giovedì 29 giugno 2023

Torno a Settembre.

 No! non è la recensione di un film della Lollobrigida. La nostra rubrica sull'astronomia nella Bibbia tornerà a Settembre, nel senso che riprenderemo dopo l'estate la serie di post focalizzati su quei precisi argomenti.  In cantiere  i seguenti lavori:

Il tesoro offerto per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme

"... E i capi fecero l'offerta di dedicazione all'Altare".  Numeri 7


Interrompiamo per i mesi estivi la serie dei post sul mito e sull'astronomia contenuta nella Bibbia, lasciando il tempo ai lettori di 'digerire' tutto il materiale proposto fino a questo momento.

Ciononostante non andremo in vacanza. Durante le calde giornate di Luglio e Agosto (forse anche Settembre) presenteremo argomenti che hanno a che fare con la letteratura: aforismi, poesie e vari articoli, andando a pescare estratti di opere inedite che non avranno mai occasione di approdare all'attenzione di 'grandi' (le virgolette sono un chiaro giudizio sul loro operato) imprese editoriali, e non per demerito degli autori. Crediamo che il motivo di questo presentimento piuttosto pessimista, dopo aver preso visione dei contenuti pubblicati, sarà facilmente intuibile. Con gli amici che finora ci hanno seguito da vari angoli del globo, in particolare:  americani, francesi, inglesi, tedeschi, numerosissimi da Singapore, meno dal Canada e dalla Russia, mostrando un autentico e apprezzato interesse per i nostri lavori, diamo appuntamento a Settembre (ma non chiedetemi una data esatta) con l'augurio di trascorrere vacanze spensierate, magari viaggiando nel nostro paese. Agli altri, a quelli meno attratti alle questioni astronomiche, che come noi, per l'intera estate saranno costretti alle quotidiane abitudini della vita lavorativa, rivolgo un sincero invito alla lettura. Sul nostro sito troveranno sempre  - h 24 - qualcuno disponibile a discutere argomenti di loro gradimento o, se ne avranno voglia, questioni non necessariamente letterarie riferite ai contributi da noi proposti.

Inauguriamo oggi la prossima infornata  di post, con un'intervista del 6 Aprile scorso, sul fallimento di un progetto editoriale. Il documento è stato scelto non per l'efficacia  del linguaggio adottato dall'editrice, che è quello di una retorica sterile e di morbida critica per l'ambiente che l'ha 'bocciata' senza appello. A noi è sembrata del tutto inadeguata, con quel suo tenersi troppo abbottonata rispetto i mali che affliggono il mondo editoriale e che, in un coro unanime, vengono attribuiti alla scarsa cultura e alla qualità intellettuale del pubblico pagante, in un paese dove - secondo loro - non si è mai 'letto abbastanza'. Capita l'antifona? In pratica la piccola editoria, settore a cui appartiene questa decaduta editrice, vera vittima del sistema famelico della grande editoria, anziché prendersela con i responsabili dello stato dell'arte e della penuria di incassi, sembra  aggrapparsi alle solite , querule scuse. E se è pur vero che nel nostro paese si legge poco,  ciò non deve fornire un pretesto verso le responsabilità oggettive di coloro che dovrebbero, prima di altri, sentirsi addosso il dovere di contribuire all'emancipazione collettiva. Ancora non si è capito che la libertà degli autori non può essere ingabbiata entro vincoli di argomenti e temi imposti da obblighi di agenda, da imbecillaggini come il politicamente corretto, contro questo o quel pregiudizio di moda (come se vi fosse una graduatoria del male).  Il pubblico deve poter scegliere liberamente, mostrare al contempo maturità e volontà di cambiamento. Non si può, perciò da parte di chi detiene il mercato, imporre un binario intellettuale unico, a discapito di un'offerta larga e affrancata da costrizioni di misera ideologia. Il punto è: come qualificare un'opera d'arte? E se non è possibile una graduatoria di merito e di valore oggettivo, come qualificare ciò che opera d'arte non è? Forse partendo da questo punto critico e facendone un esigenza stretta del sistema produttivo della letteratura, si possono gettare le basi per un'inversione di rotta. Ma se si priva il mercato, e quindi gli autori,  della necessaria libertà di espressione attraverso le moderne forme di censura algoritmica ideate per il web, attraverso la costante minaccia di invisibilità mediatica (meccanismo che autoregola e limita la produzione autoriale in un solo senso di marcia),  come si può sperare in una concreta ed efficace svolta?

Dissotterrare l'ascia  e riporre in soffitta il calumet.

     Dove stanno gli editori coraggiosi e pronti a sfidare i padroni degli spazi pubblicitari, dei domini mediatici e delle reti televisive? Qual è la strategia che i piccoli editori, oggi regolarmente fagocitati dai controllori del mercato (peraltro alquanto sofferenti) e dai grandi catalizzatori dell'attenzione pubblica , intendono adottare? Quella dello scontro aperto o del vile accordo di convenienza ( e di sopravvivenza)? Vediamo dunque come ha reagito questa rappresentante  della piccola editoria alle logiche che l'hanno costretta al ritiro. Quel suo 'non capisco' suona infatti come un più esplicito ' 'non sono in grado di oppormi' ,  che è un'altra cosa. 

Intervista a Monica Randi  (Motivi di un fallimento)

La storia dell’editoria italiana è stata attraversata da importanti figure femminili, grandi personalità a dirigere case editrici, altre a capo di fondamentali progetti editoriali, ricordiamo – dimenticando tante altre – Laura Lepetit, Elvira Sellerio, Inge Feltrinelli, Ginevra Bompiani, Roberta Einaudi, Teresa Cremisi, Sylvia Beach. Monica Randi è tutto questo: fondatrice e direttrice di astoria, casa editrice nata nel 2010, dal gennaio 2020 vicedirettrice di Guanda. A fine gennaio, con un messaggio succinto che recita “Lascio, come diceva qualcuno di amato, il lavoro più bello del mondo”, Monica Randi ha salutato amici e collaboratori: perché lascia? E poi: è un addio alla vita editoriale o un arrivederci?

- Chi lo sa. Per il momento non ho progetti, - Risponde l'editrice - devo ancora metabolizzare la decisione presa. Quando fondai astoria, avevo un’idea precisa di cosa pubblicare, di cosa potesse essere interessante per un certo tipo di lettori. Oggi il mercato editoriale è dominato da fenomeni che faccio fatica a capire, il che mi rende difficile comprendere cosa potrebbe essere interessante (e vendibile). È poi vero che la vita, anche lavorativa, è fatta di occasioni, di incontri casuali, quindi chissà…

Nel suo lavoro Monica Randi ha dimostrato un’elegante maestria nel tessere rapporti con gli autori, con i quali nel tempo è nato un rapporto non solo professionale ma anche di amicizia, penso ad esempio a Daniel Pennac e a Jonathan Coe. Ce ne può parlare?

- Il lavoro editoriale è costituito da molti fattori, e quelli che più mi hanno appassionato negli anni sono l’amore per la scoperta di voci nuove e la possibilità di conoscere quelle voci, soprattutto se le si sente consonanti con se stessi. Gli autori sono individui e, come tali, con alcuni ci si trova meglio che con altri. Un fattore credo rilevante è che a me piace molto ascoltare: gli autori sono portatori di storie, quindi è un binomio perfetto. Pennac è un uomo straordinario, generoso di sé e delle proprie riflessioni, non è difficile stabilire un rapporto con lui. Con Jonathan Coe, più chiuso, ci è voluto tempo. Se si è attratti da un libro, si è attratti anche dalla mente di chi lo ha scritto… In anni più recenti, un incontro altrettanto stimolante è stato quello con Amanda Craig, scrittrice inglese capace di coniugare, lei sì con grande maestria, letteratura di denuncia sociale e di intrattenimento; con Marina Morpurgo, che racconta il mondo con la sua ironia; con Domenico Wanderlingh, che venendo da tutt’altro mondo, si appassiona a raccontare storie di morti e assassini; con Giulia Baldelli, che sa dar voce all’amore assoluto. Ne dimentico molti, lo so, e chiedo scusa agli interessati.

Facendo un passo indietro, ci sono stati dei maestri o delle maestre? Come si diventa editrice? Quali i passaggi nel suo caso? Quale è stata la sua storia prima di diventare la fondatrice di astoria?

- Molti maestri, a cominciare da Mario Spagnol, dal quale imparai un metodo; Inge Feltrinelli, dalla quale imparai la serietà di un impegno continuativo e l’importanza delle relazioni; Sandro d’Alessandro, che mi insegnò che per pubblicare un libro, mestiere difficile e dall’esito incerto, devi in primo luogo amarlo moltissimo e crederci. Poi molti altri, soprattutto stranieri, colleghi dai quali ho imparato approcci diversi alla pubblicazione dei libri.                                                                              -  - Come si diventa editrice? Non ho una risposta precisa. Bisogna innanzi tutto avere il gusto della scoperta, la pazienza di cercare e, probabilmente, un certo grado di egocentrismo che ti fa pensare che ciò che tu ritieni interessante, lo possa essere anche per il tuo pubblico. E poi, come sempre, c’è il caso. Prima di fondare astoria, dopo aver lavorato in Longanesi poi in Feltrinelli e infine al Saggiatore, non avevo mai pensato di creare una casa editrice: mi pareva che ce ne fossero già troppe. Ma poi, appunto, il caso… 


Che pubblico di lettori ha avuto astoria?

-  Questa è una domandona! Se noi editori conoscessimo il nostro pubblico, avremmo una vita più facile. Direi che era un pubblico variegato, uomini e donne, cultura alta e bassa, di sicuro – tranne rare eccezioni – non giovanissimi.

Astoria, tassativamente con la a minuscola, perché? E poi da dove nasce questo nome così originale nell’editoria, altrettanto diffuso nel mondo, con hotel, vini, città dell’Oregon che si chiamano Astoria?

- Il tasso di egocentrismo nel mondo editoriale è altissimo: caratterizzare la propria casa editrice con la minuscola era un buon segno. Volevo indicare che per una casa editrice è più importante essere un luogo dove si incontrano autori e libri più che un luogo che da lustro a un editore. L’ispirazione è nata effettivamente da un albergo, modesto, di Francoforte nella cui saletta un gruppo di editrici si è trovato per anni, a fine Fiera, per scambiarsi opinioni sui libri che avevamo visto o che ci erano stati proposti. Era un modo per aiutarsi reciprocamente e, nel giro di poco tempo, il gruppo nato per ragioni professionali, divenne un gruppo di amiche. Quando dovetti dare un nome all’iniziativa che avevo in mente, astoria sembrò il più appropriato.

Astoria nacque per dare voce a scrittori, soprattutto scrittrici che non avevano ancora ricevuto l’attenzione che meritavano. Nel catalogo, grandi scoperte e riscoperte, penso soprattutto a Bernice Rubens, ripescaggi che gridavano vendetta, come quello di Dorothy Parker, e che hanno incontrato il favore del pubblico. Tra tutti quali sono stati le pubblicazioni più soddisfacenti per la casa editrice e quali che sono, se esistono, rimasti incomprese e la cui ricezione l’hanno in qualche modo delusa?

- Le soddisfazioni di un editore sono collegate al numero di copie vendute… In questo senso, Il club del libro e della torta di bucce di patate di Guernsey di Mary Ann Shaffer e Annie Barrows è stato uno dei più soddisfacenti, grazie anche al film che ne hanno tratto. Era un libro che avevo tentato di comprare al Saggiatore, e quando si presentò l’occasione, dieci anni dopo, di ricomprarlo, lo feci con gioia. Dorothy Parker, con la sua ironia tagliente, ha dato soddisfazioni, anche se meno di quanto avrei sperato. Bernice Rubens, che con L’eredità di Jakob Bindel ha a mio parere scritto uno dei migliori romanzi sull’ebraismo, non ha ricevuto il riconoscimento che meritava, così come lo straordinario memoir sulla depressione di Daphne Merkin, A un passo dalla felicità.

Ripensando ai primi titoli pubblicati da astoria e agli ultimi da lei decisi che percorso si delinea?

- Mi sembra di poter dire che ci siano stati due grandi filoni: uno relativo ai legami familiari e uno attento alla figura della donna. Da Un matrimonio inglese di Frances H. Burnett, forse il romanzo più romantico che abbia mai pubblicato, a Breve storia dei trattori in Ucraina di Marina Lewicka, passando per Le sorelle Field di Dorothy Whipple, Le buone maniere di Molly Keane e Le bugie degli adulti di Mary Lawson, per nominarne solo alcuni, si delinea un’attenzione per l’influenza che i legami e le storie familiari hanno sull’individuo. Se penso invece a libri come La governante di Perkins Gilman, L’ostacolo di Rosamund di Margaret Drabble per arrivare a Catherine Cusset con La definizione della felicità, a La fattoria delle Magre Consolazioni di Stella Gibbons, La lepre e la tartaruga di Elizabeth Jenkins, Cluny Brown di Margery Sharp o a Per favore, cercate di capire di May Sarton, sono tutti libri che, con registri diversi – dall’ironia al dramma – hanno delineato i difficili percorsi delle donne verso l’affrancamento dai ruoli tradizionali nei quali le si è volute ingabbiare.

Lasciare una casa editrice nata da una propria idea anche di condivisione del lavoro, del proprio tempo, delle proprie idee che cosa lascia dentro di sé? E cosa resta al mondo del progetto originale?

- Sentimenti diversi. Da un lato la soddisfazione di averci provato, di aver tentato di imporre una lista di qualità in un mercato editoriale sempre più orientato a libri facili con un gruppo di lavoro molto piccolo e molto coeso. Dall’altro, inutile nasconderselo, dell’amarezza e una sensazione di fallimento, perché evidentemente non sono stata in grado di imporlo, quel progetto editoriale. Spero rimanga l’idea che le scrittrici vanno prese molto seriamente, che non devono essere confinate al genere “letteratura per donne” con tutta l’implicita diminutio che questa definizione comporta, e che guardare anche alla produzione del passato può essere fonte di interessanti riscoperte.



*L’intervista a Monica Randi  è stata curata da Cinzia Bigliosi



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