giovedì 29 giugno 2023

Torno a Settembre.

 No! non è la recensione di un film della Lollobrigida. La nostra rubrica sull'astronomia nella Bibbia tornerà a Settembre, nel senso che riprenderemo dopo l'estate la serie di post focalizzati su quei precisi argomenti.  In cantiere  i seguenti lavori:

Il tesoro offerto per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme

"... E i capi fecero l'offerta di dedicazione all'Altare".  Numeri 7


Interrompiamo per i mesi estivi la serie dei post sul mito e sull'astronomia contenuta nella Bibbia, lasciando il tempo ai lettori di 'digerire' tutto il materiale proposto fino a questo momento.

Ciononostante non andremo in vacanza. Durante le calde giornate di Luglio e Agosto (forse anche Settembre) presenteremo argomenti che hanno a che fare con la letteratura: aforismi, poesie e vari articoli, andando a pescare estratti di opere inedite che non avranno mai occasione di approdare all'attenzione di 'grandi' (le virgolette sono un chiaro giudizio sul loro operato) imprese editoriali, e non per demerito degli autori. Crediamo che il motivo di questo presentimento piuttosto pessimista, dopo aver preso visione dei contenuti pubblicati, sarà facilmente intuibile. Con gli amici che finora ci hanno seguito da vari angoli del globo, in particolare:  americani, francesi, inglesi, tedeschi, numerosissimi da Singapore, meno dal Canada e dalla Russia, mostrando un autentico e apprezzato interesse per i nostri lavori, diamo appuntamento a Settembre (ma non chiedetemi una data esatta) con l'augurio di trascorrere vacanze spensierate, magari viaggiando nel nostro paese. Agli altri, a quelli meno attratti alle questioni astronomiche, che come noi, per l'intera estate saranno costretti alle quotidiane abitudini della vita lavorativa, rivolgo un sincero invito alla lettura. Sul nostro sito troveranno sempre  - h 24 - qualcuno disponibile a discutere argomenti di loro gradimento o, se ne avranno voglia, questioni non necessariamente letterarie riferite ai contributi da noi proposti.

Inauguriamo oggi la prossima infornata  di post, con un'intervista del 6 Aprile scorso, sul fallimento di un progetto editoriale. Il documento è stato scelto non per l'efficacia  del linguaggio adottato dall'editrice, che è quello di una retorica sterile e di morbida critica per l'ambiente che l'ha 'bocciata' senza appello. A noi è sembrata del tutto inadeguata, con quel suo tenersi troppo abbottonata rispetto i mali che affliggono il mondo editoriale e che, in un coro unanime, vengono attribuiti alla scarsa cultura e alla qualità intellettuale del pubblico pagante, in un paese dove - secondo loro - non si è mai 'letto abbastanza'. Capita l'antifona? In pratica la piccola editoria, settore a cui appartiene questa decaduta editrice, vera vittima del sistema famelico della grande editoria, anziché prendersela con i responsabili dello stato dell'arte e della penuria di incassi, sembra  aggrapparsi alle solite , querule scuse. E se è pur vero che nel nostro paese si legge poco,  ciò non deve fornire un pretesto verso le responsabilità oggettive di coloro che dovrebbero, prima di altri, sentirsi addosso il dovere di contribuire all'emancipazione collettiva. Ancora non si è capito che la libertà degli autori non può essere ingabbiata entro vincoli di argomenti e temi imposti da obblighi di agenda, da imbecillaggini come il politicamente corretto, contro questo o quel pregiudizio di moda (come se vi fosse una graduatoria del male).  Il pubblico deve poter scegliere liberamente, mostrare al contempo maturità e volontà di cambiamento. Non si può, perciò da parte di chi detiene il mercato, imporre un binario intellettuale unico, a discapito di un'offerta larga e affrancata da costrizioni di misera ideologia. Il punto è: come qualificare un'opera d'arte? E se non è possibile una graduatoria di merito e di valore oggettivo, come qualificare ciò che opera d'arte non è? Forse partendo da questo punto critico e facendone un esigenza stretta del sistema produttivo della letteratura, si possono gettare le basi per un'inversione di rotta. Ma se si priva il mercato, e quindi gli autori,  della necessaria libertà di espressione attraverso le moderne forme di censura algoritmica ideate per il web, attraverso la costante minaccia di invisibilità mediatica (meccanismo che autoregola e limita la produzione autoriale in un solo senso di marcia),  come si può sperare in una concreta ed efficace svolta?

Dissotterrare l'ascia  e riporre in soffitta il calumet.

     Dove stanno gli editori coraggiosi e pronti a sfidare i padroni degli spazi pubblicitari, dei domini mediatici e delle reti televisive? Qual è la strategia che i piccoli editori, oggi regolarmente fagocitati dai controllori del mercato (peraltro alquanto sofferenti) e dai grandi catalizzatori dell'attenzione pubblica , intendono adottare? Quella dello scontro aperto o del vile accordo di convenienza ( e di sopravvivenza)? Vediamo dunque come ha reagito questa rappresentante  della piccola editoria alle logiche che l'hanno costretta al ritiro. Quel suo 'non capisco' suona infatti come un più esplicito ' 'non sono in grado di oppormi' ,  che è un'altra cosa. 

Intervista a Monica Randi  (Motivi di un fallimento)

La storia dell’editoria italiana è stata attraversata da importanti figure femminili, grandi personalità a dirigere case editrici, altre a capo di fondamentali progetti editoriali, ricordiamo – dimenticando tante altre – Laura Lepetit, Elvira Sellerio, Inge Feltrinelli, Ginevra Bompiani, Roberta Einaudi, Teresa Cremisi, Sylvia Beach. Monica Randi è tutto questo: fondatrice e direttrice di astoria, casa editrice nata nel 2010, dal gennaio 2020 vicedirettrice di Guanda. A fine gennaio, con un messaggio succinto che recita “Lascio, come diceva qualcuno di amato, il lavoro più bello del mondo”, Monica Randi ha salutato amici e collaboratori: perché lascia? E poi: è un addio alla vita editoriale o un arrivederci?

- Chi lo sa. Per il momento non ho progetti, - Risponde l'editrice - devo ancora metabolizzare la decisione presa. Quando fondai astoria, avevo un’idea precisa di cosa pubblicare, di cosa potesse essere interessante per un certo tipo di lettori. Oggi il mercato editoriale è dominato da fenomeni che faccio fatica a capire, il che mi rende difficile comprendere cosa potrebbe essere interessante (e vendibile). È poi vero che la vita, anche lavorativa, è fatta di occasioni, di incontri casuali, quindi chissà…

Nel suo lavoro Monica Randi ha dimostrato un’elegante maestria nel tessere rapporti con gli autori, con i quali nel tempo è nato un rapporto non solo professionale ma anche di amicizia, penso ad esempio a Daniel Pennac e a Jonathan Coe. Ce ne può parlare?

- Il lavoro editoriale è costituito da molti fattori, e quelli che più mi hanno appassionato negli anni sono l’amore per la scoperta di voci nuove e la possibilità di conoscere quelle voci, soprattutto se le si sente consonanti con se stessi. Gli autori sono individui e, come tali, con alcuni ci si trova meglio che con altri. Un fattore credo rilevante è che a me piace molto ascoltare: gli autori sono portatori di storie, quindi è un binomio perfetto. Pennac è un uomo straordinario, generoso di sé e delle proprie riflessioni, non è difficile stabilire un rapporto con lui. Con Jonathan Coe, più chiuso, ci è voluto tempo. Se si è attratti da un libro, si è attratti anche dalla mente di chi lo ha scritto… In anni più recenti, un incontro altrettanto stimolante è stato quello con Amanda Craig, scrittrice inglese capace di coniugare, lei sì con grande maestria, letteratura di denuncia sociale e di intrattenimento; con Marina Morpurgo, che racconta il mondo con la sua ironia; con Domenico Wanderlingh, che venendo da tutt’altro mondo, si appassiona a raccontare storie di morti e assassini; con Giulia Baldelli, che sa dar voce all’amore assoluto. Ne dimentico molti, lo so, e chiedo scusa agli interessati.

Facendo un passo indietro, ci sono stati dei maestri o delle maestre? Come si diventa editrice? Quali i passaggi nel suo caso? Quale è stata la sua storia prima di diventare la fondatrice di astoria?

- Molti maestri, a cominciare da Mario Spagnol, dal quale imparai un metodo; Inge Feltrinelli, dalla quale imparai la serietà di un impegno continuativo e l’importanza delle relazioni; Sandro d’Alessandro, che mi insegnò che per pubblicare un libro, mestiere difficile e dall’esito incerto, devi in primo luogo amarlo moltissimo e crederci. Poi molti altri, soprattutto stranieri, colleghi dai quali ho imparato approcci diversi alla pubblicazione dei libri.                                                                              -  - Come si diventa editrice? Non ho una risposta precisa. Bisogna innanzi tutto avere il gusto della scoperta, la pazienza di cercare e, probabilmente, un certo grado di egocentrismo che ti fa pensare che ciò che tu ritieni interessante, lo possa essere anche per il tuo pubblico. E poi, come sempre, c’è il caso. Prima di fondare astoria, dopo aver lavorato in Longanesi poi in Feltrinelli e infine al Saggiatore, non avevo mai pensato di creare una casa editrice: mi pareva che ce ne fossero già troppe. Ma poi, appunto, il caso… 


Che pubblico di lettori ha avuto astoria?

-  Questa è una domandona! Se noi editori conoscessimo il nostro pubblico, avremmo una vita più facile. Direi che era un pubblico variegato, uomini e donne, cultura alta e bassa, di sicuro – tranne rare eccezioni – non giovanissimi.

Astoria, tassativamente con la a minuscola, perché? E poi da dove nasce questo nome così originale nell’editoria, altrettanto diffuso nel mondo, con hotel, vini, città dell’Oregon che si chiamano Astoria?

- Il tasso di egocentrismo nel mondo editoriale è altissimo: caratterizzare la propria casa editrice con la minuscola era un buon segno. Volevo indicare che per una casa editrice è più importante essere un luogo dove si incontrano autori e libri più che un luogo che da lustro a un editore. L’ispirazione è nata effettivamente da un albergo, modesto, di Francoforte nella cui saletta un gruppo di editrici si è trovato per anni, a fine Fiera, per scambiarsi opinioni sui libri che avevamo visto o che ci erano stati proposti. Era un modo per aiutarsi reciprocamente e, nel giro di poco tempo, il gruppo nato per ragioni professionali, divenne un gruppo di amiche. Quando dovetti dare un nome all’iniziativa che avevo in mente, astoria sembrò il più appropriato.

Astoria nacque per dare voce a scrittori, soprattutto scrittrici che non avevano ancora ricevuto l’attenzione che meritavano. Nel catalogo, grandi scoperte e riscoperte, penso soprattutto a Bernice Rubens, ripescaggi che gridavano vendetta, come quello di Dorothy Parker, e che hanno incontrato il favore del pubblico. Tra tutti quali sono stati le pubblicazioni più soddisfacenti per la casa editrice e quali che sono, se esistono, rimasti incomprese e la cui ricezione l’hanno in qualche modo delusa?

- Le soddisfazioni di un editore sono collegate al numero di copie vendute… In questo senso, Il club del libro e della torta di bucce di patate di Guernsey di Mary Ann Shaffer e Annie Barrows è stato uno dei più soddisfacenti, grazie anche al film che ne hanno tratto. Era un libro che avevo tentato di comprare al Saggiatore, e quando si presentò l’occasione, dieci anni dopo, di ricomprarlo, lo feci con gioia. Dorothy Parker, con la sua ironia tagliente, ha dato soddisfazioni, anche se meno di quanto avrei sperato. Bernice Rubens, che con L’eredità di Jakob Bindel ha a mio parere scritto uno dei migliori romanzi sull’ebraismo, non ha ricevuto il riconoscimento che meritava, così come lo straordinario memoir sulla depressione di Daphne Merkin, A un passo dalla felicità.

Ripensando ai primi titoli pubblicati da astoria e agli ultimi da lei decisi che percorso si delinea?

- Mi sembra di poter dire che ci siano stati due grandi filoni: uno relativo ai legami familiari e uno attento alla figura della donna. Da Un matrimonio inglese di Frances H. Burnett, forse il romanzo più romantico che abbia mai pubblicato, a Breve storia dei trattori in Ucraina di Marina Lewicka, passando per Le sorelle Field di Dorothy Whipple, Le buone maniere di Molly Keane e Le bugie degli adulti di Mary Lawson, per nominarne solo alcuni, si delinea un’attenzione per l’influenza che i legami e le storie familiari hanno sull’individuo. Se penso invece a libri come La governante di Perkins Gilman, L’ostacolo di Rosamund di Margaret Drabble per arrivare a Catherine Cusset con La definizione della felicità, a La fattoria delle Magre Consolazioni di Stella Gibbons, La lepre e la tartaruga di Elizabeth Jenkins, Cluny Brown di Margery Sharp o a Per favore, cercate di capire di May Sarton, sono tutti libri che, con registri diversi – dall’ironia al dramma – hanno delineato i difficili percorsi delle donne verso l’affrancamento dai ruoli tradizionali nei quali le si è volute ingabbiare.

Lasciare una casa editrice nata da una propria idea anche di condivisione del lavoro, del proprio tempo, delle proprie idee che cosa lascia dentro di sé? E cosa resta al mondo del progetto originale?

- Sentimenti diversi. Da un lato la soddisfazione di averci provato, di aver tentato di imporre una lista di qualità in un mercato editoriale sempre più orientato a libri facili con un gruppo di lavoro molto piccolo e molto coeso. Dall’altro, inutile nasconderselo, dell’amarezza e una sensazione di fallimento, perché evidentemente non sono stata in grado di imporlo, quel progetto editoriale. Spero rimanga l’idea che le scrittrici vanno prese molto seriamente, che non devono essere confinate al genere “letteratura per donne” con tutta l’implicita diminutio che questa definizione comporta, e che guardare anche alla produzione del passato può essere fonte di interessanti riscoperte.



*L’intervista a Monica Randi  è stata curata da Cinzia Bigliosi



lunedì 26 giugno 2023

Banale, inconcludente, consueto opportunismo editoriale

 Vorrei proporre oggi un post, in tandem con quello pubblicato sul blog di Darius , Retroblog. L'argomento a me molto caro è stato in parte trattato su altri siti (Writer's dream; Critica scientifica), nonché nei  post:  l'interpretazione del valore letterario e ne  La qualità e il valore di un'opera d'arte

I

tratto dal post  La trama debole di Joel
a cura di Darius Tred

A proposito di trame deboli

Di trame deboli ne ho sempre trovate parecchie. Sarà perché sono pignolo, sarà perché sono esigente. Tuttavia a tutto c’è un limite. E questo limite Joel l’ha superato abbondantemente, come Mary prima di lui. Ma Mary aveva molte attenuanti: eravamo in un’altra epoca.

Quello che mi lascia perplesso in casi come quello di Joel, come detto all’inizio, non è tanto il fatto che la trama in questione sia debole, quanto l’assenza critica dell’editor coinvolto e degli editor che ne hanno elogiato le tecniche narrative. Possibile che nessuno abbia ravvisato tutti i difetti che ho trovato io? Possibile? Comincio a pensare di aver sbagliato mestiere. Non è che dovrei fare l’editor anziché lo scribacchino?"

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        Consiglierei di leggere tutto l'articolo sul link sopraindicato. Di seguito la mia riflessione (leggi anche commentario del post in questione):

  Sì Darius. Rilanci un tematica a me molto cara: si può valutare obiettivamente un romanzo (ergo, un’opera d’arte propriamente detta) ?  Non vorrei tuttavia, con la mia domanda, sollecitare le solite tiritere sul de gustibus e sulla presunta impossibilità di valutare la qualità oggettiva di un lavoro puramente creativo; vorrei invece provare a porre un serio dubbio sul potere di quelle strutture di controllo del mercato (sull’editoria e sulla comunicazione in genere, come giornalismo televisivo e digitale, divulgazione scientifica, etc.) che hanno tutto l’interesse che il fruitore/lettore comune di un’opera letteraria o artistica, non disponga di elementi di giudizio condivisi, e che , in sostanza, non maturi delle capacità critiche che gli permettano, se non di distinguere nettamente la qualità, perlomeno di scartare una gran parte di prodotti  imposti in sordina dal mercato editoriale.
Il problema così concepito, inteso cioè nel senso della selezione dal basso  ( e perciò del saper distinguere almeno il cd ‘brutto’ ) lo pose – ad esempio – Gillo Dorfles, risolvendolo brillantemente, peraltro.

– Un punto centrale della riflessione potrebbe essere questo: 
                      laddove non vi sono criteri condivisi, vince sempre il criterio del più forte.

In definitiva, caro Darius, hai ben motivo di storcere il naso verso i giudizi (opportunistici) di un certo tipo di critica.

Domande in evidenza:

Camus
settembre 8th, 2013 

Scrivere è e non è .Per ognuno di noi può assumere un significato ed un valore differente… questo preambolo filosofico solo per dire, che non credo nel “Popolo degli aspiranti scrittori” come - non negando assolutamente l’importanza del sano confronto e interazione tra mestieranti di ogni settore - non credo nella bontà di nessun assemblaggio o corporazione nel mondo dell’arte, se non nella forma di scambio prettamente culturale e di influenze artistiche.Gli scrittori … che per me non sono un popolo ne una fra tria di ogni sorta …potrebbero e dovrebbero far tesoro del buon lavoro di questo sito*, di questa community tenendo ben a mente quello che succede nel mondo lavorativo.

In ogni settore c’è gente disonesta, speculatori dei sogni e delle ambizioni altrui, affabulatori più o meno abili etc… banalmente possiamo dire “questa è la vita”. Sta a noi, nel caso concreto… capire quando si specula sul lavoro altrui e quando invece si sogna e si ambisce insieme alla realizzazione professionale propria e del “proprio team” ed in quel caso, penso che sia più che lecito aiutarsi e sostenersi a vicenda.

Camus.  

* Il sito a cui si riferisce Camus è Writer's Dream, oggi purtroppo non più operativo
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Risposta

settembre 13th, 2013 

   Gentile Camus, nel tuo epilogo sembri affermare con fatalistica sobrietà: se c’è chi specula sulla mia pelle lasciamolo fare, poiché non c’è alternativa alle dinamiche della vita.  Personalmente ritengo che la vita, come fattore biologico e umano, debba esser affrontata e che quindi dovremmo manifestare (sempre) una forma di reazione costruttiva ad un’azione di senso contrario. Dico ciò per accludere un fondamento fisico ad un’astrazione di matrice altrimenti strettamnt filosofica. Non v’è alternativa dunque: tocca a noi capire! ma anche darci da fare, immaginare, operare soluzioni. In realtà condivido il tuo pessimismo sul ‘popolo degli aspiranti scrittori (che non produce soluzioni definitive, ma predilige le chiacchiere. – Felice di ricredermi cmnq) e condivido perfino il proposito di ‘sostenere il proprio team’. Dico però che siffatta collaborazione, a questo punto, potrebbe cavalcare i tempi e decidersi a sfruttare* il potenziale della rete.
   Son qui – e veniamo al dunque – per estendere una proposta che si articolerebbe prioritariamente su alcune fasi. La prima delle quali comporterebbe, rispetto ad un’opera letteraria, l’individuazione e la condivisione di una serie elementi che mi piacerebbe chiamare ‘criteri qualitativi’. Questa semplice istanza imporrebbe ad ogni buon conto l’esigenza di una discussione precisa che tuttavia, a quanto mi risulta, l’ambiente della rete non sembra voler incoraggiare. Tu e gli altri gentili interlocutori, ad esempio, come affrontereste questo dibattito? Ritieni/ritenete che il web, per quelle che sono le sue potenzialità, si presti a un tale confronto?  Se qualcuno fosse convinto tuttavia di aver già veduto o affrontato altrove simili contenuti lo esorterei ad indicarmi con precisione i relativi link , ne terrò conto; in seguito, se la cosa risultasse gradita, potremmo risentirci su queste accoglienti frequenze per un approfondimento, ringraziando anticipatamente chi ci offre accoglienza

Seconda domanda
settembre 14th, 2013 

Secondo me, il problema è addirittura a monte e in questo senso non è risolvibile.
Il problema sono le 700.000 persone che ogni anno inviano il proprio manoscritto alle case editrici. A prescindere da quelle che vengono arbitrariamente pubblicate, non c’è dubbio che – statisticamente parlando – buona parte dei lavori inviati non sia degna di pubblicazione. Per il semplice motivo che pochi nascono scrittori, dove con il termine scrittore si intende un individuo competente, preparato, assolutamente impeccabile nel suo mestiere e in grado di produrre contenuti di alto valore per il pubblico di lettori. A questo punto, la domanda che mi sorge spontanea è: possibile che di queste 700.000 persone nessuna si accorga della propria mediocrità? Possibile che non si sia in grado di riflettere con onestà e guardare in modo critico al proprio lavoro? Possibile che chi non sa scrivere bene non riesca ad essere un minimo obiettivo, quel tanto che basta per rendersi conto della cosa?

                                          La parodia del minatore

Risposta 
  Purtroppo rilevo nei corretti giudizi espressi da @G, la naturale riverenza ai paradigmi fuorvianti di un processo  induttivo dovuto ai modelli ed alla cultura dominante di cui ci cibiamo quasi inconsapevolmente in tutte le ore del giorno. Oramai il continuo martellamento informatico ci sta  tartassando al punto da farci metabolizzare equazioni del tutto sconnesse col più semplice dei ragionamenti. Non te ne faccio una colpa @G, non fraintendermi e mai  mi permetterei di farlo, visto che le tue costruzioni sono linearmente sovrapponibili a quelle di ben noti cattedratici e dei soliti quattro onnipresenti intellettuali della parola. Se ci pensi è proprio questo oceanica dimensione delle proposte a determinare il gradiente economico della produzione letteraria, a determinare la esclusività e il valore specifico del prodotto pregiato, quello cioè caratterizzato da talento. Io aggiungerei che il talento si forma e germoglia anche in virtù (e non solo) di questo fermento di idee, proposte, aspettative e passionalità, a prescindere che poi, i risultati effettivi si cristallizzino in una spropositata massa di materiale del tutto superflua ai fini commerciali. Per farmi comprendere proverò ad usare il paradosso del minatore

In modo analogo l’impresa mineraria deve scartare migliaia di tonnellate di materiale ‘inerte’ prima di giungere alla vena aurifera. Se questa fosse comodamente disponibile il costo dell’oro verrebbe sensiblmnt deprezzato. Accludo questa breve premessa per dire che questi ‘indisponenti’, ‘presuntuosi’, ‘saccenti’ e, per fortuna, insaziabili e prodighi aspiranti scrittori rappresentano in fondo il vero e unico carburante per far quotare il prezzo della letteratura e dell’arte in genere. Ben vengano dunque … Non trovi?  Tuttavia precedentemente ho affermato, sicuro di non auto-smentirmi, che non nutro fiducia per “il  - cosiddetto - popolo degli Asp scrittori.”  
   Perché non c’è contraddizione? 
In realtà non nutro fiducia nelle loro facoltà organizzative, per i motivi di cui s’è detto, ma mi auguro che la possibilità di una forte selezione si presenti sempre laddove si maneggia materiale artistico che, come vuole una attenta filosofia scientifica, comporta sempre una fitta rete di connessioni e condizionamenti. L’arte insomma, in quanto tale, non può ignorare il copioso flusso di individui che ad essa, seppur presuntuosamente, si avvicinano e, talvolta, si immolano. L’arte e chi ne usufruisce, in tutti i sensi, non appartengono a mondi impermeabili, ma interagenti fra loro. 
   Il problema degli Editori è che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Non si rendono conto di non saper maneggiare la materia grezza, di non saper operare criteri selettivi ed allora - forse più convinti di te sulla impraticabilità di eventuali soluzioni – sfruttano le loro inclinazioni predatorie a mascheramento di un deficit di competenza assoluto, indelebile e indiscutibile. In sostanza è come se i maggiori detentori dei diritti di sfruttamento minerario del pianeta si mettessero d’accordo per vendere un metallo vile come oro vero e proprio, che in pratica non riescono ad estrarre facendo rientrare i conti.  Essi  (gli editori) ribassano il prezzo della qualità che non riescono a selezionare (estrarre), arrogandosi il diritto di giudizio e relegando lo stesso a mero espediente interpretativo. Provo a spiegarmi diversamente: in sostanza costoro si ritengono (con la collaborazione e la sfacciata compiacenza dei mezzi mediatici) i migliori esperti per valutare la materia, poi però commercializzano paccottiglia; come ci insegna l’intramontabile Palazzeschi, “non fanno che vender fumo per arrosto”. I conti alla fine non tornano ed allora fenomeni della EAP o della pubblicazione digitale (ma sulla piattaforma dei miracoli, sia chiaro) a cui non sono immuni nemmeno le grandi catene editoriali, diventano l’unica strategia perseguibile per limitare i danni . Ve l’immaginate il Signor De Beer (quello dei diamanti sudafricani) che ci piazza un insignificante pezzo di quarzo al costo esorbitante di uno zaffiro? E ai nostri legittimi dubbi rispondesse che il valore/prezzo del biossido di silicio lo può decidere solo lui perché è la più grande autorità interplanetaria e quindi il suo parere varrà ben quello di un povero manipolo di scemi. Il signor De Beers, tuttavia al contrario dei nostri signorotti spocchiosi dell’impresa ‘sub-editoriale’, sa bene che in breve il suo inganno lo porterebbe alla rovina e alla rovina del mercato e si guarda bene dal maledire le montagne di trachite o di basalto del Kimberley, che ostacolano la sua corsa alle meraviglie del sottosuolo. Ecco, ora credo il concetto sia più chiaro . 

Domanda  di @G
settembre 21st, 2013 

    Mi piace il tuo ragionamento, per certi versi fila proprio liscio. Aggiungo però alcune riflessioni.
Vero che la mediocrità della maggior parte delle proposte letterarie che arriva agli editori accresce il valore di quelle valide, ma a questo punto, stabiliti ormai da decenni i requisiti che qualificano come buono un testo, abbiamo davvero ancora la necessità di un raffronto?
Pensi che prendendo in mano il libro di un ottimo autore avresti la necessità d compararlo a quello di uno pessimo per essere sicuro della tua prima impressione? Non credo. Non più. E così (teoricamente) gli editori. Inoltre, per quanto competenti o meno possano essere questi ultimi, non c’è dubbio che la necessità di una prima selezione vi sia. Se non ci fosse, il mercato sarebbe invaso da una marea di opere illeggibili, più di quanto non sia già.
Proprio quello che capita con le case editrici a pagamento che non vagliano il materiale loro inviato, ma lo pubblicano a prescindere, così com’è. Ho appena finito di leggere le prime righe di un libro auto-pubblicato e ti giuro che mi veniva da piangere. Cito solo: “…si chiedevano chi GLI avesse svegliati”.Ti risparmio il resto, e lo risparmio anche a me.

Dunque, posto che una selezione debba aver luogo, a chi potrebbe essere affidata, se non a chi per lavoro pubblica libri? Al lettore, che è ancora meno competente a giudicare dalle classifiche di vendita? All’autore, che a quanto pare non è in grado di valutare in modo obiettivo il proprio lavoro? A chi fa tutt’altro mestiere? E poi alla fin fine, se ci pensi, è soprattutto colpa del lettore. Che ingurgita libri mediocri e li definisce buoni, incitando gli editori a produrre altra paccottaglia, come la chiami tu. Se lo scopo dell’editore è vendere e il lettore compra la paccottaglia a prezzo d’oro, apprezzandola e chiedendone dell’altra, perché mai l’editore dovrebbe perdere tempo a cercare e vendere l’oro?

Quando il lettore inizierà a reclamare dei buoni libri, l’editore si vedrà costretto a darglieli, o per lo meno a dargliene di più.
Quando il lettore smetterà di acquistare la paccottaglia, l’editore smetterà di produrla, o per lo meno inizierà a produrne meno.
Quando il lettore smetterà di acquistare libri pubblicati da case editrici a pagamento, l’autore smetterà di autopubblicarsi e tornerà all’edtoria tradizionale.

Ma il lettore tace, e l’editore lo segue a ruota.

Risposta

Paccottiglia’, @G, ‘paccottiglia’ non paccotaglia. Se mi citi fallo nelle dovute maniere, perdindirindina! – Scherzo, eh!
Tornando a noi, sento di dover riprendere questo scambio dai punti più significativi, quelli cioè in cui mi è parso di ravvedere fronti convergenti. Mi è sembrato allora corretto porre in rilievo la necessità di comune canone d’analisi a cui far riferimento in prospettiva critica. Le questioni che poni sembrano dunque azzeccate “abbiamo davvero la necessità di un raffronto?” e ancora: “posto che una selezione debba aver luogo, a chi potrebbe essere affidata, se non a chi - per lavoro - pubblica libri?”
Rispondere non è facile, tantomeno in spazi ristretti, non volermene allora, se la mia replica non dovesse rispettare i consueti limiti della buona creanza:

   - Sì, a monte deve sempre esserci una ricerca di qualità.
 In primo luogo, deve affermarsi la volontà di superare la logica arbitraria cioè la inattendibilità del giudizio personale, generalmente riconducibile a fattori cangianti e perciò distanti dalla visione obiettiva degli elementi.  La prerogativa qualitativa comporta anzitutto la condivisione di una serie di parametri coerenti col giudizio finale dell’opera. Non basta insomma appellarsi ad un gusto specifico, sebbene sottoscritto da firme altisonanti, ma occorre specificare i motivi della scelta, facendoli collimare con criteri precedentemente ritenuti efficaci e proprio per questo considerati super partes. Mi piacerebbe sottoporti il parere di Lorenzo Renzi, spero di avere occasione di farlo più avanti.   
 
    Ribadisco il punto: dobbiamo prestare maggior attenzione alle graduatorie, poiché una volta privati di una procedura analitica supportata da criteri condivisi, continueremo a subire scale e valutazioni imposteci da altri. Ovunque, al supermarket, in farmacia, così come alla tivù, ci ritroviamo fra i piedi prodotti posti in posizione di evidenza rispetto ad altri; ciò avviene in virtù di una selezione precostituita. E non dobbiamo incorrere nell’errore di delegare figure ‘competenti’ a svolgere il ruolo di garanti della qualità, perché ciò – com’è intuibile – alimenta solo la possibilità di un preciso calcolo speculativo. Dovremmo piuttosto cominciare a capire, conoscere e avversare un contesto che fonda i suoi valori sulla cifra dell’autorità e sul parere insindacabile delle eminenze grigie. 
    Cento anni fa, e forse più, l’analisi delle urine si limitava all’osservazione controluce di un vasetto di vetro colmo di pipì. L’analisi chimica ci ha svelato l’approssimazione del vecchio metodo e perfino la possibilità di qualche imbroglio che all’epoca poteva risolversi al massimo con una partita di uova a qualche gallina vecchia, ma che oggi punta all’accaparramento di somme cospicue detratte dall’oceanica disponibilità finanziaria di una comunità formata da milioni di individui: possibile che agli albori del terzo millennio si pensi ancora di delegare singole figure, cosiddette competenti, a regolare questioni di tal portata?  Il punto in cui nessuno sembra tenere in considerazione è che ci muoviamo ai margini di un sistema abituato a promuovere il criterio interpretativo al posto di quello obiettivo. Nessuno sembra farci caso, nessuno si lamenta. Basterebbe infatti questa semplice consapevolezza per rifiutarsi di entrare in una qualsiasi sala cinematografica, o persino di frequentare la scuola dell’obbligo senza prima aver compreso la motivazione coerente per ogni assurda selezione imposta sui testi o sui temi della programmazione didattica, invece…Invece abbiamo visto che la storia, i suoi protagonisti, la cultura, i poeti, i nomi degli stessi scienziati che ci propinano in ogni lezione scolastica o radio-televisiva, indifferentemente, derivano da una classificazione faziosa. In letteratura gli stessi autori o le loro opere vengono sottoposte a un continuo giudizio selettivo da quattro di baronetti ideologhi, prima di esser pubblicate sulle antologie scolastiche. Ma di quelle graduatorie,’artistiche’ a tutti gli effetti (seppur con l’alibi della didattica formativa), nessuno si lagna.

                                                        § § §

     Abbiamo visto che tutto quanto ci viene dato da leggere, da consultare, da guardare al cinema o alla tivù, proviene da una selezione non esente da  occultamenti e boicottaggi. La cultura passa cioè dalla volontà e dalle preferenze di un' entità censoria avvezza a formulare una classifica dietro l’altra a proprio piacere per poi propinarla al prossimo come fosse nettare degli dei. Forse qui  si è provato a sostenere che l’arte o la bellezza non si possono misurare senza far caso che oggigiorno  arte e bellezza vengono misurate e soppesate ovunque!
   L’emancipazione dei popoli tuttavia  passa da questi imprescindibili processi, tutto insomma è frutto di graduatorie arbitrarie volte ad orientare il nostro gusto prima e le nostre risorse poi. Ma qualcuno continua a sostenere che l’arte non si misura…Luoghi comuni! Dovremmo rispondere. Se davvero l’arte non si potesse misurare dovremmo rifiutarla in blocco e  girare alla larga alla larga dai musei e cominciare a bruciare gli altari pagani consacrati ai modelli della cultura accademica che poi altro non è che quella dominante. Di questa opinione è il professor Lorenzo Renzi , ma identici principi  sono stati soppesati a suo tempo dal celebre premio Nobel Werner Heisenberg*.

                                                                     Così si esprime Renzi linguista e filologo:            


Sono del parere che ogni uomo è inerentemente poeta, come è matematico. Non è la scuola che lo fa poeta, né matematico. Depositate nella mente umana ci sono delle relazioni logiche fondamentali, che, come ha dimostrato Bertrand Russell, sono alla base della matematica, dalla più semplice alla più complessa."

Lo studioso continua così:

     "Un’insegnante di un istituto superiore, mi chiedeva una conferenza per un pubblico di insegnanti. La conferenza – mi suggeriva – avrebbe dovuto fornire agli insegnanti un metodo per interpretare e far interpretare le poesie.   

         Un metodo?

     – Sì, un procedimento, una serie di operazioni con cui in prima istanza un insegnante e in seconda istanza un ragazzo possano affrontare un testo poetico. Un metodo valido per ogni testo poetico, cioè un metodo che permetta di scrivere qualcosa di sensato su ogni testo poetico. Mi è venuto in mente automaticamente il titolo di un saggio letto tanti anni fa, di uno studioso inglese, J.M.H. Sinclair: Taking a poem to pieces. “Fare a pezzi una poesia”: sì, questo si può fare; ma dopo averla fatta a pezzi, trovarne automaticamente un’interpretazione, no, questo non mi pare possibile. Posso fare l’analisi grammaticale di un testo, non l’analisi poetica. Che possa esistere un’analisi poetica non mi sembra.

Ma, insisteva la mia interlocutrice, forse che tutti i testi poetici non presentano dei tratti comuni?

Questo sì, ammisi.

Allora non si potrebbero cercare prima di tutto questi?

La mia interlocutrice cominciava, mi parve, ad avere più ragione di quanto credevo al principio.Non mi sento tuttavia ancora maturo per dare una risposta nei termini che lei – e forse anche il lettore – mi chiede: una risposta che sia una ricetta.Tuttavia la visita aveva deviato il corso dei miei pensieri, facendomi riflettere sul fatto che il problema dell’insegnamento, anche una volta che si ammetta con me che esiste una poesia fuori della scuola, è la poesia nella scuola. Come trattarla, che cosa farne? Come lavorare sulla poesia?”

      Il dialoghetto molto istruttivo termina qui. Tuttavia le parole del professor Renzi mi hanno ricordato quelle del fisico Werener Heisenberg, pronunciate almeno trent’anni prima: uno stile d’arte può anche essere definito da una serie di regole formali applicate al materiale di quell’arte in particolare. Può essere che queste regole non siano rappresentate nel senso stretto del termine da una serie di equazioni, ma i loro elementi fondamentali sono sicuramente in relazione con gli elementi essenziali della matematica. Eguaglianza e ineguaglianza, ripetizione e simmetria, certe strutture di gruppo svolgono un ruolo fondamentale sia nell’arte che nella matematica."

Lo stesso Heisenberg, ci richiama partizione cartesiana. Chi meglio di lui avrebbe potuto farlo? lo stile nasce dall’interazione fra il mondo e noi, ossia fra lo spirito del tempo e l’artista.' Ed infine: “la scienza e l’arte, in fondo non sono così diverse. Sia l’una che l’altra danno forma nel corso dei secoli ad un linguaggio per mezzo del quale l’uomo può parlare delle più remote parti della realtà e le serie coerenti di concetti, come i diversi stili dell’arte, sono le parole di questo linguaggio.”

                                      _________________________________________________

     Ciò mi fa ritenere che il nostro piccolo dibattito possa condurci lontano, addirittura a una serie di soluzioni rispetto al problema della valutazione di un testo letterario o, come abbiamo visto, poetico. Ecco quindi perchè mi sono concentrato sulle esortazioni di questi due studiosi ritenendole illuminanti nell’ambito del contesto culturale della nostra epoca e non solo di una discussioncina sul web. Or dunque dobbiamo ribellarci a questa consuetudine tipicamente meridionale. Dobbiamo farlo, se vogliamo migliorare il nostro futuro, la nostra alimentazione così come le cure, la scuola, e non ultima la nostra mente. Per questa semplice ragione in precedenza mi son permesso di parlare di ‘paradigmi fuorvianti’ e di fattori contaminanti rispetto alla coerenza di un onesto giudizio critico. Senza una tale preliminarietà di intenti continueremo a promuovere i carismi di una cultura fondata sulle distorsioni del giudizio arbitrario dettato dalla convenienza che, come specificato, serve solo a far quadrare i conti delle imprese ammanigliate alle dinamiche di palazzo. Dico ciò in quanto fermamente convinto che il problema sia di carattere prettamente culturale. Branche della ricerca scientifica, specie quella medica, si battono ancora affinché i rimedi curativi soggiacciano a criterialità obiettiva piuttosto che al giudizio insindacabile degli accademici, poiché – come nella letteratura – costoro sembrano voler approfittare dei privilegi acquisiti (e lo fanno regolarmente) per canalizzare i flussi delle risorse entro circuiti a loro favorevoli, come cliniche, istituti o società in cui vantano compartecipazioni azionarie. Questi metodi, ci piacciano o meno, contaminano il Sapere, la ricerca scientifica, la Sanità, e l’informazione di cui ci approvvigioniamo e a quanto pare sembra risucchiare entro le proprie spire anche la letteratura.

   Ecco perché dovremmo adoperarci tutti per comprendere le logiche della scelta artistica, affinché la selezione di testi pubblicabili non rimanga una questione circoscritta solo a coloro che per lavoro pubblicano libri. 

Dobbiamo comprendere allora che l’individuazione e lo studio preliminare dei parametri qualitativi può anche coinvolgere personalità e firme autorevoli, ma per definirsi attendibile a tutto tondo deve attenersi imprescindibilmente a significati e argomentazioni accessibili a tutti. E’ quindi necessario affidare il procedimento di selezione alla buona volontà di autori, lettori e a competenti veri, proprio a sostegno di una complementarietà multidisciplinare e polivalente dell’approccio valutativo. Delegare gli accademici, fornire loro carta bianca, è un errore perché essi sono legati all’autorità e al potere e che per tradizione non gradisce gli incontrollabili evoluzioni a cui è avvezza la naturale ridondanza creativa.

L’arte deve provenire e foraggiarsi a tutti i livelli per essere definita tale e per svolgere un ruolo di costruzione e cambiamento della società, caratteristiche che il pensiero unico tende ad escludere, deve per natura mantenere sempre la possibilità di contraddire i famigerati teoremi cristallizzanti rispetto ai rapporti di convenienza che spianano la strada allo sperpero delle risorse. Ecco perché non possiamo assolutamente delegare l’accademia a svolgere una tale, delicata funzione. Peccato che mi sia venuto un tal pistolotto, però alcune asserzioni lette in questo commentario mi sono parse un tantino ingenue.

Nelle tue conclusioni, @G, vedo invece maggior chiarezza. Infatti al momento l’editore può permettersi di far quadrare i bilanci vendendo fumo per arrosto, ma alla lunga la sua strategia diverrà fallimentare. Reggerà perlomeno fino a quando si perderà la percezione collettiva del valore delle cose.                          

Un caso tutt'altro che eccezionale: i nostri editori finiranno come le aziende casearie americane, che a forza di meccanizzare e snaturare l’alimentazione bovina ed ovina hanno reso i loro prodotti caseari immangiabili, non soltanto perché potenzialmente inquinati ma semplicemente perché privi di gusto. Sono talmente insapori che nemmeno il grossolano consumatore locale gradisce il prodotto quindi per smerciarlo acquistano il formaggio ‘vero’ qui da noi per poi mescolarlo al loro, il cui valore commerciale sarebbe nullo. Il settore quindi è divenuto fallimentare e solo con l’apporto di questi espedienti le industrie casearie riescono a riequilibrare i bilanci. Approfondimenti qui




                                          





giovedì 15 giugno 2023

Criteri e parametri.


" Dove non vige un criterio condiviso, vige dispoticamente il 'criterio' del più forte, che nel caso dell'arte è il criterio deciso dal mercato, nel caso del diritto è il criterio imposto dal monarca.

tratto da: ' La Madonna del latte'.

lunedì 12 giugno 2023

La bellezza salverà il mondo (Fëdor Dostoevski)

 


  Esuberava vita da ogni minima particella mitocondriale, da ogni singola cellula del corpo ed era facile si trascinasse anche un po’ oltre. Non sempre queste sue ridondanze si raccoglievano in un concentrato di vigore positivo, non sempre suscitavano l’ approvazione incondizionata del prossimo, persino da parte di chi l’amava. Ciononostante egli era vivo! Un formidabile anfetaminico naturale che fa omaggio di sé ad un mondo esangue, difficilmente generoso, difficilmente magnanimo ma facilmente pronto a sputar sentenze e accuse . . . Il mondo sputa sempre addosso alla bellezza e piscia senza alcun riguardo sui boccioli di rosa.


tratto da:  'Mondo cane!'