giovedì 15 ottobre 2020

Introduzione al linguaggio del mito (Seconda parte)

                     Un metodo che analizza le cifre, talvolta gli errori 

Errori di sommatorie alquanto elementari, si presentano saltuariamente fra i passi del testo canonico della Bibbia. Alcuni di questi sono diventati piuttosto famosi, anche se non tutti gli analisti che si sono cimentati in questa ricerca, li hanno ritenuti frutto di disattenzione.

 

                 I   numeri,  al  contrario  dei  testi   alfabetici,

              hanno riprodotto costantemente le cifre trascritte

                   in origine, ma  anche  gli errori  di calcolo.

 

   La loro  ricorrenza  ha suggerito l’ipotesi che essi possano essere stati inseriti volontariamente nella Bibbia, e tale idea ha perfino preso vigore  quando si è giunti a scoprire, dietro la banalità di talune sviste, la correlazione centesimale di misure di fenomeni cosmici (durata del ciclo precessionale degli equinozi o misura del suo grado), con quelle valutate dagli astronomi della nostra epoca, come a voler ribadire ancora una volta, che i testi antichi fossero composti da una parte ‘volatile’/interpretabile (e resa tale, come abbiamo visto, dalla struttura della lingua) e di una non-alterabile  che, attraverso la decodificazione in un linguaggio arcaico, intendesse racchiudere e preservare contenuti di carattere strettamente scientifico.

  

La Scienza nel mito

    Questa concezione analitica, concepita da Giorgio de Santillana a metà Novecento, ha ben presto sollevato enormi dibattiti nella comunità scientifica, la quale, prima di allora, aveva categoricamente escluso che popolazioni arretrate, vissute otto o diecimila anni prima, avessero potuto disporre di dati e informazioni precise quanto le nostre. Questo semplice assunto avrebbe fatto saltare l’equazione portante del concetto di sviluppo tarato su  scala antropologica, concezione che non ammette sbalzi, o vuoti, in linea cronologica. Ciò che è sempre risultato difficile da comprendere è l’eventualità che certi studi si rapportassero al tempo piuttosto che allo spazio, dimensione quest’ultima che torna di gran lunga più congeniale alla mente dell’uomo moderno. Per secoli infatti, la scienza si è basata sulla concezione geometrica euclidea dello spazio concepito nelle astrazioni logico-matematiche e in un contesto finito di piani cartesiani. Per il pensiero arcaico, viceversa, il tempo era un mulino che ruotava incessantemente triturando i millenni in granelli infinitesimali. Le misure astronomiche del tempo costituivano quindi la dimensione del cielo in cui si potevano trovare rappresentazioni geometriche insieme a foreste, alberi, sovrani ed eroi coi loro eserciti, archi, frecce oppure navi. Il linguaggio esprimeva, in termini mitici,  verità matematiche, mentre la realtà raccontava una scienza perduta in un codice dimenticato del quale si è persa la chiave ma che rimane incastonato in frammenti di racconti epici, fiabe popolari, ballate e persino filastrocche. Ogni storia sembra così far parte di una complessa rete di indizi che rimandano a uno schema di fondo. La raffigurazione di un passato mitico nasconde il senso di una metafisica fiabesca dove gli déi azionano mulini in grado di far girare le stelle del firmamento, che ad un certo punto non possono evitare la lenta deformazione delle loro traiettorie, per effetto del moto ciclico della precessione degli equinozi, la quale comincia e finisce in un  tempo lungo pressappoco ventiseimila anni solari.

   Il mito è quindi la fonte da cui attinge il pensiero scientifico, si serve di immagini rubate alla quotidianità degli uomini e alle loro imprese ed essi, come mitici cacciatori, uccidono animali altrettanto mitici, talvolta draghi, oppure li catturano,  governano regni e risiedono in templi sorretti da colonne e sono in grado di forgiare aratri o mulini che vengono a loro volta abbattuti segnando la fine di un regno/epoca e l’inizio di un altro/a.

   Alla luce di questo linguaggio ecco allora che ci par di comprendere quale sia stato il regno dell’eroe Kay Cosroe dell’iraniano Firdusi, situato fra i pesci e la testa del toro (la stella Aldebaran è l’occhio del Toro), o quale sia stato il viaggio del fabbro Ilmarinen che, nel Kelevala finlandese, viene trasportato ‘ sopra la luna e sotto il sole ’ sulle spalle di un’orsa (Orsa Maggiore).

    Eppure, questo patrimonio incredibile di racconti e la loro interpretazione, è fondata su ipotesi filologiche superate o traduzioni forzate, ipotesi affascinanti quanto prive di prove, dacché non pare che qualcuno  abbia mai dimostrato  che - ad esempio - la precessione  degli equinozi sia stata scoperta prima del 127 a.C. (Ipparco da Nicea), o che la scomposizione dello Zodiaco fosse una conoscenza appartenuta all’umanità in tempi precedenti all’impero babilonese, cioè oltre duemilacinquecento anni fa. Per questa ragione ho creduto che sarebbe bastato individuare la misura esatta della durata del ciclo precessionale in un qualsiasi brano del Pentateuco, per spostare di alcuni secoli la data della scoperta del suddetto fenomeno, sempre che i libri del Pentateuco fossero stati  davvero scritti  una dozzina di secoli prima della nascita di Cristo. L’individuazione di queste cifre nel corpo dei cinque libri del Pentateuco potrebbe davvero confermare le ipotesi di Giorgio de Santillana e riconoscere una qualche attinenza scientifica rispetto quel linguaggio da lui definito ‘arcaico’; ma su queste correlazioni, la  teologia moderna sembra proprio aver emesso giudizi definitivi.

    Nei successivi passi di questo contributo ci siamo presi la briga di trascrivere il parere del Cardinale Gianfranco Ravasi (Direttore del Pontificio Istituto della Cultura), che poi, è esattamente lo stesso della teologia ufficiale. La sua posizione - sia ben inteso - è emblematica di un indirizzo di pensiero diffuso anche in ambito scientifico. In riferimento a un suo articolo pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire il 23 luglio del 2012 (Cardinale Gianfranco Ravasi, La Bibbia e la scienza dei Numeri.), abbiamo cercato di fornire e descrivere  un  approccio differente agli scritti sacri, specie quelli biblici. Dal lontano luglio 2012 tuttavia, il suo orientamento critico non sembra essere minimamente cambiato, come egli stesso conferma in una e-mail lapidaria in cui (ci) ammonisce severamente dal seguire posizioni che, a suo dire, sarebbero indimostrabili. Abbiamo preferito rispondere in questa sede poiché, ufficialmente, egli non è parso disponibile a rivedere le sue ‘certezze’.  L’articolo di cui detto sopra, è facilmente reperibile in rete, le nostre chiose le riportiamo invece qui sotto.


 Gianfranco Ravasi sostiene che, chi non ha una grande assuefazione coi testi sacri sa che essi sono costellati di numeri i quali, spesso, non devono esser compresi in senso quantitativo, ma in senso qualitativo, cioè come simboli. Così che la creazione dell’universo sia stata, dalla Genesi, distribuita nei sette giorni della settimana e destinata ad avere il suo apice nel sabato liturgico. Ciò è dovuto al fatto - spiega il Cardinale Ravasi - che il ‘sette’ è un segno di pienezza e perfezione, naturalmente con tutti i suoi multipli. In questa luce - prosegue Ravasi - si comprende perché si scelgano nell’Apocalisse sette chiese o perché Gesù ci suggerisca dal perdonare, non solo sette volte ma ‘settanta volte sette’ (Matteo 18, 22), perché gli anziani del senato costituito da Mosè siano settanta, proprio come  i discepoli inviati in missione da Gesù,  settanta siano gli anni dell’esilio babilonese e via dicendo.



   Non sentiamo di negare nessuno dei  significati spirituali menzionati dal Cardinale Gianfranco Ravasi, tuttavia preferiamo considerare anche elementi di carattere aritmetico (sviluppati in questo saggio), secondo i quali il numero sette sarebbe da intendersi come sottomultiplo del numero settanta  e dei multipli frequentemente riportati nei passi biblici: 144, 288 e soprattutto 25725 o 25920. Che queste siano cifre citate in modo evidente o nascosto, non è un’opinione, come pretenderebbe il sommo cardinale, ma un fatto! Ed è un fatto, non meno importante, che questi numeri riguardino più specificatamente tempi e durate di cicli planetari che la storia e i reperti ci hanno insegnato essere stati di estrema importanza per le passate civiltà, da quella egizia a quella babilonese, nelle cui culture  è fiorita e si è intrecciata la storia del popolo ebraico.

    Non ci soffermeremo a dettagliare quale significato astronomico racchiuda il numero settantadue, o il sette, ma ci limiteremo solamente a chiarire che queste cifre sono oggi ben note ai moderni studiosi del cielo, ovvero gli astronomi. Non ci riferiamo a cifre approssimate, ma a precise quantificazioni numeriche che riguardano principalmente il ciclo della precessione degli equinozi. Non può infatti essere un caso che sia stata individuata la misura esatta del grado relativo all’anno platonico, nella stessa identica cifra corrispondente fino all’ultimo decimale, sia nel libro della Genesi che in quello dei Numeri (Censimenti), o nel Salmo 89-90 (NT) ed addirittura, in una quantità leggermente diversa, nel libri di Esdra e Neemia.

   Il Cardinale Gianfranco Ravasi non sbaglia allora, quando definisce il sette e i suoi multipli simbolo di perfezione, poiché l’anno platonico, in passato,  era meglio conosciuto come l’ ‘anno perfetto’. Peccato che egli non voglia accettare, o perfino solo prender atto, di spiegazioni sul piano logico-matematico, ben più solide della sua. Ciò per dire quanto, a volte, la ottusità umana si possa irrigidire per ignoranza e superbia, contro posizioni e contenuti che in fin dei conti fungerebbero da conferma  rispetto le proprie, altrimenti sindacabili, come lo sono tutte le contraddizioni dell’esegesi teologica. Nell’articolo sopraccitato notiamo che viene riportato anche il significato del numero tre: la ‘pienezza’. Questo richiamo simbolico ci ha incuriosito, perché il numero tre, nelle nostre ricerche  è stato associato alla gravidanza e al suo simbolo astrale: la luna. Se poi volessimo considerare i tre giorni della Resurrezione di Cristo, dovremmo aggiungere che mai questa rappresentazione ci è sembrata tanto vicina alle nostre conclusioni, dacché l’esperienza di morte e rinascita del Gesù di Nazareth poteva e può essere tranquillamente correlata alla gravidanza della nuova umanità liberata dal giogo del peccato. E poi c’è il quattro, la totalità e, con pari significato, il suo multiplo quaranta: quaranta sono i giorni e le notti del Diluvio Universale, quaranta gli anni di permanenza del popolo ebraico nel deserto. Le nostre indagini ci hanno portato, sebbene con un minor tasso di certezza, a ritrovare queste due importanti cifre nel celebre numero ghematrico dell’Adam, il quarantacinque (1+ 4+ 40), che ancora una volta abbiamo potuto affiancare al significato di totalità, dacché Adamo poteva esser considerato l’antesignano o il ‘contenitore’ della specie che da lui  ha avuto origine. Egli infatti (secondo alcune interpretazioni) aveva in sé, la totalità del patrimonio genetico da cui sono scaturite tutte le varianti del genere umano o, se vogliamo, tutti i caratteri potenziali  da trasferire alla discendenza. Secondo lo stesso ragionamento i dodici discepoli trovano precisa corrispondenza nelle dodici porzioni zodiacali che formano l’anno platonico ed  hanno una durata di 2143 anni, o 2160 anni a seconda che si intenda considerare il ciclo precessionale lungo  25725 anni o 25920 anni. 

   Tutti gli autori che si sono occupati di esegesi  biblica hanno fatto convergere le loro convinzioni entro un preciso ordine di valori e significati rispetto l’uso dei numeri fatto dai redattori biblici. Nessuno pone riserve sul significato simbolico delle cifre che, come visto, sono riportate in gran quantità entro il vasto corpo di reperti a nostra disposizione.  Gli esempi da citare sono numerosi: quando si dice che ‘Elia predisse una siccità di tre anni’  si  esprime un significato effettivamente simile a quello reale, nel senso che i periodi di siccità e conseguenti carestie possono durare uno o più anni; o quando si dice che Betania fosse lontano quindici stadi da Gerusalemme, distanza, quella di tre chilometri, corrispondente a tutti gli effetti.  I casi da enumerare sarebbero davvero tanti e tutti sembrano suggeriscono agli studiosi che, in alcuni casi la Bibbia abbia indicato informazioni e dati storicamente attendibili, in altri , elementi simbolici o rappresentativi di misure astronomiche. Nessuno tuttavia, pare abbia mai ipotizzato che i numeri fossero stati usati unendo congiuntamente il senso simbolico e il senso quantitativo, con riferimento a misure e quantità cosmiche, dacché teologi e accademici concordano nel ritenere le popolazioni di quel periodo, sostanzialmente incapaci di procurarsi validi strumenti di rilevazione . Senza accorgersene essi conferiscono alla storia e alle culture una direzione cronologica  lineare tendente alla crescita, seguono insomma un modello oggi non più valido, specie dopo la scoperta di elementi non-nconfutabili, all’interno di testi indubitabilmente antichi, quando non antichissimi. 


Introduzione al linguaggio del mito (Prima parte)

 Un metodo che analizza le cifre

    Oggi sappiamo, e se non l’avessimo ancora intuito non potremmo certo sottrarci alla possibilità di farlo, che i testi biblici  - al pari di altri, appartenenti ad altre religioni e culture - hanno subìto una lunga serie di modifiche rispetto ai contenuti  originali; ma forse non tutti sanno che il corpo  di reperti ascrivibile al ceppo più antico, fosse stato redatto in una lingua sprovvista di vocali. Viene così spontaneo domandarsi come mai gli scrittori del passato, nonché depositari di antiche conoscenze, avessero voluto conferire alle loro opere un  tal carattere di interpretabilità.

   Per il nostro modo di pensare, è difficile capire le loro ragioni, ma in linea di massima possiamo supporre che si preoccupassero in special modo che i loro sacri testi non finissero  contraffatti, completamente stravolti o, più sbrigativamente,  distrutti da una potenza coloniale che nelle epoche a venire avesse imposto la propria egemonia sul sacro suolo degli antenati. Comprensibili preoccupazioni per un popolo che nella storia ha quasi sempre vissuto sotto il giogo di sovranità straniere. Urgeva dunque garantire l’inviolabilità dei futuri reperti, per potervi nascondere i caratteri identitari della loro antica civiltà, sottoforma di precise informazioni scientifiche. Solo gli schiavi non hanno identità culturale, non hanno memoria di glorie e fasti trascorsi. Perdere l’identità di un popolo significava a quei tempi, quanto e più di oggi, essere condannati a un futuro di oppressione e di sfruttamento, non maturare cioè la concezione spirituale e fisica di libertà. Tuttavia, questo nostro lavoro - è bene ribadirlo fin da ora - non intende indagare nell’intimo di tali questioni, né fornire ulteriori analisi sulle possibilità, ma casomai offrire al lettore attento la presenza di correlazioni e di dati perfettamente verificabili rispetto a cosa  intendesse  nascondere nei testi l’antica classe sacerdotale giudaica.          Un fattore su cui si potrà discutere ancora a lungo, riguarda le motivazioni che hanno spinto la millenaria tradizione dei rabbini a  concepire  una lingua tanto instabile per tramandare dati e informazioni cruciali. Non possiamo esimerci dal pensare che a monte vi sia stata la volontà di utilizzare una tal versatilità linguistica per meglio  adattarla  alle esigenze (ideologiche) di futuri governanti, per distrarli dal proposito di disfarsi di materiale che rischiasse di compromettere i valori della loro civiltà o sminuire i ritrovati di una scienza  pregiudizialmente ritenuta superiore a quella di un popolo conquistato.

Per superare l’apparente contraddizione e affrontare simili quesiti, bisognerà  però soffermarsi su alcune nozioni.                                                                                                       Come detto, al principio i testi biblici furono redatti in forma consonantica, ovvero priva di vocali. Soltanto in un secondo momento essa venne stabilizzata dai traduttori attraverso un supporto vocalico, con un intervento sui significati che vennero conformati nel rispetto dei canoni di un preciso indirizzo religioso. Il codice di Leningrado permette ancora oggi di consultare la traduzione elaborata dalla scuola dei Masoreti di Tiberiade; tuttavia, anche le traduzioni più recenti, una volta finite nelle mani di scaltri regnanti, hanno mutato le antiche formule e spodestato i significati, depennando e scartando ampie porzioni di testo, secondo la logica strumentale di coloro che ne venivano in possesso. Si pensi alla Bibbia di re Giorgio o all’ uso che ne fece, appena pochi secoli fa, Enrico VIII.  Questo fatto non lo si può ignorare! E nessuno credo possa nemmeno obiettare nulla  rispetto al carattere di interpretabilità che l’ebraico antico, continua a manifestare.

                                            Numeri? Son sempre stato una schiappa in matematica

  Ciò potrebbe fornire un senso alla molteplicità di varianti narrative germogliate da quella prima radice del testo, un senso caro alla tradizione (qabbalistica), per la quale tale ricchezza di aspetti non costituiva un’ imperfezione ma una proprietà dovuta all’intercessione diretta del Dio unico, assunto come riferimento assoluto della sensibilità religiosa comunitaria. In parole povere, la tradizione rabbinica sembra voler ribadire che all’uomo comune non è dato conoscere tutti i significati della parola di Dio e forse, in piena coerenza con questa convinzione fideistica, i depositari dei principi e dei valori  religiosi, avrebbero deciso di rendere gran parte dei contenuti biblici altamente malleabili, mai definitivi.

L'accumulo di parole e testi non significa distanziarsi                                                dalla Verità ma dipanarla, aggiungere significato,                                                             arricchirla. Le fonti originarie servono allora come                                                         punto di partenza per una ri-narrazione. Ma proprio                                                       questa ri-narrazione deve esser vista come un atto di                                                        fedeltà ai modi della tradizione, un'operazione quasi                                             filologica di innesto in una trasmissione testuale in                                                             continuo divenire.                                                                                                                                                    Elena Loewenthal 

 Ai giorni nostri, però, questa duttilità del testo biblico, sembra aver generato speculazioni e fornito i necessari pretesti ad una nutrita schiera di spregiudicati esegeti nati dalla costola dello scrittore Zecharia Sitchin, i quali hanno cominciato a rivisitare le antiche scritture in senso realistico e letterale, proprio come l'azerbadzjiano aveva fatto con le tavolette dell'Enuma Elish. 



E così, anziché irrobustire le loro tesi attraverso un massiccio apporto di prove, costoro hanno preferito fertilizzare il campo delle congetture, già pesantemente coltivato da teologi e filosofi di ogni risma. Qualcuno aggiunge che siano stati incoraggiati soprattutto dai proventi editoriali garantiti da un filone di pensiero popolare ed estremamente redditizio che in fin dei conti si limitava a proporre solo un diverso approccio metodologico all’analisi dei testi, lasciando insoluti molti enigmi e incongruenze presenti nelle versioni dei dotti. Questo metodo, a ben vedere, si esime dal fornire verifiche, trincerandosi viceversa, dietro il discutibile paravento della libertà intellettuale, un principio cioè che prevede pari dignità per tutte le ipotesi che possono essere formulate intorno all’interpretazione di un qualsiasi brano composto da autori non più in vita, figuriamoci per quelli vissuti millenni addietro.  

   Le nostre ricerche si pongono in realtà, a debita distanza da questo modo di pensare ed operare, infatti, nel vasto corpo dei testi biblici abbiamo anzitutto cercato di porre in risalto la presenza di elementi (rimasti) invariati che riguardano soprattutto la parte numerica della Bibbia, dacché quella alfabetica non è mai stata immune dalle rivisitazioni di cui dicevamo poc'anzi. Non è un fatto opinabile, quindi, che i  manoscritti biblici contemplino al loro interno lunghe sequenze di cifre, sottoforma di elenchi, rapporti, liste di censimenti, registri di ricchezze in metalli preziosi o quantità di bestiame; mentre non tutti sarebbero disposti a sottoscrivere l’idea che, dietro ciascun numero, potesse essere stata celata una quantità  riconducibile senza margine d’errore (o con sorprendenti approssimazioni) alla durata di specifici fenomeni astronomici che all’epoca si pensavano sconosciuti.

  Dopo una ‘sparata’ del genere in molti - e non necessariamente iscritti ai circoli accademici più intransigenti - si sentirebbero in obbligo di porre alcune domande sulla possibilità che una conventicola di sacerdoti avesse nascosto per tanto tempo informazioni di carattere astronomico, e per di più, estremamente precise. Il fronte degli esperti è così sembrato dividersi di fronte alla questione della scientificità della Bibbia, alcuni supportandola interamente, spesso senza argomenti probatori, altri negandola.  Ed è proprio per fornire una prima risposta a tanto scetticismo, crediamo sia venuto il momento di proporre correlazioni facilmente verificabili al posto di semplici ipotesi. Non ci pare azzardato quindi affermare che, probabilmente, attraverso l’utilizzo di quantità numeriche ben definite, gli antichi redattori volessero creare un argine di contenimento alla possibilità di rivisitazione del testo alfabetico, lasciandone pressoché intatta una parte. Per quanto ne sappiamo,* le sequenze numeriche inserite nella Bibbia, non hanno subito alterazioni di sorta nel corso della storia (chiunque può verificare come le cifre siano sempre state riportate integralmente e quindi, tradotte di volta in volta sempre allo stesso modo). Solo i numeri, pertanto, nella loro accezione quantitativa, avrebbero ed hanno garantito nei millenni la funzione di veicolare dati e informazioni dettagliate, nonché suscettibili di aggiustamento (come mostra la leggera discrepanza fra dati e misure riportate in testi concepiti in epoche diverse).

fine prima parte