevano all’autore perché e dove la sua opera non funzionava, invitandoli a rivedere il lavoro, ma di solito ricevevano in cambio lettere di insulti. Una volta è accaduto a me di scrivere almeno tre cartelle di analisi critica per dire a un signore (distinto professionista) perché il suo lavoro non andava bene e cosa avrebbe dovuto fare per migliorarlo, e qualche tempo dopo quel signore mi ha mandato copia di lettera inviata a un celebre brigatista rosso in carcere, dove lo invitava a dire ai suoi compagni a piede libero di punire non solo i loro diretti avversari politici, ma anche i detentori del potere mafioso editoriale (io nella fattispecie). Questo spiega perché è più comodo per l’editore declinare il manoscritto con una lettera cortese senza compromettersi troppo. Inoltre, se non esiste una editoria di stato, come nei paesi sotto dittatura, una casa editrice è una azienda privata e ha il pieno diritto di pubblicare quello che vuole o che ritiene più redditizio (magari non sempre in termini di denaro, ma anche di prestigio). Se sbagliano, peggio per loro. Editori famosi hanno rifiutato opere, di grande valore letterario o di grande successo commerciale, come Via col vento, Il gattopardo, Il Tamburo di latta, Lolita, e via dicendo, mentre altri sono stati più accorti. Un editore francese, tra l’altro carissimo amico e lettore molto fine, mi ha rifiutato Il Nome della Rosa (per carità, non glielo avevo mandato io, semplicemente lo aveva visto in catalogo dall’editore italiano) dicendomi “la balena è troppo grossa e non può funzionare commercialmente”. Invece un suo concorrente l’ha pubblicato, e gli è andata bene. È la vita editoriale. Ci sarebbe un modo per venire incontro all’autore solitario, evitandogli penose trafile? Forse c’è ma, dal secolo XV, quando è stata inventata la stampa, non è stato trovato. È certo che nei secoli hanno trionfato autori pessimi (ma poi i posteri hanno fatto giustizia), e sono stati lasciati cadere nel nulla autori bravissimi. In letteratura non vale il principio della selezione darwiniana, per cui sopravvivono solo i più forti (ma poi anche lì, perché hanno dovuto scomparire i dinosauri, che erano tanto buoni e simpatici?). Però, se ci voltiamo indietro, ci accorgiamo che tanti autori veramente importanti, che ai loro tempi avevano subito vari ostracismi, ci sono rimasti, e quindi si vede che in questa giungla, sia pure col sacrificio di tanti meritevoli innocenti, la vita è andata avanti in modo ragionevole. E se il vicino di casa di Proust fosse stato tanto più bravo di lui e nessuno se ne fosse accorto. Per lui sarebbe tristissimo, per l’umanità basta Proust, e avanza. So che con queste mie considerazioni non l’ho consolata. Ma, quando ero studente, un mio giovane maestro aveva fatto una conferenza intitolata “La filosofia non consola”, e da quel titolo (anche se non ricordo il contenuto) ho imparato molto. Ci sono due modi di consolare: uno è di dare false illusioni, ed è disonesto; l’altro è di spiegare come vanno le cose a questo mondo, così che gli altri, anche se non intendono adattarsi all’andazzo corrente, sappiano almeno come si può reagire.                                                                       

                                                                                                            Umberto Eco

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mercoledì 24 febbraio 2021

Sull'interpretazione della qualità letteraria (terza parte)

Le riflessioni raccolte nei primi due post sul principio di interpretabilità, hanno preso avvio dalla Scienza e dalla questione dei metodi operativi della ricerca scientifica occidentale, nonché  dalla sua vocazione al tecnicismo, che ha presto acquisito il carisma - proprio come auspicava Francesco Bacone – di polarizzatore etico delle coscienze. Dal comparto delle scienze naturali, il dibattito si è perciò allargato a macchia d’olio, anche ad altre branche della cultura. Per questa ragione, abbiamo ritenuto utile doverci soffermare, fra le altre cose, sul ruolo delle accademia artistiche, per poi ricondurre i termini del confronto ai problemi pratici  dell’editoria e ai criteri di selezione di un’opera letteraria.  Ci è sembrato che anche qui, il tema dell’interpretabilità di giudizio abbia assunto un carattere di assoluta centralità e abbia coinvolto, coi suoi surrogati metodologici, l’ambito della prosa, della narrativa e della saggistica. Le incognite rispetto alla qualità delle produzioni editoriali, rappresentano il nodo dell’intera faccenda, poiché se da una parte il gusto comune non può essere eletto a criterio di merito, dall’altra si pone come alternativa, e non senza contraddizioni palesi, il fumoso criterio dell’opinabilità del giudizio accademico.

  Valutare la letteratura

Premesso che, ‘valutare l’arte’  non significhi affatto, come qualcuno pensa, ‘attribuire  voti’,  ho inteso porre a confronto il parere di due professionisti della parola scritta e parlata, due studiosi di diversa natura, carriera e percorso professionale: il semiologo Lorenzo Renzi e il celebre scrittore  Umberto Eco, anch’egli docente di semiologia.  Il primo si esprime qui in merito alla poesia, il secondo  – attraverso una semplice lettera ad un autore esordiente – fornisce il suo punto di vista e una serie di 'consigli' in merito alla possibilità di valutare un’opera letteraria. Per motivi di laconicità  posterò inizialmente il contributo del professor Lorenzo Renzi,  mentre successivamente pubblicherò il testo dello scambio epistolare fra Umberto Eco e l'aspirante scrittore Simone Bartoletti, in un documento vecchio di qualche anno ma ancora attualissimo. Concluderemo questo argomento con un terzo lavoro del Prof. Luca Pareschi (reperibile qui) che, in seguito ad un’accurata indagine ed a un’interessante sequela di interviste, porterà alla nostra attenzione i pareri e  metodi di classificazione adottati dagli editor delle principali case editrici italiane. Il pensiero di Lorenzo Renzi appare, a mio avviso, come una voce fuori dal coro degli esponenti più titolati del circolo intellettualistico nazionale. Nel rivedere alcune sue convinzioni, oltre ad una umiltà non comune,  possiamo constatare la  una grande sensibilità verso una questione delicata da cui si abbevera l’ideologia e l’autorità dei cattedratici. Ma lui al contrario di tanti (compreso il sottoscritto) si dimostra  troppo elegante per da corpo a una polemica. .

'Fare a Pezzi una poesia'. O no? 

  Il professor Lorenzo Renzi  raccontò di aver un giorno ricevuto nel suo studio padovano la visita di un’insegnante di un istituto superiore, che gli chiedeva di relazionare ad una conferenza di insegnanti. La conferenza – gli suggeriva – non dovrebbe trattare di godimento e di comprensione, ma fornire agli insegnanti un metodo per interpretare e concepire una analisi critica oggettiva delle poesie.
– Un metodo? Chiese il professore.
– Sì, – gli spiegò la giovane insegnante – un procedimento, una serie di operazioni con cui in prima istanza un insegnante e in seconda istanza un ragazzo, possano affrontare un testo poetico. Un metodo valido per ogni testo poetico, cioè un metodo che permetta di scrivere qualcosa di sensato su ogni testo poetico. Automaticamente al professore venne in mente il titolo di un saggio di uno studioso inglese, J.M.H. Sinclair: Taking a poem to pieces. “Fare a pezzi una poesia” . – Questo si può pure fare; ma dopo averla fatta a pezzi, trovarne automaticamente un’interpretazione, no, questo non mi pare possibile. Posso fare l’analisi grammaticale di un testo, non l’analisi poetica. Che possa esistere un’analisi poetica non mi sembra.
L’interlocutrice insistette :
– Ma tutti i testi poetici non presentano forse dei tratti comuni?
– Questo sì –  Ammise lui.
– Allora non si potrebbero cercare prima di tutto questi?
Il professore cominciò a pensare che la giovane insegnante potesse avere più ragione di quanto credeva al principio.
–  Non mi sento tuttavia ancora maturo per dare una risposta nei termini che lei ( e forse anche il lettore di questo spazio on-line) mi chiede: una risposta che sia una ricetta. – Insistette, ma cominciò a riflettere sul fatto che il problema dell’insegnamento, anche una volta che si ammetta che esiste una poesia fuori della scuola e una dentro la scuola, consiste nel come trattarla, che uso farne. Come lavorare insomma sulla poesia?
Egli  provò a fare qualche osservazione a proposito.
– ‘La poesia presenta nella sua grande maggioranza un carattere comune evidente: l’organizzazione formale regolare, cioè il carattere “metrico”. (Beninteso, non solo i prodotti poetici sono composti metricamente: anche forme non-poetiche, dall’ arcaico indovinello al moderno slogan, sono composti metricamente). La critica formalistica e strutturalistica recente, hanno mostrato che i testi poetici presentano, oltre a questa regolarità, anche sub-regolarità, sia della forma che del contenuto, e che indagandole possiamo spesso scoprire dei nuovi sensi, o dei sensi profondi, di queste poesie.                                                                                             Altro aspetto della poesia è il suo spiccato carattere simbolico. Questo carattere è generale, ma certo è più visibile in certe poesie, e in certe correnti o scuole poetiche, che in altre. Certe poesie di poeti italiani contemporanei, come Giudici, Cattafi e Erba, pressoché sprovviste di caratteri metrici, sono tali per il contenuto interamente simbolico. La poesia consiste nella metaforicità dell’intero testo. Al polo opposto c’è una poesia dal contenuto oggettivo, in genere narrativo, sostenuta da una metrica regolare, densa di artifici formali. Anche molta poesia popolare e orale ha questo carattere: e ci si stupisce, a torto, del rigore e della fantasia dei suoi artifici metrici e formali.   Si può addirittura pensare a una compensazione, e a un dosaggio proporzionale di questi due caratteri. C’è una poesia con metrica rigorosa, e basso tasso di metaforicità, e c’è al polo opposto una poesia con poca metrica, ma ad alta metaforicità. Nella prima la bella forma pare inviti ad essere osservata: si è parlato di messaggio centrato su se stesso, autoreferenziale (Jakobson). Non conta ciò che dico – sembra dire il testo –, conta come lo dico. Nello stesso modo, in un quadro, il fatto che vi sia rappresentato un clown o Cristo flagellato è meno importante della disposizione delle linee e dell’incontro dei colori. Nella poesia più simbolica l’essenziale sembra essere invece ciò che non è detto, ma che è oltre il testo: il suo messaggio simbolico.Il professore propose quindi di valutare le poesie secondo questi due parametri. Tasso metrico e tasso simbolico.   Leggo in questa chiave due poesie moderne che appartengono piuttosto al secondo tipo (poca metrica, molto simbolo): Vie dangereuse di Blaise Cendrars (del 1927, in Feuilles de route) e Via Stilicone di Giovanni Giudici (del 1984). Cendrars:

Vie dangereuse:
Aujourd’hui je suis peut-être l’homme le plus heureux du monde
Je possède tout ce que je ne désire pas
Et la seule chose à laquelle je tienne dans la vie chaque tour de l’hélice m’en rapproche
Et j’aurai peut-être tout perdu en arrivant
 
Vita pericolosa:
Sono forse oggi l’uomo più felice del mondo
Possiedo tutto quello che non desidero
E alla sola cosa alla quale io tenga nella vita ogni giro dell’elica mi ci avvicina
E avrò forse perduto tutto arrivando



In questa poesia di B. Cendrars non c’è metrica. Poesia senza metrica vuol dire senza rime, senza ritorni regolari di accenti. Apparentemente, è vero, ci sono dei versi, ma in realtà esistono solo tipograficamente. La loro lunghezza esagerata, del resto, la attribuirei al tentativo di evitare che un verso metrico vero salti fuori, come può avvenire facilmente, per caso. Si tratta chiaramente di una provocazione, cioè di un tentativo, tipico di quegli anni di Cubismo, di Futurismo e di altre correnti rivoluzionarie, di fare della poesia con mezzi antipoetici. Cendrars spara a zero contro i due criteri che ho evocato. Contro i valori simbolici mobilita la più totale prosaicità del contenuto. Per es.:

Diner en ville :
Mr. Lopart n’était plus à Rio il était parti samedi par le “Lutetia
J’ai diné en ville avec le nouveau directeur
Après avoir signé le contrat de 24 F/N type Grand Sport je l’ai mené dans un petit caboulot sur le port
Nous avons mangé des crevettes grillées
 
Cena in città
Il sig. Lopart non era più a Rio era partito sabato con il “Lutetia”
Ho cenato in città col nuovo direttore
Dopo aver firmato il contratto di 24 F/N tipo Grande Sport l’ho portato in una piccola osteria sul porto
Abbiamo mangiato dei gamberoni alla griglia…

Che cos’è ciò che chiamiamo un contenuto prosaico? È qualcosa che non ci riesce di metaforizzare a nessun costo. Sfido chiunque a trovare un valore simbolico in quel contratto e in quei gamberoni alla griglia! Ma nel poemetto in cui versi come questi e Vie dangereuse si trovano gli uni accanto agli altri, Vie dangereuse è un grumo di poesia. E questo perché la sua oscurità ci invita a interpretare il testo come una metafora. La poesia ci presenta uno stato d’animo contrastante con la sua motivazione; si è felici di avere ciò che non si desidera; ci si avvicina all’ essenziale, e questo provocherà la rovina. Ma di che cosa questo stato di cose può essere la metafora? Ma delle contraddittorietà della condizione umana in generale, e dell’uomo moderno in particolare. E potremo qui cercare appoggio, per es., nella filosofia esistenzialista, che Cendrars, dati gli anni, non poteva conoscere, ma preannunciare sì. E quel “giro d’elica” del verso 3? Chi legge questa poesia nel contesto dell’intero poemetto, viene solo a sapere che il poeta è in viaggio per mare sulla costa del Brasile, in crociera. L’elica è, quindi quella di un bastimento. Un viaggio non pericoloso, dunque: è la vita, come dice il titolo della poesia (Vie dangereuse), non il viaggio che è pericoloso, il viaggio è una banale crociera. Chi legge questa poesia nel suo contesto è portato, diciamo, a stralciarla e a fare come chi la legga isolata: nel contesto non dà un senso concreto; proviamo dunque in isolamento a considerarla come una metafora della condizione umana.La vaghezza della metafora è il risultato di un esame negativo di altre possibilità. Notate che la poesia può sembrare un indovinello: chi è la persona più felice del mondo?(Quella che possiede ciò che non desidera.) Prima di chiudere quest’abbozzo di analisi, – Osservò Renzi – voglio accennare alla doppia direzionalità del confronto tra un autore antico e uno moderno. Paragonare Cendrars a Petrarca ci può servire a chiarire a fondo il carattere di enigma frustrato che ha la poesia di Cendrars. In lui c’è un enigma senza soluzione. Ciò che al poeta medievale pareva un problema, al poeta moderno sembra un mistero. Ma si impara qualcosa anche a cambiare la direzione del confronto, e cioè a paragonare un antico con un moderno. Roberto Longhi, il grande storico dell’arte, usava paragonare Giorgione a Manet, Tiziano a Renoir, Ercole de’ Roberti, ai cubisti, non viceversa. Nel nostro caso (e non solo)  il confronto ci aiuta meglio a notare il carattere paradossale della rappresentazione.
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PER IL MOMENTO MI FERMO QUI. LE RIGHE  RIPORTATE IN QUESTO CONTRIBUTO MI INDUCONO A SEGUIRE IL SENSO ANALITICO DEL DISCORSO PORTATO AVANTI DAL PROFESSOR LORENZO RENZI CHE CREDO, CON I DOVUTI DISTINGUO, POSSA ESTENDERSI ANCHE AL MONDO DELL’ARTE FIGURATA.


Lorenzo Renzi, Come leggere la poesia, Il Mulino, Bologna 1987.

lunedì 22 febbraio 2021

Sull' interpetabilità dell'Arte (seconda parte)

   

                      La misura (interpretabile) del bello

Che significa valutare un’opera d’arte, un dipinto, un libro, una canzone, o perfino un blog?  Il problema per alcuni  si riduce a una questione di  prezzo, mentre  altri,  nel rifiuto della prima accezione, si dicono convinti  che, sottoporre un’opera d’arte a un giudizio di qualità sia un atto  sacrilego  ed inutile, destinato al fallimento.

  Il principio di non-valutabilità , o  non-classicabilità, diventa quindi, nell’attuale periodo storico, la posizione più rappresentativa di un certo intellettualismo da copertina e di una  sensibilità popolare inconsapevole che ad esso si affida per le proprie scelte di gusto, nel più totale spregio per quella  strana inclinazione dell’animo che  sarebbe bene saper ‘metter da parte’ non appena la si è imparata. I nuovi farisei allora,  preferiscono seguire a traino l’indirizzo accademico, così come nella Gerusalemme di duemila anni fa quando era peccato contravvenire i precetti  dei sapienti o degli eruditi del Tempio, gli unici a possedere  la certificazione del Padreterno rispetto alla mercificazione  delle indulgenze e degli olocausti. L’accademia tuttavia, da che mondo e mondo, è sempre stata vincolata all’autorità che, come emanazione del potere dominante, opera ed ha sempre operato nella storia per alterare le regole del mercato e per drogarlo con le tecniche della pnl (programmazione neuro linguistica).

Si trova in rete  un filmato molto esplicito, realizzato da alcuni detrattori del darwinismo (cavallo di battaglia di un’ accademia scientifica stantia e superata, ma perfettamente ammanigliata ai domini della diffusione informatica) nel quale viene presentato un sistema estremamente valido per certificare le ipotesi scientifiche. Per confutarlo, qualora fosse stato possibile, si sarebbe dovuto operare nella stessa maniera, fornendo cioè prove empiriche, ma a quanto pare nessuno, fra i migliori esperti del settore, ha prodotto prove decisive contro questi esperimenti. Ciononostante il darwinismo, nell'immaginario comune,rimane un'ipotesi ancora largamente accettata e divulgata. E a  nulla sono servite le dimostrazioni di codesti Professori, che hanno messo sotto scacco i sistemi di datazione ufficiali, perché l'accademia, senza preoccuparsi di fornire efficaci controprove (evidentemente improponibili sotto l’aspetto scientifico), si è limitata a cancellare da ogni organo della diffusione mediatica ogni riferimento a questi arditi ricercatori e ai loro lavori. Il professor Enzo Pennetta ne accenna diffusamente qui . Ricordo che un’analoga operazione di insabbiamento, fu intentata contro l’astronomo Arp (radiato dai circoli che contano), reo di aver contestato la validità scientifica del parametro con cui si calcolavano le dinamiche volte a spiegare l’effetto del Big Bang; mi pare si trattasse del red shift  e che l'astronomo dissidente l'avesse definito, se non ricordo male, parmetro interpretabile '.

 E chi non ricorda il carrozzone mediatico allestito per promuovere la ricerca genetica? Anche il progetto Genoma patrocinato una dozzina d’anni or sono dal premio Nobel Renato Dulbecco e finanziato dalle case farmacologiche più influenti del pianeta, è andato incontro a fallimento (qualcuno se ben rammento, ha perfino tentato una truffa) nell'indifferenza generale. Una goccia nell’oceano delle falsità accademiche, le quali hanno un comune un solo fattore : l’interpretabilità dei parametri che si vogliono arbitrariamente imporre e promuovere nella veste di criteri obiettivi, quali non sono, come spiegano in questo imperdibile video , il Prof Sermonti (biochimico), il palentologo Roberto Fondi ( Istituto Scienze Naturali Università di Firenze), il sedimentologo Guiberteau, il geologo Boudreau (Prof. Chimica organica in Louisiana).

                 Celebre illustrazione satirica di fine Ottocento

  Le accademie, dunque, definisconoprima di tutto  la loro fisionomia e la loro ragion d'essere, ma per quanto si affannino non fanno che promuovere modelli, dettare criteri, formare critici onnipresenti sul palcoscenico mediatico, prim'ancora che artisti. Il circolo è vizioso come ben sappiamo, però se approfondissimo un tantino la questione e andassimo scomodare la fisica delle particelle (oltreché PP Pasolini, il semiologo Lorenzo Renzi e una mezza dozzina fra fisici quantistici e premi Nobel) cominceremmo capire che un organismo complesso, quando risponde a un principio d'ordine che può essere meccanicamente rappresentato, è destinato a morte termica. Allora se ne evince che è dal 'disordine' che si forma la scintilla creativa.  

Le tre colonne della cultura 

Arte , Scienza e Religione sono le colonne portanti della cultura e delle culture dei popoli. La funzione dell’Arte è complementare a quella del Sapere e della Religione. Per ciò che concerne, quindi, i parametri valutativi con cui fornire un criterio di stima ai prodotti dell'Arte, della Conoscenza e della Religione, bisogna dire che siamo ancora fermi al punto se considerarli importanti o meno in un processo di analisi critica. Il valore dell’Arte, pertanto, comunque vogliamo considerarlo, rimane un fattore che ci viene imposto dall’alto o, al meglio, dal mercato. Il problema che vorremmo affrontare in questa sede riguarda allora la possibilità di individuare nuovi criteri di valutazione capaci di esprimere un valore di qualità del prodotto artistico o di una conoscenza scientifica. 

 Domanda:

 Cosa siano le Accademie lo sappiamo; il modello dell’Accademia Medicea rappresentava un bene di ricerca a  disposizione del pubblico e del comune.  Le Accademie nascono pertanto autodeterminandosi nella loro comunità, nel nome di una presa di  distanza dalle corporazioni di Arti e Mestieri e di un bello che sapesse di contenuto e non di forma. Quando si parla di Accademia secondo questo significato, si parla di una cosa che con il mercato privato contemporaneo ha poco o nulla in comune, come le Accademie  Rinascimentali non avevano niente in comune con il “mestiere”  dell’artista. Da questo punto di vista occorrerebbe aprire un altro fronte di  discussione, ossia, cosa dovrebbe essere oggi una pubblica  Accademia di Belle Arti?

Risposta:

    Non so come debba essere un'Accademia, ma ho qualche idea su come non dovrebbe essere. Inutile credere che una struttura capace di  manipolare l’informazione e stilare graduatorie arbitrarie di compiacenti meritevoli, possa svolgere una efficace funzione dialettica. Ma l’accademia (nell’ accezione i cui mi sto sforzando di ribadire)  non è attualmente un luogo di confronto autentico, altrimenti promuoverebbe quelle necessità  di valutazione dell’arte e dell’artista in opposizione all'insindacabilità dei parametri di mercato. Essa quindi è il luogo, non tanto del privato, ma più esattamente, del privato che attraverso il controllo delle risorse vuole – come è sempre stato – garantirsi una posizione monopolistica (iper-privatizzazione). Da una vera Accademia dovrebbe partire un logica critica volta a denunciare tutto ciò che avvilisce l’arte. Un’ Accademia dell’Arte dovrebbe  pertanto cominciare a distruggere i vecchi criteri mercantili e affrancarsi dal tentativo del controllo delle risorse (non mi sembra che lo faccia, però), dovrebbe perciò combattere la tendenza del privato al monopolio, in tutti i campi, sbugiardando le strategie di profitto e mettendo alla berlina i ‘sacerdoti’/critici da palcoscenico che solo al criterio del profitto sembrano sapersi attenere. In poche parole Un'Accademia ideale dovrebbe soprattutto istruire ed emancipare le menti. I privati che agiscono in un contesto  garantito dalle leggi del libero mercato, non rappresenterebbero un problema. E’ la loro vocazione al monopolio ad esserlo!    Un’accademia dovrebbe allora e prioritariamente ingegnarsi a formare graduatorie alternative a quelle ufficiali e non rifiutare, per partito preso, il principio in sè. Ed è pur ancora valido il teorema che vuole gli artisti inglobati nelle maglie del sistema accademico, espressione totalitaria del prevaricante privato a vocazione monopolistica. Tuttavia  ciò non vuol dire che l'Accademia così come strutturata sposi il pensiero dei veri artisti, ne promuova le innovazioni. Non significa che si mette a loro servizio, come invece dovrebbe fare una volta vagliato il merito. Non sembra però che le accademie si prodighino a favore degli artisti non-allineati, semmai li affossano, ne temono la  concorrenza che può mettere in ombra i loro pupilli, quelli selezionati per il mercato. Ai tempi in cui il potere dei media non era invasivo come oggi, gli artisti potevano guadagnarsi, a fronte di dure controversie, larghe fette dell’attenzione e approvazione pubblica e solo dopo aver  imposto i contenuti e i significati del loro lavoro (e quando le loro scoperte/rivelazioni arrivavano ad intaccare l’ autorità dei cattedratici) si ritrovavano le porte dell’accademia aperte. Non prima però. Prima venivano mortificati con nomignoli e appellativi ridicoli. Bisogna peraltro osservare che, una volta entrati nelle grazie dell’autorità, essi non potevano più sottrarsi al tentativo di fagocizzazione del sistema il quale, attraverso la grande distribuzione, la promozione e la concessione degli spazi espositivi più in vista, ne costruiva la caratura e l’imperitura celebrità. Lo scopo era ed è, quello di corromperne il pensiero, naturalmente, intaccare la forza persuasiva delle loro scoperte, del significato delle loro opere. Questo è il punto. In pochi resistono la tentazione e quando l’accademia non riesce nella sua opera indefessa di contaminazione dei vivi, provvede a farlo coi morti.      Questo fenomeno si ripropone con sconcertante puntualità nei secoli e in ogni settore della cultura.

                                Georges Braque 

  Se pensiamo all’epopea impressionista non possiamo difatti esimerci dal domandarci cosa ne sia stato della contestazione ai principi dell’ottica newtoniana. Esistono numerosi documenti su questo fatto e mi domando sempre  se un professore dell’artistico conosce questo aspetto ‘scientifico’ del movimento impressionista (dedicherò un post sull’argomento, se ne troverò il tempo.) o della feroce campagna dissacratoria del cubismo al metodo di indagine meccanicista. Il movimento cubista, a vedere la storia, prese le distanze da quegli esponenti che, in cambio della consacrazione accademica, voltarono boriosamente la loro gabbana. 

Se poi volessimo sconfinare nella letteratura avremmo modo di vedere come la  sinfonia sia sempre la stessa. Vogliamo inoltre parlare di PPP Pasolini? I testi scolastici si guardano bene dallo sviscerare le sue effettive  posizioni politiche e filosofiche, il suo attacco cioè al sistema mediatico il quale,  invece che ammorbidire la sua presa sulla società l’ha oggi centuplicata. Ma di Pasolini si ricorda la lirica poetica morbida e quattro inutili versi, oltreché le menzogne sulla sua morte. L’elenco  comprende i Palazzeschi, i Prigogine, gli Heisenberg, i Majorana* passando per figure di assoluto rilievo come Blaise Pascal, e Dio solo sa quanti altri ancora.

                             “ Quando gli artisti approdano alle antologie

                            didattiche o sugli almanacchi ufficiali dei musei,

                            sono belli che sepolti, menti ufficialmente

                            defunte ma buone ancora a cavar quattrini.”

Canta Vecchioni in un motivo d’altri tempi – “se arrivo  vuol dire che serve a qualcuno…”

e gli fa eco Caparezza – “Se la sala è piena il film fa schifo!”

    Non condivido gli eccessi pessimistici del secondo, mentre trovo più nelle mie corde l’intuizione del primo Vecchioni, ‘primo’ nel senso di vecchio cantautore iconoclasta delle origini .

   I libri, tuttavia, possono esser cambiati/riscritti  (non è più necessario bruciarli come nel Fahrenheit 451 di R.Bradbury ), i concetti originali degli autori sovvertiti di sana pianta. Aldilà della giusta avversione di qualcuno per le citazioni, debbo segnalare alcuni vecchi testi (pubblicati da premi Nobel) completamente modificati nelle recenti edizioni. Voglio dunque ricordare ‘La Nuova Alleanza – Y.Prigogine, I.Stengers, del quale conservo le due copie: vecchia e recente. L’ultimo di questi giunto da poco alla mia attenzione, riguarda l’affare Majorana*.  Sul mistero della sua scomparsa, un tal fisico di nome Agamben costruisce ipotesi  (semplici congetture lo si ricordi sempre, mescolate a stralci di documenti originali)  volte a  oscurarne le scoperte e le intuizioni. Ebbene, l’accademia può questo ed altro, quando controlla i domini della diffusione informatica. Ciò, nel caso specifico che stiamo trattando,mi fa pensare che la meccanica quantistica sia temuta, forse per la efficacia comunicativa dei suoi padri fondatori e interpreti. Il tema, apparentemente off-topic, risulta invece assai attinente alle argomentazioni di questo post, proprio perché i fisici quantistici di cui s'è detto poc'anzi, hanno posto gli stessi interrogativi sulla valutazione di un’opera d’arte, sullo spirito di ricerca che anima gli artisti (paragonata alla ricerca scientifica) che io qui, forse velleitariamente, sto sforzandomi di ricordare. Ed allora ecco che oggi, il disegno delle accademie, così come le conosciamo, ci appare ben chiaro nel loro tentativo di modificare, cambiare e ricostruire contenuti distanti dal proprio indirizzo ideologico. Di questo si dovrà pur tener conto quando si parla di accademie. Un’accademia che non voglia ripercorrere gli errori del passato dovrebbe perciò attenersi , come primo proposito, ai programmi di  una linea critica in grado di chiarire, anzitutto, quali metodi analitici utilizzare affinché il valore dell’Arte o della Conoscenza non sia determinato da orientamenti arbitrari. Un’Accademia dovrebbe sforzarsi di fornire questi strumenti, prima di ogni altra cosa.

    UN’ ACCADEMIA CHE VOGLIA DEFINIRSI TALE DOVREBBE PORSI LA PRIORITÀ  DI  CHIARIRE QUALI METODI ANALITICI PRIVILEGIARE AFFINCHÉ IL VALORE DELL’ARTE O DELLA CONOSCENZA NON SIA DETERMINATO DA ORIENTAMENTI ARBITRARI.UN’ACCADEMIA DOVREBBE SFORZARSI DI FORNIRE QUESTI  STRUMENTI D’INDAGINE, PRIMA DI OGNI ALTRA COSA.

  Se non fosse ancora chiaro, bisogna insomma  dubitare dell’accademia che  si sottrae a questi  doveri, e di quegli accademici che pretendono  credibilità in virtù di titoli assegnati loro a tavolino. L’Accademia che ignora queste linee  programmatiche diventa reazionaria e tende  al  sincretismo, proprio come l’ebraismo di duemila anni fa, che per non perdere prestigio (e redditizi   olocausti) si adoperava a assimilare deviazioni mistiche e biforcazioni teologiche nelle liturgie della propria fede, le quali, alla fine, rimandavano ogni diatriba all’ interpretazione insindacabile dei sacerdoti. 

                                                                                            fabio painnet blade

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Sull'interpretabilità scientifica (prima parte)

 


Mai come in questi tempi si fa un gran dire di un mondo diviso in due, quasi fossimo immersi fino al collo in una realtà sfuggente, dai contorni indefiniti, perché - e sono in molti a crederlo - troppo liberamente interpretata rispetto a questioni di etica, economia, religione, scienza o medicina; rispetto, cioè, alle cose importanti della vita. Se è vero che da una corretta percezione della realtà scaturiscono le nostre condotte, e da queste dipende la costruzione di una società liberale e rispettosa di tutti coloro che ne fanno parte, ci troviamo di fronte alla necessità di un ripensamento radicale e collettivo dei rapporti umani, soprattutto per quanto concerne il proposito di dotarsi di nuove regole in grado di definire senza indugi la separazione fra bene e male, ovvero, fra ciò che si dovrebbe o non si dovrebbe fare nell’interesse comune e, di conseguenza, nell’interesse del singolo  che del ‘tutto’ fa parte.

 Il segno di demarcazione di questo confine etico appare oggi alquanto indefinito e tutto sembra confondersi in un amalgama nebuloso; laddove un tempo, a fornirci un preciso binario da seguire era stata la religione con le sue verità assolute e indimostrabili, col suo carisma antico che non ammetteva dubbi di fronte al bene, né  debolezze di fronte al male, oggi vi è un sacramento del tutto nuovo in cui l’amore e la fede per un dio, è stata sostituita con quella  per le scienze naturali (Francesco Bacone).

Francesco Bacone
   

    In seguito alla crisi delle religioni sorta ai margini dell’attuale cultura scientista e il conseguente clima di scetticismo verso il severo dogmatismo delle confessioni monoteiste, l’uomo volse lo sguardo verso la Natura, cercando in essa quel robusto ancoraggio spirituale che la fede non era più in grado di garantire. Non c’è voluto molto quindi, per far sì che questa epocale transizione dell’anima verso nuovi approdi devozionali, giungesse a presentare il conto delle sue contraddizioni.

   Lo studio delle scienze naturali mostrò infatti fin dall’inizio, due facce contrapposte di un’etica impraticabile, dacché non poteva funzionare allo stesso modo sia nel mondo delle bestie che in quello degli uomini. Da una parte, sotto la spinta del darwinismo, si consolidò la convinzione che l’uomo conservasse ancora tutte le caratteristiche istintuali delle sue primitive origini (l’homo homini lupus preconizzato da Thomas Hobbes), dall’altra maturò invece l’idea che la specie umana fosse nel suo intimo dominata da qualità dell’animo sconosciute al mondo animale e che, perciò, fosse spiritualmente vocata al perseguimento del bene (Jean Jacques Rousseau). Ancora adesso le filosofie umanistiche non hanno risolto questo dilemma, il cui più immediato esito è stato quello di aver fratturato  la cultura  in due fazioni  di pensiero contrapposte che si son giurate battaglia, mentre noi, presi nel mezzo e del tutto sprovvisti degli adeguati strumenti critici, tendiamo l’orecchio confuso e disorientato, ora a destra ora a manca, non sapendo più a che ‘santo’ votarci.

            Ogni opinione ha pari dignità. La genesi dell’inganno.     

   Il grido che giunge da più parti, e che postula pari dignità per tutte le opinioni, dietro un fatuo mascheramento di  libertà, ha finito invece per gettarci in un profondo sconforto e ci ha reso incapaci di formulare giudizi con la necessaria autonomia ed equilibrio, o di comprendere le più evidenti differenze fra bene e male, in una sospensione di giudizio che ci ha definitivamente sottratto la possibilità di capire quale condotta seguire quando le questioni in ballo riguardano la società, la nostra vita o il futuro dei nostri figli. Per prendere una decisione, una volta privati dell’autonomia di pensiero (e perciò di scelta), ci ritroviamo costretti, di volta in volta, a fidarci del parere degli esperti e alle indicazioni della scienza (la quale gode di ingiustificata fama di infallibilità), che però non è mai unanime e neppure si pone sopra le parti. Formarsi un’idea sulla traccia dell’informazione disponibile non si è rivelata, infatti, la più felice delle soluzioni, poiché fra i vari personaggi titolati che dovrebbero  munirci di risposte ed analisi esaustive, ci si imbatte di frequente in eruditi da palcoscenico, sovente in competizione fra loro per assicurarsi un posto al sole fra le poltrone del rifulgente carrozzone mediatico. Fra questi però, non ve n’è uno che, anziché proporre la propria ricetta miracolosa come panacea per tutti i problemi, si premuri di  fornire gli strumenti cognitivi adatti a valutare in autonomia le cose e ad emancipare le coscienze. Ciò che si pretende dunque da questi pulpiti moderni, è la fiducia incondizionata, non certo le capacità per applicare una qualche forma di analisi critica. Anche perché, siffatte capacità, andrebbero prima formate e coltivate attraverso l’applicazione. Eppure tutto ciò che si chiede non è altro che fiducia,  una semplice espressione di fede. Vien lecito chiedersi a chi offrire la nostra fedeltà? A chi credere? Quale criterio, o quale atteggiamento mentale ci spinge a prestare attenzione ad un accademico  piuttosto che a un altro?, per poi finire inevitabilmente ingoiati nel vortice dei pareri arbitrari, degli equivoci, dei pregiudizi o delle facili  perorazioni sfacciatamente promozionali, mascheratamente risolutive. Un vero disastro in cui gongola soddisfatto solo chi, dal nostro disorientamento, trae vantaggi, i migliori privilegi e insperati proventi. Il mercato delle opinioni insomma paga, e profumatamente, chi le offre, ma non chi le acquista. Io invece mi interrogo con preoccupazione se sono ancora in grado di capire, pur senza essere un ricercatore celebre, un medico un musicista  o uno scrittore, quale cura, musica o libro scegliere, fra i  tanti che si ‘illuminano d’ immenso’ nella grande vetrina dei mercati generali. A ben vedere, dunque, quel che ci capita di vagliare per soddisfare il bisogno di conoscenza, non è altro che il parere di  un medico, di un artista o di un letterato, a ciascuno dei  quali, secondo un comune modo di intendere, non dobbiamo concedere niente più che un’illimitata dose di fiducia.

Già, ma come si esce da questa fregatura?

   Eppure, nonostante tutto, sembra proprio che l’idea, o l’illusione, che un modo per tirarci tutti fuori da questo inghippo, esista! Come? Cominciando a realizzare anzitutto che il sistema sdoganato come infallibile, si regge, in realtà, su basamenti alquanto fragili, su un castello di carte grottesco, che può esser esso in crisi  tirando via da sotto,  la carta giusta. Una sola carta. In pratica , affinché  la cultura metta a nudo i propri  inganni, sarebbe sufficiente, da parte nostra, finirla una volta per tutte di prestar fiducia alle opinioni altisonanti, e a tutte quelle interpretazioni proferite da bocca di dotto. 

La carta che regge il castello.



   Per far sì che la Conoscenza possa essere un bene fruibile, possibilmente su larga scala, la fede non c’entra nulla. Dobbiamo cominciare a toglierci dalla testa il preconcetto di un  Sapere che possa essere comunicato dall’uno a l’altro in misura fideistica. Contestualmente, dobbiamo allora cominciare a capire che un’ipotesi dotta, per esser promossa al rango di tesi, necessiti di alcune semplici verifiche, talvolta di banali riscontri logici, non certo di proclami altisonanti. Per avere accesso alla conoscenza di un qualsiasi fenomeno riconducibile alla realtà che ci circonda, mettiamo a caso questo fenomeno sia un’epidemia, bisognerebbe superare il criterio di interpretabilità, già nella fase della rappresentazione del suddetto fenomeno, quindi la rilevazione delle sue condizioni iniziali. In sostanza, ciò può voler dire  che bisognerebbe servirsi, prima di ogni altra cosa , di un medesimo linguaggio. Nel caso della fisica - ma i medici sostengono anche nel caso della loro disciplina - il linguaggio non può essere che quello matematico; matematico dev’essere il linguaggio con cui si raccolgono i dati, le rappresentazioni del fenomeno nello spazio-tempo, matematico dev’essere il linguaggio dell’ipotesi di funzionamento e della previsione con la quale si formula lo spostamento, o cambiamento di stato, di un qualunque sistema fisico. Una volta stabiliti questi paletti, non resterà che osservare la perfetta corrispondenza fra previsione formulata in anticipo e realtà, ma questo non richiede cognizioni matematiche, perché si tratterebbe solo di  una semplice, quanto ineludibile, constatazione. Quest’ultimo passaggio non richiede pertanto un attestato di fede ma un semplice ragionamento. Un ragionamento  non si può aggirare con la scusa dell’inacessibilità alla matematica, della nostra scarsa preparazione in materia, se non altro perché dipende da poche considerazioni: 

 A)    L’indagine scientifica su base matematica non è  sufficiente a leggere qualsiasi condizione fisica, qualsiasi realtà presente in natura. Alcune non riusciamo a rappresentarle efficacemente, altre non riusciamo a rappresentarle affatto!

B) Il metodo di cui si è detto  può essere applicato  solo dove sussistano due differenti previsioni rispetto a una medesima incognita. Non sempre, dunque, le ipotesi soddisfano la prova            (punto A), ma quando una di quelle in gioco la soddisfa - quando cioè la previsione combacia con l’effetto reale - solo allora possiamo ritenere di aver acquisito, per quanto piccola, una forma di conoscenza effettiva.

C)    Pertanto, quando si può, bisogna cercare di capire il limite delle rappresentazioni e delle ipotesi di moto, ed eventualmente,  quale di queste può staccare il biglietto dell’attendibilità scientifica. Ma occorre farlo, e saperlo fare, da soli! Non bisogna seguire suggerimenti!

D)    Una cosa è certamente vera: senza il superamento del carattere di interpretabilità di una rappresentazione fenomenica o dell’arbitrarietà di un calcolo predittivo non autenticato  dalla corrispondenza con l’effetto fisico ottenuto, nessuna congettura potrà essere spacciata per conoscenza!  

                                                    Questa è la carta su cui si regge l’intero                                                         castello! 

       continua qui

domenica 14 febbraio 2021

Il robot e il serpente (Prima puntata)


  In questa prima uscita del ‘progetto letterario’ del quale si è abbondantemente parlato qui, ho voluto proporre l’incipit  del romanzo ‘Il robot e il serpente’. 

 

                                                                                                        fabio painnet blade



 

Breve premessa:

 

   Uno psicologo di mezza età ritrova nella posta elettronica del suo computer un’enigmatica missiva. Non realizza a primo acchito chi possa essere, ma pensa si tratti di una vecchia paziente, affetta da chiassà quale malanno e, per giunta, un po’ bislacca. Legge velocemente poche righe cariche di apprensione:                                       

 

 Gentile Dott.  F,

    vi scrivo in un momento , per me, drammatico. Il mio capezzale è distante dal vostro studio, troppo distante nello spazio e ancor più nel tempo per sperare di potervi ricevere prima di esser morta. Sento di procedere speditamente verso la fine. Vi chiedo solo di ascoltare la mia storia, portarmi conforto, garantire che la mia versione dei fatti possa raggiungere un mondo della cui esistenza non posso che nutrire speranze. Tengo in particolare che mi  parliate un po’ di  questo vostro mondo, delle usanze e dei suoi costumi, ma soprattutto delle  genti e della civiltà che in esso hanno convissuto nel corso dei secoli. E’ un luogo felice o vi prosperano odio e rivalità?

     Perché ve lo chiedo?  Vi starete domandando. -  Già:  perché?

Se vi rispondessi che le mie son naturali premure di madre, non capireste. Pensereste di  aver a che fare con una pazza, perlopiù malata e moribonda.  Ed allora non ve lo dirò! Non ora. Non adesso. Forse in seguito comprenderete, ma per farlo dovrete disporvi all’ascolto, o alla lettura delle parole dell’ unico testimone  vivente  di una grande storia.

 

Adian 

                              Ohxen’im bat Asherah , madre di Temah figlia di Havel

 

  Il contenuto della lettera gli  trasmette ovvie curiosità. Incerto sul da farsi invita così la misteriosa donna a spiegarsi meglio, per permettergli di acquisire informazioni sul suo conto. Dall’altra parte l’invito è raccolto senza alcuna titubanza.                                                         L’uomo, qualificatosi come dottor Effe, riceve da quel momento in poi una serie di  comunicazioni e si dispone di buon grado alla lettura.  

 

 

 

                                                            Parte prima

 

  Di solito non ricevo grandi quantità di posta e quindi non ho l’abitudine di consultare la casella elettronica. Da almeno quattro giorni ristagnava infatti una comunicazione solitaria, il cui mittente non pareva appartenere alla ristretta cerchia delle mie frequentazioni e nemmeno a quella, altrettanto scarna, dei miei pazienti. Diviso a metà fra la consueta  indolenza da ‘fine settimana’ e la curiosità sbrigativa di un temperamento impiccione, mi decisi  a leggere e, in poche battute, a rispondere con tutto il garbo di cui ero capace.

    Come primo approccio inviai all’indirizzo di questa enigmatica missiva alcune semplici domande,  tanto per sapere se si trattasse di una vecchia conoscenza o di una persona che, solo dopo aver conferito con un mio paziente,  si fosse decisa  a scrivermi. Di una cosa ero arcisicuro: un nome del genere non l’avevo mai sentito e neppure avrei avuto la necessaria fantasia per immaginarlo di sana pianta.  .

  Scrissi appena poche righe, intuendo che una simile vicenda avesse un principio lontano e che la donna che si era presentata col nome di Ohxen’im, soffrisse da tempo di disturbi dovuti a visioni notturne molto simili a sogni,  ma di natura alquanto diversa.

Ricevetti la risposta appena un paio d’ore dopo e già, fin dalle prime righe, avvertii nelle sue parole un repentino cambio di personalità: quella che all'inizio mi era sembrata una donna matura, si era calata nei panni di una giovane, forse un’adolescente.

    Mi ritrovai confuso, sebbene non di rado i miei pazienti saltano da una situazione all’altra senza curarsi di seguire un ordine cronologico, o un eloquio regolare. Rammentai però che fui proprio io a chiederle di riprendere il filo della storia dal principio e fui persino molto magnanimo nel concederle la possibilità di dilungarsi, senza imporre limiti di sorta, secondo una prassi clinica volta a garantire tranquillità. Lei non fece altro che attenersi alle mie indicazioni, senza alcun preambolo, senza ulteriori chiarimenti.

 

e-mail  n° 2

 

   La ringrazio per l’invito. Apprezzo la sua premura e la delicatezza mostrata nei miei confronti vale a dire, nei confronti di una perfetta sconosciuta. Dovrei presentarmi, lo so e fornire i miei dati anagrafici, ma al momento ho soltanto bisogno di parlare con qualcuno che sappia rispettare la mia esigenza di riservatezza. Perdoni, dottore, la mia pretesa. 

    Posso dirle tuttavia che da qualche tempo ho cominciato a sognare in maniera assai realistica e che queste visioni mi hanno trasmesso forti turbamenti. Non chiedo che  essere aiutata a vivere serenamente gli ultimi giorni della mia vita. Conosco la sua professionalità, per questo motivo ritengo che potrebbe concedermi un insperato  sostegno psicologico.

  Queste visioni insolite, insomma, sono iniziate pochi mesi fa e da allora non si sono più interrotte. Nel sonno vedo immagini che non appartengono a ricordi recenti e nemmeno lontani: forse non appartengono neppure a me, al mio vissuto;  eppure tutto intorno  scorre in maniera tanto chiara da  farmi smarrire gli appigli  con la realtà. Con la realtà di  ‘questa parte’, che è la nostra.

   Le prime volte che mi capitava di fare tali sogni non riuscivo a mantenerne la memoria, poi i paesaggi presero forme familiari, i volti delle persone che ero certa di non aver mai veduto prima, cominciarono a trasmettermi sensazioni rassicuranti, finché un giorno al primo risveglio, dopo periodi di totale confusione, mi parve tutto estremamente più preciso, più logico. In uno dei primi sogni mi vedevo procedere spedita su un tratto di strada polveroso, ero forse in un bosco e davanti a me ruscellavano  le acque di un torrente posto a confine di una regione  ammantata di mistero. Mani esperte sembravano aver ritratto il volto della natura di quei luoghi, col rigoglio dei grandi arbusti ghiandiferi o con la monumentale autorità dei fitotitani dal fusto largo fino a dodici cubiti. Non so perché  continuo a chiamare tali alberi con quel nome assurdo. So solo che, dall’altra parte (nell’immaginazione onirica) mi sembra tutto perfettamente inserito in un contesto conosciuto sebbene slegato da riscontri reali. Superai così quel  fiumiciattolo, con l'acqua alla vita,  facendo attenzione a non bagnare lo zaino. Quante volte, da bambina, un  luogo simile era stato teatro dei miei giochi. Però in quell’attimo preciso provavo sgomento e  dicevo a me stessa:

 – tieni gli occhi aperti, Ohxen! il bosco può riservare brutte sorprese. Sulla riva opposta mi scrollai l’umidità di dosso con energici calcioni al suolo per poi alzare gli occhi verso l’orizzonte: le rassicuranti architetture delle grandi torri della luce mi avrebbero aiutata a ritrovare la strada di casa, al sopraggiungere  della sera. 

            La notte mi ha sempre trasmesso le peggiori paure e sentivo che  quel luogo  brulicava di oscure e minacciose presenze; meno male che in queste occasioni  portavo sempre con me un armamento leggero. Non erano i quadrupedi dai lunghi denti a preoccuparmi, difficilmente dopo la colonizzazione mihole e le invasioni latranidi, ne avrei potuto incontrare qualcuno perché nel tempo avevano mutato le migrazioni andando ad insediarsi nelle regioni dove la luce nasceva e da dove le dodici lune di Tarhar A’Ru non si sarebbero potute scorgere. Una volta raggiunte le steppe del nord est, alle pendici dei freddi altipiani, non tornarono più nelle terre d’origine, dove rivali efferati  avrebbero minacciato la loro sopravvivenza. 

   Ecco un’altra anomalia: le immagini del sogno si accompagnano sempre ad informazioni precise, nomi, situazioni che conoscevo e ripetevo perfettamente. Nel riprendere coscienza, rammento sempre i nomi delle cose e delle persone, poi la sensazione di familiarità svanisce come rugiada al sole. 

   Il ‘Medio Amadah’, che negli spazi onirici era la terra degli avi e  patria dei popoli amadahntini, era una località priva di coordinate geografiche: non esisteva perciò da nessuna parte del mondo.  In quel luogo sorgeva una città chiamata Tarhar A’Ru. Come ogni agglomerato urbano, anch'esso produceva rifiuti, che venivano ammassati entro apposite aree per lo smaltimento organico le quali erano ubicate a debita distanza e avevano la funzione di garantire scorte  alimentari pressoché illimitate ad ogni genere di predatore, la cui presenza avrebbe altrimenti minacciato la popolazione residente. Per costoro era molto importante conoscere la posizione di questi luoghi maleodoranti, che venivano sistemati a distanza di sicurezza e concentrati entro località circoscritte e vistosamente segnalate sul territorio. Non v’erano dunque motivi per coltivare timori seppure, di tanto in tanto, capitava che qualche esemplare in fregola si portasse nei pressi dell’area edificata, o trovasse dimora in mezzo alla vegetazione. Paura e diffidenza lo potevano rendere pericoloso, dacché l’aggressività delle belve è ravvivata più dal timore che dalla fame. Sapevo perciò di dover girare alla larga da certi tipetti tarchiati dai modi scontrosi e meglio l’avrei fatto se mi fossi tenuta lontano dalle discariche.    

 


     Tempo addietro ne avevo veduto uno – l’immagine mi tornava chiara anche in stato di veglia. -  grattava il terreno fresco del sottobosco in cerca di radici o insetti commestibili. Avevo quindi atteso che si allontanasse facendomi scrupolo di non tradire la mia presenza. Quando però la bestia si era arrestata a pochi passi e aveva cominciato  ad annusare l’aria, avevo percepito un brivido lungo la schiena, una di quelle sensazioni che portano gli intestini a liquefarsi nelle brache in men che non  si dica.  Ma non ne avevo fatto un dramma, perché nelle mie perlustrazioni portavo sempre a tracolla un folgoratore elettrico. Di questo mostriciattolo ricordavo caratteristiche precise: era un prototipo maschio di vecchia generazione, un ibrido che aveva potenziato alcune facoltà e perduto altre, in una mescola di caratteri difficilmente prevedibile. Era stato un primo tentativo sperimentale  a cui ne sarebbero seguiti di nuovi. Il modello Zero punto Zero, meglio conosciuto come mostro squartatore, era stato rimesso in libertà poiché le leggi impedivano la soppressione di un individuo con un innesto genico primario, (della specie mihole) maggiore del quindici per cento. Il tasso ben più alto innestato su Zero punto Zero era servito così a salvargli la vita. In seguito si era velocemente riprodotto mescolando i propri caratteri con quelli di altre specie compatibili, col risultato di sparpagliare nel bosco una considerevole quantità di materiale genico pronto a scattare su arti rapidi e  zanne letali con cui straziare le carni di chiunque avesse avuto la sorte talmente avversa di capitargli davanti. La pelle mi si accapponava all’idea di venir colta da un fortunale nel bel mezzo della notte (unica condizione che avrebbe reso i circuiti della mia arma da passeggio,  nulla più di un ingombrante ammasso di ferraglia ).        

 


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