lunedì 31 luglio 2023

Trionfo e miserie della visione meccanica del mondo

                               Meccanicismo                                                                               Un libro di Giorgio Israel

Dalla quarta di copertina

«I processi biologici sono riducibili a moti e la biologia è riducibile alla fisica? I soggetti biologici sono nient’altro che macchine? Il cervello è una macchina e, più in generale, l’uomo è una macchina e quindi non possiede libero arbitrio? Che ne è, di conseguenza, della sfera morale?
  Il termine meccanicismo indica la visione secondo cui ogni fenomeno altro non è che il risultato di moti di corpi, o comunque può essere descritto o spiegato in questi termini. Indica, però, anche la visione secondo cui ogni parte della natura è assimilabile a una macchina o, addirittura, secondo cui l’intero universo non è altro che una gigantesca macchina. L’assimilazione della natura a una o più macchine ha aperto la strada a una visione materialista e quindi a un’identificazione del meccanicismo con il materialismo. E questa relazione ha sollevato una serie di problemi, al contempo teorici e morali, che non cessano di essere oggetto di accanite discussioni.  L’autore ripercorre con spirito critico i temi, le prospettive, gli approcci metodologici che si sono succeduti nel tempo e che, come profondo conoscitore della disciplina, è spinto a esplorare e a reinterpretare »
    

    Solo un profondo conoscitore della storia del pensiero scientifico(e non solo) come lui poteva addentrarsi efficacemente nel racconto di una visione del mondo, quella meccanicistica, che tanto ha condizionato e condiziona il dibattito su ciò che è l’essere umano, su che cosa sono i processi biologici, su che cosa sia il cervello. La riduzione dell’universo a macchina, pur meravigliosa, ha avuto come esito inevitabile una lettura della natura e dell’umano in chiave materialistica, di cui pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, Israel denuncia contraddizioni e problematiche tuttora irrisolte.  Lo fa presentandoci e spiegandoci il ricchissimo dibattito e confronto di idee e di domande che si sono sviluppati intorno a questa tematica, in quella che l’autore definisce una “interminabile crisi”: il meccanicismo è un concetto di breve successo che però è riuscito ad arrivare ai nostri giorni, segnandoli pesantemente, e promette di andare oltre. I giorni nostri sono quelli in cui, dalle neuroscienze ai criteri di valutazione della ricerca scientifica, l’approccio meccanicistico riduce la complessità del reale a modelli matematici, ad algoritmi che pretendono di essere l’unica chiave di conoscenza. Un tempo, il nostro, in cui si pretende che solo quantificandola in qualche modo la realtà possa essere conoscibile, mentre, per dirla con il filosofo francese Alain Finkielkraut, “tutto il resto è letteratura”: ciò che esula dal linguaggio matematico - intuizione, parola - sono inutili chiacchiere, buone per sfaccendati.

   E invece, spiega Israel, la matematica ridotta a unico strumento di misura di tutto il reale risulta svuotata della sua potenza speculativa e non riesce neppure ad assolvere al compito minimale della misurazione stessa. Lo dimostra brillantemente egli stesso, per esempio entrando nel merito  di alcuni esperimenti – inadeguati - nell’ambito delle neuroscienze, nei quali si è cercato di capire se ognuno di noi è libero di scegliere o è predeterminato da processi neuronali. Sono stati messi sullo stesso piano fenomeni che coinvolgono l’attività cerebrale, di cui si può quantificare la durata, con processi irriducibili a qualsiasi modello matematico, come la “consapevolezza” e la “decisione”. Si è cercato cioè di individuare il “momento di una decisione” come fosse un tempo misurabile e rappresentabile con un punto su una retta, e non invece un’esperienza personale che può essere solo narrata, e che non ha niente a che fare con scale temporali numerabili. Per Israel, l’esito finale del meccanicismo è l’uomo visto come complessità biofisica di corpo e genoma e neuroni, modificabili: sono, i nostri giorni, quelli del trionfo della tecnoscienza – un termine coniato dall’epistemologo Hottois che Israel stesso ha portato nel dibattito pubblico italiano, e che indica la trasformazione della tecnica, divenuta indipendente dalla ricerca scientifica speculativa e tutta tesa a migliorare performance operative senza approfondirne più di tanto il perché. “Basta che funzioni”, sintetizzerebbe Woody Allen, ma Israel mette in guardia: “Non conosciamo alcuno sviluppo tecnologico importante che non si sia basato su elaborazioni teoriche”, e soprattutto non conosciamo un’umanità che non si chieda il senso della sua esistenza e del mondo che la circonda. Una domanda che non si può misurare.


Assuntina Morresi su Avvenire, 2 gennaio 2016

La profetica battaglia di Giorgio Israel

La profetica battaglia di Giorgio Israel, contro l'uomo ridotto a macchina.                                                                 Articolo della giornalista Nicoletta Tiliacos, pubblicato il 24 settembre 2016  sul Foglio.

Quel che gli consentì di far convivere i differenti aspetti della sua attività fu, da un lato, la visione storica e laica della religione, e dall'altra parte il punto di vista 'culturale', e mai soltanto tecnico della ricerca scientifica. Con queste parole lo storico della matematica e della scienza, Giorgio Israel, a lungo firma illustre del Foglio, rendeva omaggio a suo padre, Saul, medico e scrittore. Ora che il calendario ci ricorda che da un anno Giorgio Israel ci ha lasciati ( è morto a settant'anni , il 25 settembre 2015) quelle stesse parole, soprattutto nella parte che valorizza l'esperienza scientifica come fatto culturale, ci sembrano più che mai capaci di sintetizzare anche la sua esperienza di studioso. Ne troviamo testimonianza fino all'ultimo lavoro scientifico di Israel, uscito postumo per Zanichelli qualche mese fa,  intitolato “Meccanicismo. Trionfo e miserie della visione meccanica del mondo.” .  Quella del vivente come macchia è un'idea che, appena nata, entrò subito in una crisi “interminabile”,  come la definisce Israel. Una crisi che però assomiglia a una paradossale forma di successo. Pensiamo all'ambizione di misurare matematicamente manifestazioni della vita e dell'umano come la sfera morale, ma anche fenomeno biologici, sociali ed economici.  Quante volte ci è capitato di leggere delle neuroscienze che 'misurano' la tendenza al tradimento, l'inclinazione ad avere una fede, la capacità di scelta o il livello di consapevolezza di una decisione politica. E se l'uomo è una macchina, perché rinunciare a misurare anche il senso del dovere, la compassione o l'avarizia? Israel ricorda che la prima vittima di questa impostazione fuorviante è proprio la matematica, strappata al suo ruolo speculativo e costretta a misurare il non-misurabile. L'uomo ridotto a genoma e neuroni, ampiamente modificabili, è il sogno – l'incubo – antiumano contro cui Israel ha combattuto con lucidità e passione. In buona compagnia, se è vero che, anche Karl Popper affermava di considerare “la dottrina secondo cui gli uomini sono macchine non solo fallibili, ma tendente a minare un'etica umanistica” . Corollario naturale di questa battaglia, che per Israel è durata una vita, è stato l'impegno affinché i luoghi istituzionali di trasmissione della conoscenza, dalle scuole elementari fino all'università, non si riducessero, come troviamo scritto in un documento ministeriale francese di qualche tempo fa, in un “self service dove si passa per approfittare di un clima di fiducia”. E' fin troppo facile, oltre che assai malinconico, dover constatare come i timori di Israel trovino  sempre nuove  conferme, così come trova conferma l'ostilità a un'idea di apprendimento  matematico che non sia finalizzato soltanto all'applicazione pratica.                 “ La matematica è una miscela di logica e intuizione informale”, avverte Israel e scienza e matematica, prima di servire a formare periti chimici o geometri, costituiscono per tutti un'introduzione alla filosofia, un invito a porsi domande sul mondo, un modo per far lavorare creativamente il pensiero. Anche di questo si parlerà in un incontro dedicato a Giorgio Israel, che si terrà a fine novembre a Bologna, a partire dai temi affrontati nel suo contributo al pamphlet “Abolire la scuola media?” Il Mulino Editore.), scritto con Cesare Cornoldi e pubblicato nel settembre 2015, pochissimi giorni prima della sua morte. A quella domanda per inciso, a differenza dell'altro autore , Israel rispondeva categoricamente di no. La scuola media e la differenziazione dei tre cicli scolastici che oggi qualcuno vorrebbe abolire epr approdare ad un'indistinta e paludosa palestra di 'auto-formazione' , hanno funzionato molto bene prima dell'affermazione di una tendenza che vede la scuola esclusivamente come luogo di formazione della forza lavoro. “A essere sbagliata non è la 'vecchia' scuola media, ma quest'  idea – dice Israel – figlia di economisti della scuola che hanno lavorato alacremente per ridurre le pratiche di insegnamento alla somministrazione di test e quiz”.


Interessante lezione di Giorgio Israel sulla meccanica aristotelica qui  



Giorgio Israel (Roma - 6 marzo 1945; Roma 25 settembre 2015)

 

Matematica come paideia. Un'intervista sull'insegnamento della matematica oggi



La questione dell'uso pervasivo degli strumenti informatici va molto oltre la questione della matematica e del 
suo apprendimento. Vivere in un mondo sempre più lontano dalla natura (luce, forme, odori, calore, 
sensazioni) ci allontana da noi stessi, spezzando la nostra straordinaria esperienza mentale e corporea.
 Come ha detto Hans-Georg Hadamer, dalla contemplazione del fuoco sono sorte probabilmente le prime 
domande dell'essere umano. Lo stesso Gadamer afferma che la scrittura è la svolta nel pensiero umano,
 molto di più dell'avvento del computer. Ritorno sul fatto che il computer, come indica il suo nome, "calcola", 
nel senso di eseguire a velocità impressionante procedure elementari nelle quali l'essere umano riesce a 
tradurre le sue idee, la sua intenzionalità, il suo senso estetico, e così via, piegando queste capacità alle
 misere condizioni delle macchine. I nostri figli raggiungeranno sempre nuovi traguardi nello sfruttamento
 delle macchine, e ciò soprattutto se continuiamo a coltivare in loro le idee, l'intenzionalità, la parola, il senso
 estetico, il ragionamento matematico e così via. Se il nostro essere nel mondo avviene quasi interamente
 attraverso strumenti digitali, della nostra esperienza corporea rimane soltanto la visione e l'ascolto, e queste 
due facoltà rivolte solo a immagini e suoni digitalizzati, ossia già elaborate: è la distanza che separa
 essere nel mondo rispetto a essere nella sala cinematografica vedendo un film in 3D, oppure ascoltare la 
musica con gli auricolari rispetto a ascoltare la voce, uno strumento, un'orchestra. Mi chiedo quindi, 
pensando ai bambini, vogliamo davvero ridurre in questo modo drastico l'esperienza infantile di scoperta del
 me e del non me? (uso le parole del grande studioso Édouard Séguin, che ci ha scoperto l'umanità
 anche di chi un tempo ci appariva quasi come sprovvisto di ciò che rende umani)
   Aggiungo che quella presunta capacità di usare i nuovi strumenti è solo apparenza: il neonato si entusiasma 
se un oggetto reagisce a qualsiasi suo toccare o sfiorare (come si entusiasma con il gattino in casa); 
il bambino o ragazzo impara velocemente regole meccaniche di uso, ma appena il computer non risponde,
 non riesce a immaginare strategie per risolvere perché non ne conosce la logica interna: la può imparare,
 appunto questo sarebbe iniziare seriamente all'informatica a scuola, senza pretese di un "pensiero 
computazionale" che sarebbe una nuova frontiera del pensiero umano. Il ragazzo o giovane si immerge 
nella rete, manifestando la capacità dell'essere umano di "rendersi uguale", di "immedesimarsi", senza
 discernimento: ma se non so cosa è un libro e cosa è un giornale, cosa porta in sé un dipinto o un edificio,
 allora le parole accumulate in miliardi di pagine web e le immagini di cose, persone e luoghi che scorrono nello
 schermo si presentano a me come una massa informe in cui non ho punti di riferimento, una navigazione
 in mare aperto senza neanche le stelle per orientarsi. Sotto questa mitologia del pensiero computazionale 
cova l'idea che quando si usano strumenti informatici si pensa in modo diverso... questa idea dei “nativi 
digitali”. Questo va oltre la matematica. Per quanto la riguarda, non sono gli strumenti informatici che fanno 
imparare la matematica, ma è imparare la matematica che prepara a padroneggiare, sfruttare e far 
avanzare il mondo digitaleLa questione delle tecnologie informatiche, per essere considerata 
seriamente, richiede di dilatare lo sguardo molto oltre queste poche considerazioni. Accostarsi al dialogo su 
questi temi fra Ricoeur e Changeux  (La natura e la regola. Alle radici del pensiero , Raffaello Cortina Editore,
 1999) ci da un'idea del modo povero  e raffazzonato con cui si tratta spesso, e ci indica invece come
 riflettere su di esso in modo serio. Non è un  compito facile ma ne vale la pena

lunedì 17 luglio 2023

Dalla critica del ‘paradosso meccanicista’ del romanzo “Brave New World” all’ideale della rappresentazione cubista

 Un mio vecchio articolo pubblicato qui


    E’ certamente un controsenso  tacciare il romanzo BNW di scarsa qualità letteraria o rinfacciare ad Aldous Huxley una limitata perspicacia rispetto all’avvento dell’era atomica. La lungimiranza della sua analisi infatti sembra averla spuntata sulla faciloneria di una certa critica letteraria, che dobbiamo necessariamente ritenere intaccata  dalle insidie  di una stasi  ideologica.  BNW propone  un  raro modello di letteratura parallela al contesto della pittura avanguardistica dell’epoca,  non privo di riferimenti all’attualità.  Sotto questo profilo l’opera si pone ad una distanza considerevole rispetto alla tradizione umanista storicamente insensibile alle priorità della comunità scientifica. I rapporti fra Arte e Scienza, prima ancora che su eventuali raffronti sul piano metodologico, avrebbero  allora dovuto intensificarsi in virtù di un’intesa comune.  Questo mancato sodalizio fra artisti e scienziati  avrebbe potuto individuare i suoi presupposti già nel vincolo etimologico fra le voci  in questione. Vi è infatti una curiosa corrispondenza fra il principio del ‘fare artistico’ , la cui radice proviene dal sanscrìto ‘ar’ (= muovere verso, avvicinarsi) , e il termine greco tèchne; analogia andata pressoché perduta nel corso dei secoli a favore delle comuni accezioni del linguaggio moderno sempre più spesso agganciato al senso di contenuti divergenti da quello originario del movimento. Là dove vige il ferreo ideale della programmazione meccanica, della precisione e dell’ordine, le tendenze aleatorie della vocazione artistica sembrano porsi come minaccia piuttosto che come risorsa. Dall’esigenza di operare un controllo pressoché assoluto sulle dinamiche della fenomenologia biologica, sui cicli, sulle mutazioni della natura, nasce nella cultura moderna il falso convincimento di poter padroneggiare le sorti del mondo attraverso le leggi di una disciplina che si vorrebbe retta da un principio assoluto di efficienza tecnica e sulla asciutta capacità di programmazione. 

     L’arte, naturalmente, identificata soprattutto nella ridondanza delle sue pulsioni caotiche non può che raffigurare l’esatto contraltare di questa atavica necessità  di iper-controllo. Per questo motivo la deriva del primo significato della parola arte ha finito col innescare fortissimi dubbi sulla possibilità di una contaminazione ideologica. Intorno alle debolezze di questo dualismo di pensiero Aldous Huxley costruisce, in forma anti-utopistica, i meccanismi ordinati della società del futuro. Con lo stile del paradosso tratteggia le caratteristiche del modello sociale tecnologicamente avanzato, affresco fedele del teorema deterministico. Il ‘mondo nuovo’ di Huxley riduce il prodotto dell’evoluzione della specie concepita a ‘freddo’ [1], a un regime formalizzato da criteri d’ordine ritenuti ‘superiori’, ma in definitiva drammaticamente omologanti. In esso è descritta la fase più prossima e consequenziale di un sistema di regole che pone al suo vertice le priorità della pianificazione ‘intelligente’ e un controverso concetto di sviluppo conforme a determinazioni che, anziché il progresso, porterebbero la specie sul baratro dell’estinzione. In questo contesto dobbiamo supporre anzitutto che l’autore di BNW conoscesse assai bene le leggi della fisica classica e ne intuisse i limiti applicativi; se ne evince, pertanto che le vicende del romanzo intendessero rappresentare solo la fisionomia  sociale di un modello ai confini del paradosso. Nella società perfetta della Londra pseudo avveniristica di Huxley ritroviamo infatti l’esatto schema di un ordinamento edificato sulle approssimazioni della meccanica newtoniana e cioè secondo la precisa relazione di causa-effetto  fra gli elementi, relazione in Natura inesistente (dal momento che lo spostamento delle particelle atomiche, come vedremo più avanti, è risultato prevedibile solo in termini di probabilità). La scienza non è qui intesa come indagine e volontà di esplorazione ma solo come costante applicativa di norme predefinite sui dettami di un Sapere assoluto e monolitico che ha tagliato tutti i ponti con le passioni artistiche e con le intemperanze dell’istinto.

    E’ necessario a questo punto ripercorrere la storia delle avanguardie pittoriche di inizio secolo per ritrovare una contestazione altrettanto decisa delle formalizzazioni meccaniciste. Vediamo allora che l’intento a cui si ispirano gli autori è sempre lo stesso, l’interpretazione figurata del movimento .Negli  anni a cavallo fra  XIX e XX secolo difatti la fisica concentrava enormi sforzi nel tentativo di codificare le proprietà dinamiche dei corpi, nel cercare cioè di comprendere l’attitudine delle particelle a spostarsi nello spazio, e a cercare di calcolarne la traiettoria, nella chiara consapevolezza di non disporre, nelle linee guida del formalismo accademico tradizionale, l’opportunità di giungere a soluzioni praticabili. Le leggi della gravitazione universale (UGL) avevano certamente individuato alcuni risultati corretti per quanto concerne i corpi inerti, ma senza porre le necessarie prerogative di metodo  per l’intero  campo d’indagine dello studio che si intendeva portare a compimento, ovvero quello sull’origine  e sulle determinazioni di moto di tutti i corpi. Le UGL  non risultarono poi così cruciali  ai fini di una  rappresentazione unitaria  del fenomeno movimento, aprendo il vero contenzioso filosofico col problema del ‘divenire’.  Di diversa natura si rivelarono invece gli studi sui quanta che posero solide basi per una comprensione, ad ampio spettro, delle modificazioni sistemiche legate ai condizionamenti naturali. Col principio di indeterminazione dell’ elettrone – che valse a Werner Heisenberg il premio Nobel – venne fatto un notevole passo in avanti, sebbene il problema fosse stato preso in considerazione da pittori e musicisti[2]  già molti anni prima dell’onoreficenza riconosciuta al fisico di  Würzburg.       
    Giovanni Papini,  figura di spicco del movimento futurista in Italia, riassume i termini della questione (in polemica coi redattori  della rivista Lacerba), con queste significative parole: “ Una donna, una merda, una patata, sono egualmente capaci di dare un capolavoro pittorico. La pretesa di voler rendere il moto con l’immobilità è simile a quella dei musicisti che vorrebbero rappresentare realisticamente i paesaggi  o le scene di vita con le correnti armoniche dei suoni.” Egli manifestava dunque un netto distacco da quelli che erano gli obiettivi dei creativi, musicisti o pittori che fossero, e allo stesso tempo forniva l’indiscutibile  testimonianza della spiccata sensibilità degli artisti per il problema del moto. Troviamo un’intuizione analoga  anche nei numerosi contributi divulgativi di Werner Heisenberg:

   “I diversi stili dell’arte sono un prodotto arbitrario della mente umana?  domanda retoricamente il fisico. Poi imposta la risposta: Anche qui non dobbiamo essere sviati dalla partizione cartesiana. Lo stile nasce infatti dall’interazione fra noi e il mondo… L’artista tenta con la sua opera di rendere comprensibili codesti aspetti e in questo tentativo è avviato alle forme dello stile nel quale lavora. Perciò i due processi, quello della scienza e quello dell’arte, non sono molto diversi. Sia la scienza che l’arte danno forma nel corso dei secoli ad un linguaggio per mezzo del quale l’uomo può parlare della parti più remote della realtà, e le serie coerenti di concetti, come i diversi stili dell’arte sono le diverse parole o i diversi gruppi di parole di questo linguaggio. ”  Ed ancora: “Uno stile artistico può esser definito anche con regole formali applicate al materiale di quell’arte in particolare. Può essere che codeste regole non siano rappresentate nel senso stretto del termine da una serie di equazioni matematiche, ma i loro elementi fondamentali sono in stretta relazione con gli elementi essenziali della matematica.”

      In questa prospettiva il lavoro degli artisti si propone una prima analisi del problema del ‘divenire’ connesso ai concetti dello spostamento delle particelle atomiche, della mutazione, e della variabilità degli elementi. La corrente impressionista2 a metà Ottocento si rivolgerà ad esempio allo studio dei condizionamenti dei colori, ramo dell’ottica in cui la prospettiva newtoniana palesò difficoltà abissali. La contestazione a tutto campo del paradosso meccanicista prospettato da Newton, sembra quindi voler  esacerbare le incognite derivanti dalle procedure che affrontano la questione del ‘divenire’ secondo parametri omologanti, ovvero secondo una formula semplificativa della realtà costruita sui teoremi dell’induzione matematica, sull’uso dei piani euclidei e della geometrizzazione degli spazi considerati  risolutivi nell’indirizzo standardizzante. In parte questa concezione si è rivelata corretta, ad esempio per quanto concerne gli studi sulla gravitazione, anche se è innegabile che la rivoluzione scientifica innescata dalle scoperte sui quanti ha postulato e messo a nudo il suo esatto margine di manovra e, con esso, tutti i limiti metodologici della rappresentazione classica.  Il principio di ‘indeterminazione’ di cui si è detto, indica infatti che non è possibile definire contemporaneamente la posizione di un elettrone (in termini di coordinate cartesiane) e la sua velocità di spostamento, nel cui calcolo, com’è noto rientra anche la variabile tempo.  La posizione dell’elettrone potrà allora definirsi solo in termini di  ‘probabilità’. MI preme sottolineare il concetto di ‘probabilità’ della definizione tecnica, perché sorprendentemente, diversi secoli prima, esso era stato anticipato dal matematico Blaise Pascal:Per mezzo della Probabilità dovete darvi cura di cercare la Verità.”3    Pascal  non disse, ‘per mezzo della matematica o della geometria’,  discipline che credo conoscesse assai bene, ma  parlò solo di probabilità. Questo fatto induce alla stupore perché – come tutti sanno – Blaise Pascal è considerato , con Monsieur Pierre De Fermat, l’autentico precursore della moderna teoria dei numeri e del calcolo probabilistico di cui si serviranno gli scienziati quantistici per definire formulazioni precise delle loro straordinarie idee. La meccanica quantistica estende l’orizzonte della scienza alla prospettiva,  prima trascurata, dell’analisi del moto entro il contesto dei condizionamenti esterni. Tener conto degli influssi che interagiscono con un corpo significa perciò operare in termini probabilistici e stabilire un criterio relazionale fra gli elementi che la meccanica tradizionale ignorava o non riteneva importante. Diversi impianti analitici sono retti dalla prospettiva causale che teorizza la precisa ripetizione del fenomeno  al ripresentarsi  delle medesime condizioni di partenza. In seguito questo principio  vincolerà  per molto tempo ogni ragionamento alla concezione (superata) della reversibilità temporale.  L’aritmetica e la geometria esatta, appiglio irrinunciabile del cartesianesimo,  ponevano invece il ‘mondo delle relazioni’ in secondo piano rispetto al rigore descrittivo, contribuendo a dilatare le distanze dai problemi connessi all’analisi del movimento.  Il corpo umano insomma, e le traiettorie segnate dai  cicli dell’attività degli esseri viventi (e perfino quelle dei corpi astrali4) appaiono dunque risultante di complessità sistemiche condizionabili e condizionanti. Tuttavia, è nel campo dell’ottica che questa concezione di funzionalità sistemica manifesterà i punti labili dell’ impostazione newtoniana. Già rispetto agli studi sui colori primari Newton, contandone sette ( al posto di tre), era stato tratto in errore. Hermann von Helmholtz5 lo contraddisse, riducendo a tre (rosso,verde e blu) la loro ripartizione preannunciando gli esiti dei successivi studi di fisiologia dell’occhio umano. Per lo studioso Isaac Newton invece  i colori sono lì fuori, nel mondo e negli oggetti e le loro cause fisiche vanno ricercate nella natura della luceDa questo assunto se ne evince quanto egli fosse poco interessato ai rapporti fra le cose e quindi  alla possibilità che i colori potessero addirittura influenzarsi fra loro e variare la percezione visiva. I primi ad accorgersi che le cose non andavano esattamente nella maniera descritta dal fisico inglese furono ovviamente coloro i quali i colori li adoperavano per mestiere e cioè i pittori e, in genere, gli artisti. In un ristretto giro d’anni Jakob LeBlon (1730), Tobias Mayer (1758), Johannes Lambert (1772), Moses Harris (1766), Philip Otto Runge (1810) lavorarono tutti all’analisi ed alla classificazione dei pigmenti colorati. Pensiamo, per fare un esempio, a due orme collocate una sopra l’altra (magari un triangolo e un quadrato) oppure a due quadri disposti uno a fianco dell’altro: le due forme, grosso modo, restano invariate, non è invece infrequente che la percezione di due colori vicini crei delle vere e proprie alterazioni  per esempio, un blu posto accanto a un rosso acceso inclina verso il verde. Il contesto, nel caso dei colori, alcune volte fa la differenza come ben compresero gli impressionisti francesi. Anche in questo caso l’impostazione scientifica meccanicista, e quindi tradizionale, induceva la comunità scientifica a sminuire il significato del criterio relazionale e a promuovere le basi di un paradigma oggettivante del tutto incoerente con i risultati dell’esperienza pittorica.  Il superamento di quello che sembra un paradosso porterà la vivace comunità  degli artisti sul posizioni e ideali che daranno vita alle avanguardie del Novecento e in particolar modo alle concettualizzazioni del cubismo. L’irresistibile impulso dell’arte non è che la rivelazione del fattore compositivo, o se vogliamo, è quello di svelare le leggi destinate a guidare l’emancipazione culturale della società. Questa è la forza che ha polarizzato ed ancora oggi polarizza l’ingegno artistico  verso un’unica meta e un unico risultato espressivo. Si parte dalla premessa che vuole l’intelletto  spontaneamente attratto dalle forme con fisionomia regolare. Questo fatto è ineluttabile e ciascuno di noi potrà trovarne facile conferma  nell’osservazione di  un’opera d’arte classica o rinascimentale. In generale quindi, tutto ciò che richiama i contorni di una figura geometrica regolare  affascina, sia che faccia parte della natura, sia che provenga dall’immaginazione umana. Per questo motivo, nelle diverse epoche, gli artisti hanno usato il triangolo (sovente equilatero) come base della composizione, passando via via a forme geometriche più complesse, col risultato di arricchire il contenuto dell’opera di un nuovo elemento, quello del numero, ossia del suo elemento astratto. Nella ricerca dei rapporti astratti al numero è affidata un funzione di particolare rilievo. Ogni formula matematica tuttavia è fredda e salda come la necessità . Nel movimento cubista, per l’appunto, viene dato rilievo alla necessità di voler esprimere in una formula, che è espressamente matematica, l’elemento compositivo.  Un tale formalismo freddo e geometrico porta però a disintegrare, fino al limite estremo e con perfetta coerenza,  il nesso materiale fra le varie parti di una cosa. In altri termini il cubismo vede nella matematica l’elemento disgregante della relazione  fra i corpi.   La pittura deforme e disarticolata del cubista per antonomasia, Pablo Picasso, sembra allora concepita proprio allo scopo di  rappresentare gli effetti di questa intuizione. Troviamo così  nell’ideale cubista, più  che in altri, il vertice assoluto della critica ai metodi della formalizzazione scientifica classica. Qui il modulo della rappresentazione è il cubo, figura geometrica regolare per eccellenza. Rompere le relazioni fra le parti costituenti di un oggetto o di una persona che si vuol raffigurare, non facilita pertanto la comprensione della relazione essenzialmente dinamica dell’elemento stesso con l’ambiente. Senza un adeguato procedimento d’indagine che tenga in debito conto degli influssi reciproci e dell’interazione fra gli organi e gli elementi costitutivi di un sistema e i condizionamenti di questo con altre strutture,  non si potrà quindi concepire il senso del movimento o  il più profondo significato del divenire.

1 l’espediente della genetica in provetta anticipa i fallimenti del Genome Human Project di Renato Dulbecco e soci, il vero mostro ideologico sfuggito all’ immaginazione dei letterati.

2 Essi sperimentavano direttamente le reazioni fisiche dei colori sulla percezione senza  subire pressioni  dell’accademia scientifica  alla quale invece rivolsero motivate e vivaci contestazioni. La storia,  a quanto pare, diede loro ragione.

3  Pascal – Pensieri.  Titolo originale pensèes. (pag 64) Giunti edit. 2009

4 L’irregolarità dei loro percorsi, o delle  traiettorie quasi-geometriche, è  aggiustata attraverso l’introduzione di coefficienti .

5 Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (Potsdam, 31 agosto 1821 – Berlino- Charlottenburg, 8 settembre 1894) è stato un medico, fisiologo e fisico tedesco.