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Post aggiornato il 5 Luglio 2022
La Scienza nel
mito
Ciò che è sempre risultato difficile da comprendere è l’eventualità che certi studi si rapportassero al tempo piuttosto che allo spazio, dimensione quest’ultima che torna di gran lunga più congeniale alla mente dell’uomo moderno. Per secoli infatti, la scienza si è basata sulla concezione geometrica euclidea dello spazio concepito nelle astrazioni logico-matematiche e in un contesto finito di piani cartesiani.
Per il pensiero arcaico, viceversa, il tempo era un mulino che ruotava incessantemente triturando i millenni in granelli infinitesimali. Le misure astronomiche del tempo costituivano quindi la dimensione del cielo in cui si potevano trovare rappresentazioni geometriche insieme a foreste, alberi, sovrani ed eroi coi loro eserciti, archi, frecce oppure navi. Il linguaggio esprimeva, in termini mitici, verità matematiche, mentre la realtà raccontava una scienza perduta in un codice dimenticato del quale si è smarrita la chiave ma che rimane incastonato in frammenti di racconti epici, fiabe popolari, ballate e persino filastrocche. Ogni storia sembra così far parte di una complessa rete di indizi che rimandano a uno schema di fondo. La raffigurazione di un passato mitico nasconde il senso di una metafisica fiabesca dove gli déi azionano mulini in grado di far girare le stelle del firmamento, che ad un certo punto non possono evitare la lenta deformazione delle loro traiettorie, per effetto del moto ciclico della precessione degli equinozi, il quale comincia e finisce in un tempo lungo pressappoco ventiseimila anni solari. Il mito, la fonte impregnata di Sapere scientifico, si serve perciò di immagini rubate alla quotidianità degli uomini e alle loro imprese ed essi, come mitici cacciatori, uccidono animali altrettanto mitici, talvolta draghi, oppure li catturano, governano regni, o risiedono in templi sorretti da colonne e sono in grado di forgiare aratri o mulini che vengono a loro volta abbattuti segnando la fine di un regno/epoca e l’inizio di un altro/a.
Alla luce di questo linguaggio
ecco allora che ci par di comprendere quale sia stato il regno dell’eroe Kay Cosroe dell’iraniano Firdusi, situato fra i pesci e la testa
del toro (la stella Aldebaran è
l’occhio del Toro), o quale sia stato il viaggio del fabbro Ilmarinen che, nel Kelevala finlandese, viene trasportato ‘sopra la luna e sotto il
sole’ sulle spalle di un’orsa (Orsa Maggiore).
Eppure, questo patrimonio incredibile di racconti e la loro interpretazione, è fondato su ipotesi filologiche superate o traduzioni forzate, ipotesi affascinanti quanto si vuole ma completamente sprovviste di prove, dacché non pare che qualcuno abbia mai dimostrato che - ad esempio - la precessione degli equinozi sia stata scoperta prima del 127 a.C. (Ipparco da Nicea), o che la scomposizione dello Zodiaco fosse una conoscenza appartenuta all’umanità in tempi precedenti all’impero babilonese, cioè oltre duemilacinquecento anni fa. Per questa ragione ho creduto che sarebbe bastato individuare la misura esatta della durata del ciclo precessionale in un qualsiasi brano del Pentateuco, per spostare di alcuni secoli la data della scoperta del suddetto fenomeno, sempre che i libri del Pentateuco fossero stati davvero scritti una dozzina di secoli prima della nascita di Cristo. L’individuazione di queste cifre nel corpo dei cinque libri del Pentateuco potrebbe confermare le ipotesi di Giorgio de Santillana e riconoscere una qualche attinenza scientifica rispetto quel linguaggio da lui definito ‘arcaico’; ma su queste correlazioni, la teologia moderna sembra proprio aver emesso giudizi definitivi.
Nei successivi passi di
questo capitolo ci siamo presi la briga di trascrivere il parere del Cardinale
Gianfranco Ravasi (Direttore del Pontificio Istituto della Cultura), che poi, è
esattamente lo stesso della teologia ufficiale. La sua posizione - sia ben
inteso - è emblematica di un indirizzo di pensiero diffuso anche in ambito
scientifico, nel senso che anche e soprattutto fra gli uomini di 'scienza' esiste un pregiudizio di fondo rispetto all'attendibilità dei testi sacri. In riferimento a un suo articolo pubblicato sul quotidiano
cattolico Avvenire il 23 luglio del 2012 (Cardinale Gianfranco Ravasi, La Bibbia e la scienza dei Numeri.),
abbiamo cercato di fornire e descrivere un approccio
differente agli scritti sacri, specie quelli biblici. Dal lontano luglio 2012
tuttavia, il suo orientamento critico non sembra essere minimamente cambiato,
come egli stesso conferma in una e-mail lapidaria in cui (ci) ammonisce
severamente dal seguire posizioni che, a suo dire, sarebbero indimostrabili. Mi domando quale significato attribuisca al termine 'dimostrabile', perché se vi è una dimostrazione che in questo saggio non abbiamo trascurato è quella che certifica la presenza di determinate cifre nel corpo scritto dei testi biblici giunti fino a noi. A rinforzo di questa verifica abbiamo portato la precisa prova che il contenuto cifrato della Bibbia, a differenza della parte alfabetica, non sia mai cambiato nel tempo, da quando è stato redatto ai nostri giorni. Ed è un tempo abbastanza lungo, a ben vedere. Abbiamo preferito rispondere in questa sede poiché, ufficialmente, il cardinale non è
parso disponibile a rivedere le sue ‘certezze’. L’articolo di cui
detto sopra, è facilmente reperibile in rete, mentre le nostre chiose le riportiamo qui appresso.
Il
Cardinale Gianfranco Ravasi sostiene che, chi ha una grande assuefazione
coi testi sacri sa che essi sono costellati di numeri i quali, spesso, non
devono esser compresi in senso quantitativo, ma in senso qualitativo, cioè come
simboli. Così che la creazione dell’universo sia stata, dalla Genesi,
distribuita nei sette giorni della settimana e destinata ad avere il suo apice
nel sabato liturgico. Ciò è dovuto al fatto - spiega Ravasi - che il ‘sette’ è
un segno di pienezza e perfezione, naturalmente con tutti i
suoi multipli. In questa luce - prosegue Ravasi - si comprende perché si
scelgano nell’Apocalisse sette chiese o perché Gesù ci suggerisca dal
perdonare, non solo sette volte ma ‘settanta volte sette’ (Matteo 18, 22),
perché gli anziani del senato costituito da Mosè siano settanta, proprio
come i discepoli inviati in missione da Gesù, settanta
siano gli anni dell’esilio babilonese e via dicendo.
Non sentiamo di negare nessuno
dei significati menzionati dal Cardinale Gianfranco Ravasi, tuttavia
preferiamo considerare anche elementi di carattere aritmetico (sviluppati in
questo saggio), secondo i quali il numero sette sarebbe da intendersi come
sottomultiplo del numero settanta e dei multipli frequentemente
riportati nei passi biblici: 144, 288 e soprattutto 25725 o 25920. Che queste
siano cifre citate in modo evidente o nascosto, non è un’opinione, come pretenderebbe
il sommo cardinale, ma un fatto! Ed è un fatto, non meno importante, che tali
numeri riguardino più specificatamente tempi e durata di cicli planetari che la
storia e i reperti ci hanno insegnato essere stati di estrema importanza per le
passate civiltà, da quella egizia a quella babilonese, nelle cui
culture è fiorita e si è intrecciata la storia del popolo ebraico.
Non ci soffermeremo a disquisire sul significato astronomico del numero settantadue, o del
sette, ma ci limiteremo solamente a chiarire che queste cifre sono oggi ben
note ai moderni studiosi del cielo, ovvero gli astronomi. Non ci riferiamo a
cifre approssimate, ma a precise quantificazioni numeriche che riguardano
principalmente il ciclo della precessione degli equinozi. Non può infatti
essere un caso che sia stata individuata la misura esatta del grado relativo
all’anno platonico, nella stessa identica cifra corrispondente fino all’ultimo
decimale, sia nel libro della Genesi che in quello dei Numeri (Censimenti), o
nel Salmo 89-90 (NT) ed addirittura, in una quantità quasi sovrapponibile, nel
libri di Esdra e Neemia.
Il Cardinale Gianfranco Ravasi sbaglia allora quando sostiene che le cifre inserite nella Bibbia non devono essere intese in senso quantitativo; ma non sbaglia quando definisce il sette e i suoi multipli simbolo di perfezione, poiché l’anno platonico, in passato, era meglio conosciuto come l’ ‘anno perfetto’. Peccato che egli non voglia accettare, o perfino solo prender atto, di spiegazioni sul piano logico-matematico, ben più solide della sua. Ciò per dire quanto, a volte, certe prese di posizione cozzino contro contenuti che in fin dei conti fungerebbero da conferma rispetto le proprie, altrimenti sindacabili, come lo sono tutte le contraddizioni dell’esegesi teologica. Nell’articolo sopraccitato notiamo che viene riportato anche il significato del numero tre: la ‘pienezza’. Questo richiamo simbolico ci ha incuriosito, perché il numero tre, nelle nostre ricerche è stato associato alla gravidanza e al suo simbolo astrale: la luna. Se poi volessimo considerare i tre giorni della Resurrezione di Cristo, dovremmo aggiungere che mai questa rappresentazione ci è sembrata tanto vicina alle nostre conclusioni, dacché l’esperienza di morte e rinascita del Gesù di Nazareth poteva e può essere tranquillamente correlata alla gravidanza della nuova umanità liberata dal giogo del peccato. Sul piano astronomico aggiungerei anche il fatto spesso trascurato, che riguarda la stasi del sole ai solstizi, quando cioè al termine del suo cammino pare fermarsi tre giorni per poi invertire il senso di marcia. E poi c’è il quattro, la totalità e, con pari significato, il suo multiplo quaranta: quaranta sono i giorni e le notti del Diluvio Universale, quaranta gli anni di permanenza del popolo ebraico nel deserto. Le nostre indagini ci hanno portato, sebbene con minor certezza, a ritrovare queste due importanti cifre nel celebre numero ghematrico dell’Adam, il quarantacinque (1+ 4+ 40), che ancora una volta abbiamo potuto affiancare al significato di totalità, dacché Adamo poteva esser considerato l’antesignano o il ‘contenitore’ della specie che da lui ha avuto origine. Egli infatti (secondo alcune interpretazioni) aveva in sé la totalità del patrimonio genetico da cui sono scaturite tutte le varianti del genere umano o, se vogliamo, tutti i caratteri potenziali da trasferire alla discendenza. Secondo lo stesso ragionamento i dodici apostoli trovano precisa corrispondenza nelle dodici porzioni zodiacali che formano l’anno platonico ed hanno una durata di 2143 anni, o 2160 anni a seconda che si intenda considerare il ciclo precessionale lungo 25725 anni o 25920 anni.
Tutti gli autori che si sono occupati di esegesi biblica hanno fatto convergere le loro convinzioni entro un preciso ordine di valori e significati rispetto l’uso dei numeri fatto dai redattori biblici. Nessuno pone riserve sul significato simbolico delle cifre che, come visto, sono riportate in gran quantità entro il vasto corpo di reperti a nostra disposizione. Gli esempi da citare sono numerosi: quando si dice che ‘Elia predisse una siccità di tre anni’ si esprime un significato effettivamente simile a quello reale, nel senso che i periodi di siccità e conseguenti carestie possono durare uno o più anni; o quando si dice che Betania fosse lontano quindici stadi da Gerusalemme, distanza, quella di tre chilometri, corrispondente a tutti gli effetti. I casi da enumerare sarebbero davvero tanti e tutti sembrano suggeriscono agli studiosi che, in alcuni casi la Bibbia abbia indicato informazioni e dati storicamente attendibili, in altri , elementi simbolici o rappresentativi di misure astronomiche. Nessuno tuttavia, pare abbia mai ipotizzato che i numeri fossero stati usati unendo congiuntamente il senso simbolico e il senso quantitativo, con riferimento a misure e quantità cosmiche, dacché teologi e accademici concordano nel ritenere le popolazioni di quel periodo, sostanzialmente incapaci di procurarsi validi strumenti di rilevazione. Senza accorgersene essi conferiscono alla storia e alle culture una direzione cronologica lineare tendente alla crescita, seguono insomma un modello oggi non più valido, specie dopo la scoperta di elementi non-confutabili, all’interno di testi indubitabilmente antichi, quando non antichissimi.
Il
meccanismo anarchico delle stelle
Gli antichi greci
chiamavano il cielo cosmos (ordine) sebbene sapessero non
fosse esattamente così ed anche agli occhi di popolazioni vissute
migliaia d’anni prima, doveva esser ovvio che quest’ordine celeste, alla lunga,
non lo si potesse imbrigliare entro ferree leggi di calcolo. Le
tradizioni arcaiche contemplavano un’armonia dell’universo transitoria, che
doveva ad un certo punto finire per lasciar posto ad un ordine interamente
riformato. Il vecchio sistema, non più leggibile come cosmo,
crollava e con esso cedeva il perno logoro di una macina di
pietra millenaria che, senza una degna successione avrebbe
consegnato il mondo nelle mani dell’anarchia (imprevedibilità) più
assoluta. L’accuratezza delle previsioni umane dipendeva infatti dai cicli
regolari degli astri e tutto ciò che non si conformava a questa necessario
principio d’ordine era ritenuto figlio del caos, eppure non meno
divino.
Se prendessimo insomma come riferimento la data dell’equinozio primaverile, per un tempo lungo un buon paio di decine di migliaia di anni (in realtà quasi 26.000) vedremmo alternarsi in quel punto del cielo, a quella stessa ora (cioè poco prima dell’alba, ma seguendo il senso inverso a quello annuale) tutte e dodici le case zodiacali a cominciare da quella attuale che cade sotto i segno dei Pesci. Intorno al venti Giugno, al posto dei pesci – sempre prima dell’alba – sarà visibile la costellazione dei Gemelli. Fra mille anni i Pesci lasceranno il posto all’Acquario, fra tremila anni al Capricorno, mentre tremila anni fa , lo stesso punto del cielo oggi occupato dai Pesci, all’equinozio di primavera ospitava gli astri del segno dell'Ariete . Nella notte dei tempi, quando i nostri progenitori si dedicavano all’osservazione del cielo notturno, forse qualcuno si rese conto che il sole non sorgeva e non tramontava sempre nello stesso luogo, o dietro la stessa montagna. Andava e tornava, oscillando lentamente fra due punti estremi. Dopo un anno sembrava riportarsi al punto di partenza, ma non era propriamente così. Infatti, se un uomo avesse rilevato a terra un punto esatto nel quale ogni anno avrebbe potuto veder sorgere il sole, alla fine della propria vita si sarebbe accorto che neppure quel piccolo punto all’orizzonte si manteneva fermo, nel senso cioè che anno dopo anno il sole tendeva a spostarsi di lato. Per fissare lo spostamento del sole sull'orizzonte si passò , probabilmente, dai rilievi naturali a dei sistemi artificiali: dapprima a pali di legno e in seguito in pietra, come fu fatto a Stonehenge. Se perciò quell’uomo curioso avesse vissuto settanta anni, avrebbe potuto apprezzare uno scarto netto (fra il punto che aveva segnato a terra all’inizio della rilevazione e quello stimato), di circa un grado angolare. Forse da allora, i nostri antenati cominciarono a capire che il cielo in definitiva non ruotava in maniera regolare, ma era come la macina di un grande mulino che ‘perdeva colpi’ al punto da sfasare il corso del tempo, non consentire cioè agli osservatori di valutare una traiettoria netta dei millenari percorsi astrali. Da quella consapevolezza cominciarono forse a comprendere che il cielo è ordine sì (cosmos), ma… fino a un certo punto; oltrepassato il quale, sarebbe stato necessario ri-calibrare l'intero meccanismo celeste.
Il tempo è la dimensione del cielo
Quella
che ai giorni nostri viene sistematicamente ignorata è la volontà degli antichi
di utilizzare una sorta di linguaggio 'specialistico' per far sì che un racconto in forma poemica potesse celare dati
riconducibili a elementi scientifici, affinché le generazioni future, in
seguito a una corretta decodifica, avessero accesso al sapere e alla conoscenza
di coloro che li avevano preceduti.
Per
giungere a questo scopo si dovettero utilizzare sistemi per il calcolo del movimento degli astri, in particolare del
sole e della luna. Il tempo è stato visto quindi come la dimensione del cielo
stesso e le precise misure dei suoi movimenti come chiave di lettura dei millenari
cicli astrali. Non è sbagliato allora ritenere le caste sacerdotali depositarie
di un linguaggio mitico che permetteva di ‘comunicare’ e, in qualche modo,
comprendere il complesso mondo degli dèi, gli unici abitanti del cielo. Tutto principia in epoche nelle quali
non esistevano rappresentazioni della natura come le intendiamo noi e in cui i popoli affidavano le loro idee e le
loro scoperte alla memoria non scritta.
Il
pensiero arcaico, insomma, è cosmologico: esso affronta l’analisi del cielo in
vari modi i cui echi si ravvisano fin dalla tarda filosofia classica. In
definitiva la realtà fisica non poteva essere ridotta a concretezza perché si
partiva dal concetto che l’essere fosse soprattutto mutamento e variazione,
movimento e ritmo e che fosse
rappresentato dal moto circolare del tempo, così come lo determinano i
cieli. Il moderno analista tuttavia, non
si aspetta una favola o un racconto di fantasia da un testo di meccanica
celeste, ma pretende uno studio immediatamente comprensibile; non si aspetta
referti scientifici dalle immagini mitiche perché è abituato ai modelli
attuali, in cui formule e computi prendono la scena senza tanti preamboli. A
noi, uomini del terzo millennio non viene facile pensare che una conoscenza tanto importante
potesse essere espressa nella lingua di tutti i giorni, allo stesso tempo viene
difficile ignorare l’entroterra di competenze tecniche celate nelle grandi
opere del passato.
Il linguaggio degli antichi è quindi verbale e sostituisce i termini e i concetti del linguaggio scientifico moderno; ciò dovrebbe spiegare come da esso sia lontana l’idea di una rappresentazione letterale (Così come sostengono Mauro Biglino, Zecharia Sitchin et al.). La terminologia del mito racchiude allora regole e analisi fenomeniche, cifre quantitative e dati per lo più aritmetici, benché la sua modalità espressiva diventi oscura, non meno di oscura e indecifrabile di come lo siano, per noi, i linguaggi specialistici. Se pensiamo alla posizione del sole fra le costellazioni dell’ equinozio primaverile possiamo immaginarlo come la lancetta che segnava le ‘ore’ del ciclo precessionale. La costellazione che sorgeva a oriente appena prima dell’alba segnava il punto dove il sole sostava e veniva chiamata ‘portatrice’, o ‘pilastro’ del cielo, dacché l’equinozio di primavera veniva riconosciuto come linea che determinava il primo grado del percorso del sole durante l’anno. Di fronte a questi elementi dobbiamo pertanto riconoscere che la terminologia adottata dagli antichi osservatori del cielo trattasse argomenti molto seri e non rozze credenze primitive. Il divario fra i due linguaggi, arcaico e moderno, si è fatto oggigiorno incolmabile e l’astronomia si è ridotta, fuori da questi schemi poetici, a oggetto della balistica, disciplina utile solo ai temerari avventurieri degli shuttle e prima ancora dei soyuz. Non è che l’uomo comune abbia perso l’attrazione per queste cose, in realtà ne è stato escluso dalla specializzazione tecnologica.
Il
concetto di ‘terra piatta’, altro caso emblematico caro agli antichi, è
distante dalla raffigurazione letterale
che ne è stata data nell’ era
post-copernicana, esso veniva usato per indicare più propriamente la fascia
delle costellazioni zodiacali dominata da quattro nodi essenziali (tutti sullo
stesso piano, per l’appunto) che dominano le quattro stagioni dell’anno: i due
solstizi e i due equinozi. Questi
quattro punti costituivano i quattro pilastri su cui si reggeva quella conosciuta
come la terra quadrangolare, ma nient’affatto creduta, come pianeta, davvero
quadrangolare. Erano semmai le quattro costellazioni in cui
sorgeva il sole
in questi quattro momenti dell’anno, ed era lo spazio
piatto (su un piano) a definire i confini di questo superficie, ossia di
questa ‘terra’. Con la
raffigurazione di una terra, cioè di una porzione di spazio che sorge dal
mare, si soleva indicare la costellazione che all’equinozio di primavera saliva
dalle acque/mare fin sopra l’equatore, mentre sul versante opposto vi era
una costellazione che all’ equinozio
autunnale scendeva sotto l’equatore, quindi veniva ‘sommersa dalle acque’ .
Il linguaggio adottato dagli eruditi che ci hanno preceduto era insomma assai diverso dal nostro, le loro priorità scientifiche riguardavano moti stellari, spazi cosmici in cui i pianeti e le stelle si muovevano come persone ed ecco perché alcuni fenomeni per noi irrilevanti, come il ciclo della precessione degli equinozi, diventava uno schema fondamentale di riferimento, la cui conoscenza aveva il pregio di far prevedere le imperscrutabili traiettorie dei corpi celesti, idealizzati come entità viventi ossia, come dèi. Da ciò possiamo tranquillamente supporre che, forse, quelle popolazioni tribali, tutt’ altro che rozze e arretrate, disponessero altresì di nozioni fisico-astronomiche piuttosto avanzate. Furono successivamente i principi evoluzionistici a sotterrare quanto di scientifico queste antiche civiltà avessero riposto nel linguaggio dei loro miti e fu l’antropologia moderna a fagocitare definitivamente l’idea che dieci o quindicimila anni fa potessero esistere pensatori dell’ordine di un Keplero o di un Einstein, benché provvisti di mezzi sommari non paragonabili a quelli moderni. Dovrebbe così esser abbastanza chiaro che per gli antichi il mito avesse rappresentato la dimensione del tempo, ovvero degli intervalli temporali espressi in termini di misure angolari e non di spazio (distanze, superfici, volumi etc.). Per Newton l’universo era formato da un tempo e da uno spazio assoluti. Questa modalità di pensiero è stata oggi completamente assunta come indirizzo guida, ma nelle modalità concettuali del mondo antico, il tempo rappresentava l’unica struttura dalla quale l’illimitato (lo spazio) era escluso. Le indagini pertanto non potevano esimersi dal considerare i rapporti fra le cose, fra i corpi cosmici e i loro movimenti. Nell’universo arcaico tutte le cose erano punti di riferimento e segni congegnati l’uno nell’altro che si influenzavano a vicenda. Il linguaggio classico è fondamentalmente relazionale, le parole cioè vi sono astratte il più possibile a favore dei rapporti, dove il segno è lo strumento di un legame. L’adozione del nuovo linguaggio comporta invece l’esistenza di una natura frammentaria che si indaga per compartimenti stagni. La Natura diviene allora un insieme discontinuo di oggetti solitari poiché i loro nessi sono virtuali. ‘di più, sono arbitrari’ (Barthes, Il grado zero della scrittura). L’unico significato che se ne può trarre è che sono congeniali alla mente di chi li ha creati. In campo artistico si parla di disintegrazione della forma, di ‘amorfismo’, di trionfo dell’ incoerenza. Se pensiamo ai grandi interpreti del cubismo, alle loro opere più significative non possiamo fraintenderne il messaggio: la realtà misurata e confrontata in termini di volume, di cui il cubo è il simbolo più immediato, perde di coerenza, smarrisce la sua interezza e completezza. Cosa rimane di un albero una volta che lo si sottopone a misurazione? I cubisti sono stati eccezionalmente espliciti nel rimarcare artisticamente questo paradosso della cultura moderna scientista e meccanicista.
Tornando
ai motivi favolistici dall’ apparenza innocente, potremmo a questo punto
verificare come essi, alla luce di una comparazione relazionale, possano essere
considerati validi elementi lessicali di uno specifico linguaggio tecnico. Il
mito non fa che render conto di una fenomenologia globale e delle relazioni che
in essa intercorrono, partendo da una fase iniziale. Il mito quindi, volendo
cogliere i principi del funzionamento sostituisce gli oggetti e gli elementi
con le persone e procede all’umanizzazione di determinate astrazioni. Esso ci
pone di fronte a una terminologia specifica che avremmo potuto cogliere anche
noi se non avessimo confuso il senso fra ‘primitivo’ ed arretrato e se gli
specialisti dello spirito si fossero resi conto che i fenomeni delle scienze
naturali sono comunicabili solo attraverso un gergo appropriato. E’ stato Isaac
Newton a fare il tentativo (fallito) di decifrare la lingua dei profeti. Egli
era convinto che quella lingua avesse un significato certo almeno quanto
le lingue volgari delle
nazioni, un linguaggio che perciò si doveva solo imparare invece che
fare come i traduttori (gli specialisti
dello spirito di cui si diceva poc’anzi) capaci di piegare i moduli e le frasi
profetiche ai significati dettati dalla loro immaginazione o dalle loro ipotesi
(Giorgio de Santillana).
Del
resto, così avevano insegnato i Greci che cercavano di adattare le orbite o le
traiettorie dei pianeti a moduli geometrici precostituiti. Essi volevano
dimostrare, a tutti i costi e contro l’evidenza, che le orbite di pianeti
fossero circolari, perché si domandavano quali moti uniformi bisognava
ipotizzare per dare ragione/spiegazione ai fenomeni. Gli astronomi greci
rifiutarono perciò di credere ai sensi
(fallibili) e si misero alla ricerca di modelli geometrici coerenti per
giungere alla conclusione che i loro modelli non motivavano ciò che gli occhi
vedevano e che in virtù di essi non si potesse alla fine ricostruire e
dimostrare l’apparenza sensibile, operazione
perfettamente riuscita, peraltro, a Tolomeo. La questione posta invece
secoli prima dai Babilonesi era invece la seguente: come si possono calcolare/prevedere i fenomeni celesti? Perché mai essi
non si torturarono con costruzioni geometriche ausiliarie? La soluzione va
ricercata nel fatto che, prima di loro l’unica preoccupazione degli eruditi
astronomi era il tempo. Essi si chiedevano semmai: quanto tempo occorre a un
pianeta per completare la propria orbita?
La forma di questa traiettoria era problema di minor importanza,
dunque. In epoche più recenti si è forse giunti a porre in dubbio
l’arretratezza primitiva di certe popolazioni e si è cominciato a prendere in
seria analisi la precisione di molte loro conoscenze astronomiche. Ma a questo
punto sono sorti nuovi interrogativi rispetto il veicolo che possa aver
trasportato nei millenni questo incredibile bagaglio di conoscenze. Negli
ultimi decenni del secolo scorso, in virtù di un metodo di traduzione
strettamente letterale, pur di non riconoscere le modalità logiche e
l’erudizione di determinate culture, si è preferito credere alla possibilità
che esse avessero attinto pedissequamente il loro sapere dalla tecnologia
ultra-avanzata (per il periodo storico) di civiltà aliene.
Parallelamente, fra gli eredi (e mistificatori) dell’antica
terminologia vi sono oggi studiosi che avallano l’indirizzo spiritualista, sedicenti esperti aggrappati
all’idea che le antiche formule cosmologiche fossero riferite unicamente ad
azioni e ritualità religiose. La vecchia speculazione antropologica
dell’uccisione del re, proviene con molta probabilità dall’associazione del
ruolo ‘guida’ del sovrano con quello cosmico della stella polare, l’unico
elemento del cielo che appare immobile mentre tutto gli ruota intorno. Va da sé
che, proprio come la stella polare, anche il re fosse destinato a ‘morire’ e a
perdere il significato di riferimento primario, e quindi che anch’egli dovesse
essere ucciso alla fine del suo mandato di ‘guida’ (vedere in questo saggio, il paragrafo 'Le stelle polari nell’antichità'.
La
stella polare dunque, dopo poche migliaia di anni, va fuori posto, alla scadenza di questo periodo, allora, essa
non poteva più svolgere il ruolo guida
che le era stato conferito dai solerti osservatori del cielo. Per orientarsi
rispetto ai moti stellari occorreva dunque scegliere una nuova polare, un
riferimento che si prestasse il più possibile a fungere da nuovo fulcro di
rotazione dell’ asse terreste. Nel mito, questa mutazione veniva spesso
immaginata e raffigurata come la rottura dell’asse che sosteneva la grande
macina del tempo. Esiste una vasta raccolta di studi sui miti che narrano di
questo particolare fenomeno, ma la maggior parte di essi generalmente vengono
trattati come una sorta di profezia sulla fine del mondo, il ‘Crepuscolo degli
dèi’.
La
catastrofe, insomma, spazza via in un sol colpo il passato ma subito ecco che
‘rinasce’ una nuova età, un nuovo cielo e una nuova terra con la sua ‘nuova’
stella polare. Tutti questi fenomeni si svolgono però in lassi di tempo
estremamente lunghi, tanto lunghi da aver fomentato molti scetticismi sulla
possibilità che siano stati semplici uomini ad analizzarne e concepirne le
dinamiche. La durata di una vita umana infatti, specie se intesa come
breve, e nemmeno più vite, una
dietro l’ altra, non parrebbero infatti sufficienti a monitorare
correttamente la durata di un solo anno precessionale. Forse per questo si è
dato troppo spesso per scontato che certe informazioni il genere umano le
avesse trovate belle pronte
da qualche parte o, più compiutamente, che qualcuno
gliele avesse messe a disposizione. Più ostico è di sicuro sostenere l’idea che la
scoperta e il calcolo di simili cicli temporali si siano potuti realizzare
grazie alla perseveranza di solerti osservatori che si sono anzitutto
preoccupati di tenere una documentazione e poi si sono ingegnati per
tramandarla alle generazioni future. Eppure, a voler lavorare di logica, la
tecnica di osservazione e trascrizione sarebbe potuta essere piuttosto semplice
da realizzare. Sarebbe bastato accorgersi, tramite opportuni riferimenti a
terra, che una stella che sorgeva nel punto equinoziale e dopo un certo tempo
si spostasse, mutasse cioè la sua relazione spaziale col sistema terra. Per gli
antichi significava che gli ingranaggi del cielo si fossero in qualche modo
spostati, perciò che non funzionassero meccanicamente come si
presumeva. Ai loro occhi si presentavano moti e rivoluzioni che non erano in
grado di spiegare ma solo di descrivere e questi scrupolosi monitoraggi del
cielo rivelavano che per ottenere uno spostamento equinoziale di un astro di soli 10 gradi di ampiezza bisognava
attendere ben settecentoventi anni;
nella loro mente il cielo ruotava come una grande macchina del tempo, come ‘un’immagine mobile dell’eternità’
(Platone).
In tempi
remoti si credeva che solo gli déi potessero far funzionare o distruggere
l’universo, ma la grande macchina celeste, in quanto generata dagli dèi stessi
doveva essere perfetta, avrebbe dovuto produrre solo armonia e così fu in un
tempo ricordato come l’Età dell’Oro. Quel tempo tuttavia non durò. Per comprendere a fondo questi sbalzi si
dovette dare un nome alle stelle e alla costellazioni, si dovette imparare a misurarne i
lentissimi movimenti ma lo si fece
attraverso un linguaggio specifico, il
linguaggio del mito
in cui si
descrivevano lotte, guerre,
mostri e titani. Gli antichi pensatori individuarono così il tempo del Grande
Anno in quel ciclo perfetto nel quale i pianeti e le stelle dopo ogni
rivoluzione tornavano al loro posto. L’osservazione , più meticolosa di quanto
siamo oggi disposti a credere, portò in seguito a dubbi, poiché le cose e gli
astri sembravano via via mutare gradualmente il punto del ritorno. Così
parla Osiride nel Libro
dei morti :
“ Salve, o Thot! Coosa è mai accaduto ai
figli di Nut? Hanno combattuto, hanno sostenuto
la contesa, hanno fatto
strage e hanno
provocato guai: in realtà, in
tutto il loro operato i potenti hanno
agito contro i deboli. O potenza di
Thot, concedi ciò
che Atum
ha decretato! E tu non vedi il male né ti lasci provocare dall’ira quando essi
portano alla confusione i loro anni , si accalcano e spingono per disturbare i
loro mesi; perché in tutto ciò che ti hanno fatto essi hanno operato iniquità
in segreto.”
Anche nell’ Enuma Elis, il poema della creazione babilonese, i portatori di iniquità, le forze che disturbano il placido ordine di Tiamat e di Apsu, sono i loro stessi figli, che “ agitandosi in lungo e in largo turbarono l’umore di Tiamat…I loro modi erano sgradevoli ed essi erano prepotenti.” Questo gran baccano estromise il sole equinoziale dal segno (zodiacale) occupato nella precedente Età dell’Oro, il tempo dell’ordine e dell’armonia, e lo indirizzò verso nuove configurazioni astrali. Il tempo cominciò a ‘guastarsi’ e nulla sarebbe in seguito tornato al proprio posto. I Figli del Cielo avevano separato i loro genitori portando e generando un nuovo cielo, una nuova terra e una nuova età. Quando perciò nei racconti giunti a noi dalle antiche civiltà si parla di battaglie, peregrinazioni, o smembramenti non bisogna credere che simili fatti siano realmente accaduti.
Giocare con le parole e ragionare coi numeri
Il
problema dell‘interpretazione dei testi biblici ha coinvolto nel tempo
competenze diverse che spaziano dalla teologia alla scienza. Se da un lato i
teologi hanno individuato svariati approcci orientati a fornire significati per
lo più spirituali ed etici, dall’altro, in chiave non scientifica ma
grossolanamente scientista, in tempi recenti si è proposta con maggior
insistenza la necessità di affrontare il senso e il contenuto delle Scritture
Sacre in misura strettamente letterale.
Tuttavia,
anziché assonanze, le due diverse modalità di analisi, hanno palesato
fortissime inconciliabilità; ciò è avvenuto quando le due fazioni di studiosi
si sono confrontate, e spesso affrontate, sul corpo scritto di matrice
alfabetica. In questi differenti indirizzi di metodo è stata, a nostro avviso, trascurata la porzione strettamente connessa al contenuto
numerico dei testi, poiché forse è stato minimizzato il valore cifrato riposto
nei codici.
Non ci si
è mai soffermati insomma, sul problema di fondo, ovvero, se i numeri
rappresentassero precisi riferimenti a contesti quantitativi, piuttosto che
ideali o, addirittura, storici. I numeri sono stati semplicemente ignorati!
L’eventualità che i Testi Sacri possano essere stati altresì, redatti in chiave
criptica è stata presa in considerazione solo di recente ed è, a nostro modesto
parere, a differenza degli altri due indirizzi di pensiero, una modalità che
può dar adito a risposte decisive.
Ho
voluto così rimarcare il fatto che, l‘esposizione scritta in assenza di numeri,
a prescindere dal metodo adottato, o dal valore conferito ai significati
(letterale o simbolico), si presta sempre e per definizione, ad interpretazione
arbitraria. Sotto il profilo allegorico, viceversa, il raffronto delle cifre
con la misura di eventi astronomici, può fornire caratteri e qualità
probatorie.
In una delle traduzioni più diffuse del libro di
Ezechiele, per esempio, in cui si parla del suo famoso sogno, finché ci si
attiene al testo letterale, la descrizione delle ruote del carro potrebbe
richiamare alla mente la raffigurazione di grandi ‘corpi volventi‘, meglio noti
come cuscinetti a sfera (fra l‘altro i medesimi artifizi vengono oggi usati
proprio nella fabbricazione delle ruote). La definizione dei testi sembra
tratta proprio dalla visione di simili elementi metallici, ma
quest’associazione intuitiva non deve
trarre in inganno non fornisce una prova !
“Le ruote avevano l’aspetto e la
struttura come del topazio e tutt’e
quattro la medesima forma, il
loro aspetto e la
loro struttura era come
di una ruota in mezzo all’ altra ruota ( le ruote parevano congegnate l’ una dentro
l’altra)...“
Ezechiele 1: 17
“ …potevano girare in quattro direzioni senza aver bisogno
di
voltarsi per muoversi. La loro circonferenza
era assai grande e i cerchi, di
tutt’e quattro, erano pieni di occhi tutt’intorno.“
Ezechiele 1: 18
___________________________
Ciò per ribadire che le ipotesi qui proposte, proprio perché di ipotesi
si tratta, non pretendono di riscuotere maggior credibilità di altre; finché ci
si attiene, infatti, al significato letterale, tutte le opinioni godono di pari
fiducia, il che vorrebbe dire che le precedenti descrizioni tratte dal Libro di
Ezechiele, potrebbero benissimo rappresentare - per quanto inverosimile - dei
cuscinetti a sfera, ma non è affatto detto che l’autore volesse davvero
descrivere tali dispositivi, nulla dice
infatti che al tempo se ne avesse conoscenza. Quando si elaborano
contenuti cifrati la cosa invece cambia: il significato matematico e dunque la
quantità menzionata, laddove si concilia con dati precisi, e va a sovrapporsi a
misurazioni rilevate con strumenti moderni, detta le gerarchie di
attendibilità. Se il testo contiene - per fare un altro esempio - il numero
25725 e, a quanto pare, ciò combacia esattamente con la durata, in anni solari,
del ciclo della precessione degli equinozi (Rilevata attualmente. Vedere a tal
proposito il paragrafo successivo, Alcune informazioni per schiarirci le idee,
tratto dal sito internet dell’astronomo Adriano Gaspani), non si può negare che
sia proprio questo il significato conferito alla cifra dagli stessi autori, e
poco importa se qualche accademico si ostina a minimizzare la cosa, celandosi
dietro il paravento della casualità; non si può insomma ritenere una tal
corrispondenza, il prodotto di una trascrizione casuale, mentre la descrizione della
ruota contornata da numerosi occhi, potrebbe viceversa nascondere elementi
simbolici. Le cose starebbero perciò su piani molto diversi! Il rifiuto del
significato allegorico del numero 25725, deriva dal fatto che, per alcuni
esegeti non sarebbe plausibile che antiche popolazioni del tutto ignoranti
(specie di nozioni astronomiche) potessero calcolare la misura esatta di
fenomeni planetari tanto complessi, come quelli legati all’oscillazione assiale
terrestre. L’attendibilità del corretto significato non può dunque esser dato
dal giudizio emesso dal gradino di una cattedra eretta a pulpito dell’autorità
accademica. L’attendibilità, infatti bisogna cercarla nelle correlazioni!
Ed anche quando si parla di ‘oggetti volanti‘ (ma qui ci si avventura
nel metodo dei traduttori letterali, come Mauro Biglino o Zecharia Sitchin), mi sembra che
all’origine di questa colorita idea possa esserci un vizio di
valutazione rispetto al processo mentale delle associazioni concettuali, nel
senso che, certi autori prendendo a pretesto le nozioni biologiche
sulla percezione umana, cercano di imporre la possibilità che nell’osservazione
di un oggetto sconosciuto, l’occhio umano selezioni il dato reale più prossimo
a quello percepito visivamente, accorpando a questa cognizione nuova,
caratteristiche appartenenti all'oggetto che già conosce ma di cui non ha
piena percezione in quello nuovo. Con questa scusa, essi sostengono dunque che
un qualcosa di moderno (proveniente da civiltà extraterrestri) sia stato veduto
e successivamente raccontato da testimoni secondo l’angolazione e i mezzi
comunicativi di un intuito primitivo. Dunque la traduzione letterale, secondo
questa logica, sarebbe il miglior mezzo per sondare la
realtà, per capire se un evento sia accaduto veramente, oppure no. Ma
quest’ordine di idee nasconde un inganno, o forse una imprecisione di fondo
dovuta a una carenza dei traduttori, i quali, piuttosto che ingannatori
andrebbero considerati ignoranti. Il vizio insito in quest’ordine di idee
poggia essenzialmente su due fattori:
1) Il dato apparentemente realistico potrebbe
celare
contenuti allegorici.
2) Il testo da cui prende spunto la traduzione –
essendo
consonantico - non fornisce un’unica traduzione ma, a
fronte di una vocalizzazione
orientata, può soddisfare
più significati e persino significati
opposti.
Dato realistico e contenuti allegorici
Rispetto al punto 1), a beneficio dei lettori più attenti, anticiperò
l’esito di una scoperta di cui scriveremo meglio e più dettagliatamente nelle prossime pagine. Mi
sono permesso di usare un termine tanto impegnativo, ‘scoperta’, proprio perché
la cifra venuta alla luce non riguarda
un risultato su cui poter sindacare liberamente. Più avanti riporteremo
ogni passaggio matematico delle sommatorie eseguite rispetto le quantità
fornite dai redattori biblici (Bibbia masoretica, versione più diffusa Edizioni
San Paolo) nel capitolo 8° del Libro di Esdra, dove, dal versetto 24 si parla
di metalli preziosi offerti dalla comunità israelita per la ricostruzione del
tempio. Le poche righe dedicate alla generosa donazione, sembrano far parte di
un racconto reale, non suscitano sospetti riguardo l’eventualità di significati
nascosti. Sembra davvero che gli Autori
del pezzo non abbiano avuto altra intenzione che offrire una testimonianza
della devozione del popolo d’Israele. E chi dice di no! Il racconto, infatti, è
scritto in una forma perfettamente accessibile. Nessuno mette in dubbio il
rispetto degli antichi israeliti per il loro Dio! Ma ciò non toglie che lo
stesso racconto ricco di cifre, possa racchiudere anche allegorie riferite a
fenomeni astronomici. La soluzione di tipo allegorico, peraltro, convive
pacificamente con tutte le altre versioni volte a sottolineare il messaggio
etico. E non decade nemmeno la possibilità di un di un richiamo storico. Perché
mai, ci domandiamo, sono sorte tante difficoltà fra gli accademici, nel
riconoscere anche la precisione e l’importanza delle misure astrali celate nei
numeri? Volendo pensar male, potremmo dire che gli accademici soffrano
profondamente quando qualcuno mette in dubbio la loro parola, la loro
coscienziosità, lo vedono forse come un
attacco al carisma e alla reputazione faticosamente guadagnata sul campo, che
evidentemente considerano al di sopra di ogni altra cosa, di ogni altro parere.
Eppure qui non si tratta di pareri , stavolta c’è di mezzo la matematica e, subito
appresso, la puntuale e incontestabile verifica astronomica. Quella ufficiale,
s’intende.
Esdra 8;24: “Quindi scelsi dodici fra i capi dei sacerdoti, e cioè Serebia e Casabia, con dieci dei loro fratelli * , consegnai loro al peso l’argento, l’oro e gli utensili che il re, i suoi consiglieri, i suoi capi e tutti gli israeliti là dimoranti avevano offerto in dono al tempio del nostro Dio. Pesai dunque il tutto e consegnai nelle loro mani seicentocinquanta talenti d’argento, cento utensili d’argento da due talenti, cento talenti d’oro, venti coppe d’oro da mille darici (l’una) e due vasi di metallo splendente , preziosi come l’oro.
Il primo dato che balza all’occhio riguarda il seme specifico dell’ammontare delle offerte. Tutto ciò che viene registrato, infatti, può essere facilmente ricondotto a un’unità di misura esatta: i sicli del tempio. Il talento d’argento corrisponde a un certo numero di sicli, e così il talento e i darici d’oro. L’addizione finale, raccoglie quindi alcune quantità espresse piuttosto chiaramente in sicli. Lascio al lettore il compito di svolgere l’operazione, rimandando la soluzione, come nei quiz della Settimana Enigmistica, all’articolo da noi dedicato alla specifica questione (Dal titolo: Il tempo è denaro). Ciò che possiamo dire fin da adesso riguardo quei sicli è che, una volta raggruppati assieme, danno come somma una cifra estremamente esplicita, la durata del ciclo precessionale moltiplicata per cento (Dunque con l’aggiunta di due zeri). Il risultato ottenuto è quindi frutto del caso? Solo un ottuso potrebbe pensare che un valore così simile alla durata di un fenomeno cosmico, e dunque così precisa e significativa, possa essere stata buttata nel testo a casaccio. Ma andando a leggere, oltre l’evidenza più immediata e dunque oltre il senso del valore temporale della sommatoria in questione potremmo sostenere una possibilità (Coincidenza) ancora più sorprendente. Se infatti considerassimo i due vasi di bronzo dello stesso valore dell’oro dei darici (Come suggerisce il testo), ovvero delle venti coppe d’oro (Pari a 20.000 sicli), otterremmo come risultato 2.590.000 che corrisponde in scala temporale (1 siclo = 1 anno solare) a quasi cento cicli precessionali (Da questo riscontro è venuta l’idea del titolo ‘Il tempo è denaro’),. Sembra così che gli Autori del testo avessero introdotto la possibilità di un calcolo approssimativo e quindi avessero voluto fornire un range di variazione fra i due valori limite, da intendersi come massimo e minimo (Un po’ come dire che ai loro calcoli il ciclo precessionale fosse compreso fra 25900 e 25745, se questa volta si considerano i ‘due vasi pregiati come l’oro’, aventi peso di 6000 sicli, per 1vaso=1talento.)
Ma le nostre valutazioni non si sono fermate qua! Infatti se da un lato
pare evidente che il testo esprimesse delle stime temporali, dall’altro non
possiamo tapparci gli occhi davanti a una misura così indicativa che, nel suo
valore assoluto, replica esattamente la quantità di chilometri percorsi dalla
terra in un solo giorno (tempo) nella sua traiettoria di rotazione intorno al sole
(Orbita). Infatti, oggi sappiamo che in circa 24 ore la terra - alla velocità
di 30 chilometri al secondo - percorre in un giorno 2.592.000 chilometri
esatti. L’approssimazione individuata, in questo caso, sarebbe minima,
lasciandoci intendere che gli antichi scrutatori del cielo avessero davvero
calcolato la velocità del moto orbitale terrestre e soprattutto la lunghezza
dell’orbita terrestre intorno al sole, ma soprattutto indicherebbe che, già in
quel periodo, i giorni dell’anno solare sarebbero stati contati nella quantità
di 365, al posto dei 360 corrispondenti alla suddivisione arcaica dell’anno
solare. Vediamo adesso di quanto la misura calcolata attualmente differisce da
quella ipotizzata in questo articolo:
Orbita terrestre rilevata
attualmente = 946.080.000 (Tratto da Wikipedia)
Orbita terrestre teoricamente
calcolata dagli antichi:
2590000 x 365 = 945.350.000
Scarto = 730.000 Chilometri
Anche i più critici verso i nostri calcoli, non possono fare a meno di prender atto di come la misura attuale preveda una quantità di chilometri quasi uguale al multiplo di 25920, quella misura cioè calcolata su base 72. Il che, ci fa pensare che da un certo momento in poi, gli antichi avessero cominciato a valutare la velocità del ciclo precessionale nella sua formula arrotondata di 25920 anni (Dai testi ufficiali ritorna difatti con ricorrenza la cifra tonda 72, che riguarda appunto la velocità di percorrenza di un grado d’arco). Essi avrebbero quindi considerato l’anno precessionale come cifra di riferimento assoluta, proprio perché rappresentativa sia della misura temporale (anni) che di quella spaziale (migliaia di metri, o cubiti). Forse l’origine dell’unità di misura, il chilometro, avrebbe avuto origine proprio in seguito all’acquisizione di questa misura, di questa conoscenza fisica.
*Dodici persone in tutto. E già questo richiama alla mente l’idea che i dodici chiamati in causa possano riguardare un intervallo temporale, benché non si possa sapere se questo riguardi i dodici mesi dell’anno o le dodici case zodiacali, costituenti l’anno platonico.
Il testo masoretico (Codice di
Leningrado) è già un corpo di scritti vocalizzato, quindi polarizzato
verso specifici significati
Il testo masoretico della Bibbia più diffusa e popolare, non deriva
direttamente dagli scritti dei primi autori, rispetto ai quali, come più volte
ribadito, non sappiamo nulla di certo. Esso è giunto nelle mani dei traduttori
della scuola di Tiberiade alcuni secoli dopo la morte di Cristo (Sette), in un
tempo in cui già la narrazione cristologica aveva acquisito enorme divulgazione
e mirava a produrre nuovi contenuti concettuali, etici e fideistici nel mondo
romano il quale, dopo un feroce periodo di persecuzioni e repressioni, si
impegnava, non solo a rispettare i seguaci della nuova religione ma anche a
garantirgli un ruolo di assoluta centralità spirituale. Gli attuali esperti di
ebraico antico, una volta messo mano alle traduzioni già vocalizzate non
hanno però assicurato ai lettori/devoti
la fruizione di un testo incontaminato e veritiero, considerato che essi
abbiano operato sempre al soldo di qualche ente religioso e quindi abbiano
avuto l’obbligo di avallare specifici
significati.
Le traduzioni di cui si oggi si occupano gli ‘esperti di esegesi’
(Sembra quasi un ossimoro), sono dunque traduzioni di traduzioni
precedentemente orientate e perciò, già modificate rispetto le stesure delle
prime origini. Questo fatto è bene
tenerlo sempre a mente quando si parla di traduzioni. Ripetiamo quindi
un concetto divenuto oramai familiare: se si parte dal testo consonantico, non
si giunge necessariamente a una sola versione, bensì a molteplici modi di
intendere una stessa sequenza consonantica. E sappiamo anche che, nessuno dei
traduttori a servizio di un committente (Sempre di estrazione religiosa) si è
mai sognato di tentare anche solo un timido
approccio alla porzione numerica dei testi, ritenendo opportuno
soffermarsi unicamente e preferenzialmente sulla parte alfabetica. Pochi
autori, fra coloro che si avvalgono
del metodo (della traduzione) letterale
sono disposti a riconoscere nelle loro versioni questi due cosiddetti ‘fattori
di disturbo’ (Pag.30), se però ne sono informati e persistono nel loro
scetticismo, non si può più parlare candidamente di inconsapevolezza, o di
ignoranza, ma di malafede conclamata.
Tornando alle nuvole
Quando nei testi biblici si parla di nuvole, e si attribuiscono alle formazioni vaporose avvistate in lontananza, caratteristiche proprie delle nuvole (come quella di fluttuare nell’aria ed emettere rombi temporaleschi), si può intendere, sempre per gli autori di cui si è detto, che l’osservatore abbia veduto qualcosa di simile a una nuvola che per nuvola sia stato scambiato. La nostra mente classifica e registra le esperienze in base a ciò che già conosciamo (E.H.Gombrich), non è detto pertanto che l’oggetto in questione abbia avuto tutte le caratteristiche di una nuvola, pur assomigliandole parecchio. Tali qualità possono essergli state attribuite, verosimilmente, per semplice associazione d’idee. La nuvola infatti non sarebbe altro che la proiezione della nostra mente rispetto a una realtà sfuggente. I traduttori letterali, cavalcando il successo di determinati studi di settore, ipotizzano che l’osservatore nel raccontare la realtà percepita, potrebbe aver veduto qualcosa che non conosce che ha scambiato per nuvola; nel loro ragionamento però non tengono conto del fatto che l’osservatore-scrittore avesse potuto introdurre nelle sue definizioni una figura conosciuta, allo scopo di rappresentare un’entità idealizzata di tipo soprannaturale di cui non può aver avuto conoscenza in forma di percezione sensoriale, bensì come sensazione di un suo stato d’animo, come espressione di un sentimento di fede. Anche il dio insomma, può esser raffigurato fisicamente e la narrazione può chiamare in causa caratteristiche di una qualche materia che si sa appartenere al cielo (come il dio); lo si può rappresentare come una struttura aerea luminosa e candida come una nuvola, che è un elemento di cui si ha parziale percezione fisica; lo si può immaginare rumoroso come il tuono, che dalla nuvola viene emesso e che, a sua volta, ha il potere di atterrire chi lo sente, proprio come la presenza di un dio potente abitante dei cieli e dei mondi superni.
Crediamo a questo punto sia pertinente inserire in queste riflessioni
alcuni pensieri sviluppati in un articolo di
Ernst Kris (Studioso dell’arte) e Ernst Gombrich, i quali sostengono che
il valore di un’opera d’arte non nasce dalla sua prossimità al reale, bensì
dalla sua prossimità alla vita psichica dell’artista.
Questo criterio, e quindi la possibilità di comprendere il significato
dell’opera d’arte, dipendono ulteriormente anche dalla vicinanza dello
spettatore/lettore alla psiche dell’artista. In sostanza, questo processo
empatico non può prescindere dalla reazione dello spettatore e dalla capacità di ripetere nella sua mente il gioco di fantasia realizzato
dall’artista. Un simile processo presuppone l’esistenza di un legame fra
chi produce l’opera e chi ne fruisce. La versatilità del testo favorisce quindi, sia la comprensione/ condivisione spirituale nella mentalità e
nell’ attitudine psichica di un soggetto credente, sia la totale empatia
con la predisposizione dell’uomo moderno verso la tecnologia e i manufatti
tecnologici. Ciò spiega il successo delle interpretazioni
spiritualistiche e tecnicistiche, due ramificazioni culturali della civiltà
Occidentale (e non solo) e implica la tendenza a concepire il significato dei
testi talvolta in un senso talvolta nell’altro, ma soprattutto ci dice che,
volendo intraprendere una terza via d’accesso alla comprensione dei testi
mitici e volendosi distanziare dalla soggettività dello stato d’animo di
credenti e laici, si deve tener conto di un altro fattore in gioco, quello
fornito dai numeri e dalla loro autorità.
Nell’articolo redatto in preparazione di un libro sulla caricatura
artistica, che peraltro non vide mai battesimo editoriale, Ernst Kris ed Ernst
H.J.Gombrich argomentano il valore e la possibilità di fruire di un’opera
d’arte partendo dall’analisi del soggetto caricaturale (Il linguaggio dell’arte
in E.H.Gombrich. Paola Corapi). Tenuto conto dell’influenza della psicanalisi
freudiana, Kris sostiene, in coro con Gombrich, che la lettura di un’immagine
non è mai ovvia, in quanto lo spettatore si trova solitamente di fronte un
messaggio ambiguo, un messaggio cioè che può essere inteso in vari modi. Sotto
il profilo letterario, difatti, esiste una differenza importante fra intendere
Amleto come una tragedia della vendetta o,
invece, come uno studio dell’indecisione nevrastenica. Anche noi, in accordo
con le conclusioni di Ernst Kris, abbiamo analizzato le possibili varianti
nell’ interpretazione della tragedia shakespeariana e abbiamo immaginato di
poter applicare lo stesso criterio ai testi della Bibbia, oggetto principale
delle nostre dissertazioni.
Anch’essi infatti, secondo l’analisi del solo testo alfabetico, possono
presentare ambiguità irrisolte, tant’è vero che gli stessi testi sono stati
ritenuti simultaneamente validi sia rispetto la versione letterale (Secondo
cioè i significati letterali che possono essere conferiti alla narrazione), sia
rispetto quella più prettamente spirituale. Gli Autori biblici infatti, così
come il pittore, debbono essersi posti il problema di come interagire col loro potenziale pubblico che non si sarebbe limitato a quello
delle società del loro tempo. Anche lo scrittore, dunque, esattamente come il
pittore, fornisce un primo invito all’ approccio del testo, in seguito sarà
l’immaginazione del lettore a fare il resto. Questo assunto costituisce
l’universo estetico di Gombrich; universo in cui soggetto e oggetto sono in
continua relazione dialettica. Ridurre, per quanto possibile, l’informazione
sulla tela , vuol dire per l’artista figurativo, stimolare il meccanismo della
proiezione del fruitore dell’opera. Il campo delle possibilità è così aperto!,
nel senso che il medesimo oggetto può , di volta in volta, essere guardato,
ricordato e rappresentato dalla stessa persona in modi diversi, secondo il
proposito del momento. Per questo si dice
che l’arte diversamente dalla scienza, non descrive la realtà, ma la
evoca. Ciononostante l’arte non può ridursi a mero giudizio relativo, perché
altrimenti nel provocare la sola evocazione di un sentimento non darà mai un
capolavoro il quale, per esser considerato espressione di un talento superiore
deve superare questo suo stato di soggettività. Deve perciò fornire elementi
universalmente comprensibili e condivisibili. Se supponessimo che il
redattore biblico volesse porsi come obiettivo primario, il superamento del
fattore relativo, dovremmo capire che limitarsi all’utilizzo di un particolare
stile, di un taglio favolistico della narrazione mitica, ma soprattutto
limitarsi all’adozione di un linguaggio scritto sprovvisto di
vocali, potrebbe significare escludersi dal raggiungimento dei più alti livelli
espressivi, ovverosia, la rinuncia al proprio talento artistico. L’opera
letteraria, quindi, affinché possa aspirare al carisma di capolavoro e di poter
così superare l’ostacolo sempre in agguato dell’oblio, dovrebbe garantire
assieme a una precisa forma (Ad esempio quella del racconto di fantasia) anche
la presenza nel testo di elementi necessari a superare lo status relativo. Uno
scritto, allora, dovrebbe mostrare anzitutto il suo lato comunicativo e più
accattivante, mostrare dunque quelle qualità stilistiche che lo facciano
entrare in empatia col lettore, e al contempo garantire contenuti non
interpretabili, e attraverso gli stessi limitare l’effetto di consunzione
temporale conseguente al giudizio emotivo dei fruitori dell’opera, che non può
mantenersi costante nel tempo.
Per dirla diversamente, il capolavoro a differenza dell’opera comune,
deve conservare la capacità di sapersi elevare oltre i caratteri evocativi del sentimento, i quali
rimangono sempre vincolati fra le altre cose, allo spirito del tempo, alla
contemporaneità e alla tradizione culturale. Vediamo allora che, al giorno
d’oggi, lo scritto sacro, che è anche mitico, una volta privato per ottusità
intellettuale del suo lato meno evocativo, e non trovandosi più in un contesto
culturale adeguato (che varia
progressivamente nel tempo), viene ridotto a mera rappresentazione fantastica
di valore trascurabile.
Lo scritto mitico, categoria di cui anche la Bibbia fa parte, ha insomma
perduto al giorno d’oggi l’ancoraggio al suo contenuto invariabile ed ha finito
per esser relegato a quel tipo di narrativa di genere fantastico, improbabile
ed inutile, destinata a non lasciare memoria di sé, a meno di non voler
riscoprire, laddove si presenta possibile, il carattere polisemico e gli
aspetti nascosti in qualche modo legati al dato quantificabile, al dato
non-interpretabile.
Ci soffermeremo meglio sui meccanismi della percezione umana nelle note
conclusive di questo saggio, andando a rispolverare un interessante trattato di
Ernst Hans Josef Gombrich nel quale si afferma a più riprese che la fedeltà
della riproduzione non è una caratteristica necessaria alla rappresentazione
artistica. Qualcuno potrebbe domandarsi cosa c’entri l’arte in questo contesto,
però ad assottigliare lo sguardo verso le narrazioni favolistiche di genere
mitico, possiamo affermare che gli autori si siano espressi in guisa di artisti
veri e propri. Assodato che la ‘favola’ mitica, sotto il profilo letterario non
disdegni affatto il taglio artistico, potremmo concludere che gli sconosciuti
Autori della Bibbia - al pari di altri
scrittori delle epoche passate e soprattutto di quelle successive - si fossero
espressi artisticamente, senza
allontanarsi poi tanto dalle licenze che, ad esempio, si concedevano i
grandi pittori del Rinascimento. E difatti un pittore non è un fotografo! Non ha l’obbligo della fedeltà,
per il fatto che, come creativo, egli è una sorta di medium fra ideale e reale,
la cui percezione è un derivato della peculiarità del suo temperamento. Questo
discorso però vale anche quando certi termini vengono usati in senso simbolico.
Gli sconosciuti Autori biblici non possono allora esser considerati
cronisti di eventi a cui avevano assistito, o preconizzato il corso,; possiamo
casomai ritenerli letterati a pieno titolo a cui era caro un messaggio, quindi
un contenuto, ed intorno ad esso costruivano la rappresentazione ‘letteraria’
di una vicenda (Non una cronaca). I condizionamenti culturali e stilistici,
inoltre, hanno contribuito a minare il realismo di talune rappresentazioni e
ciò lo ritroviamo sia in ambito pittorico che letterario; ma su quest’ultimo
piano, dobbiamo tener presente che i racconti mitici di molti popoli vissuti in
un passato remoto, non hanno alcunché di reale poiché, essendo largamente
intrisi di immaginazione, pare vogliano dissuadere il lettore dall’
avventurarsi nelle incognite di un approccio letterale. A noi pare chiaro che questi Autori del passato intendessero
concentrare i loro sforzi su contenuti ben distanti dalla rappresentazione
realistica degli eventi. Ciò che a noi preme tuttavia rilevare in questa nostra
analisi è la facilità con cui talune espressioni, attraverso il presunto
corridoio letterale, o letteralista, possano essere facilmente adattate a
significati e contenuti estrapolati dalla modernità e dalla tecnologia, ma in
definitiva derivati da rappresentazioni immaginarie e costruite su significati
simbolici oppure, a nostro modo di intendere, puramente allegorici.
Alcuni hanno cavalcato la duttilità del testo su cui si sono cimentati,
per giungere a traduzioni estreme, come quelle che hanno sobillato la teoria
degli alieni, ma a nostro modo di vedere tali pseudo-certezze, per quanto
suggestive, non rappresentano che una fra le tante soluzioni possibili, tutte
ugualmente percorribili in virtù dell’opinabilità di giudizio di un testo
instabile come l’ebraico antico; però, quando al testo di per sé altamente
manipolabile, si aggiungono numeri esatti, ecco allora che l’apparente
elasticità sembra lasciar spazio a soluzioni più attendibili, ammesso che
la fiducia conferita al contenuto
allegorico di un testo alfanumerico sia la risultante della corrispondenza fra numeri e specifiche misurazioni di fenomeni astronomici. Solo in questo caso,
quindi, riteniamo si possano trarre spiegazioni convincenti, le quali,
viceversa, senza questa necessaria correlazione quantitativa finirebbero per
risultare equivalenti e rimanere confinati nell’ampio contesto dell’opinabilità
di giudizio, caro a manipolatori e affabulatori di ogni epoca.
L’immagine realistica delle nuvole che solitamente fluttuano nell’aria, (Ve ne sono diverse nel Libro di Ezechiele), possono aver riguardato, pertanto, fenomeni fisici associati alla concezione aerea del cielo. Ma se si vuole spaziare più liberamente nei significati, vediamo bene che il profilo di una nuvola in lontananza, si può conciliare con quello di un vecchio veicolo a vapore (l’antesignano dell’automobile moderna)
con i suoi alti sbuffi bianchi che ne confondono la sagoma; secondo la prospettiva che ci siamo impegnati a seguire in questa indagine metodologica, i dettagli percepiti della realtà circostante potrebbero essere stati volontariamente favoleggiati da un autore allo scopo di scoraggiare il lettore accorto dal tentare un approccio al testo di tipo realistico, ovvero l’approccio letterale. Un po’ come dire: è talmente assurdo da non poter essere creduto vero!
Tornando al tema delle nuvole, bisogna anche dire che in fondo i testi non
descrivono mai il movimento preciso di queste vaporose formazioni atmosferiche
e, d‘altra parte, sostengono i letteralisti, chi non avesse mai veduto una
locomotiva di vecchia concezione, come gli indigeni di una remota isola del
Borneo, o gli indios dell’Amazzonia brasiliana, attraverso la percezione ottica
condizionata dalla distanza e da favorevoli condizioni del vento, potrebbe
benissimo essere indotto a credere di aver veduto una nuvola. E perfino i
riflessi cromatici descritti nel libro di Ezechiele come luce di un
‘arcobaleno’, non ricordano forse l’effetto di uno sbuffo vaporoso su una
superficie metallica levigata?
“Era inoltre
circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a
quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia.“
Ezechiele 1: 28
Simili elementi giocano pertanto a favore della logica seguita da quegli
spregiudicati traduttori che oggi intendono conferire agli scritti un tratto
moderno, virato sulla tecnologia, ponendo abili presupposti per far passare
l’ipotesi che, simili congegni provenissero dalle meraviglie tecniche di una
cultura aliena, giunta dallo spazio sul nostro pianeta tanto tempo fa (nel
periodo, appunto, in cui sono ambientati i racconti biblici, e non solo). E che
dire poi del rumore paragonato a quello di un ‘reggimento in marcia’? Quale
associazione produrrebbe l’orecchio umano nell’ udire il fracasso di un motore
a scoppio senza aver mai veduto prima un’automobile, o senza avere la minima
idea di cosa essa sia?
Il nutrito corpo di testi biblici offre una varietà illimitata di
dettagli che si possono, in assenza di numeri, tarare ogni volta sul modello di raffigurazioni realistiche, o
pseudo-tali. Ciò dipende, non dobbiamo scordarlo, anche dalla capacità
immaginativa e dal bagaglio di conoscenze del traduttore, quindi dalla ampiezza
delle sue acquisizioni culturali, oltre che dalla duttilità offerta dalle
caratteristiche di uno scritto privo di vocali.
Naturalmente queste nostre riflessioni scaturiscono dalla volontà di voler
semplicemente intraprendere un ragionamento alternativo che, in definitiva,
avrebbe lo scopo di ribadire che qualunque descrizione, specie in assenza di
cognizioni ed esperienze precedenti, può prestarsi a tutte le variabili di una
fedele raffigurazione realistica. In fin dei conti, interpretare non significa
altro che fantasticare sulle possibilità, non certo porre basi raziocinanti
volte all’esclusione del meno probabile. Tutto ciò sembra confermare che solo
le rappresentazioni numeriche possono dirsi affrancate dal rischio di
interpretazione arbitraria e a quest’ultima riflessione, diciamo di esser stati
ispirati nello scrivere questo saggio.
Alcune informazioni per schiarirci le idee
In queste prime chiose introduttive abbiamo spesso fatto cenno a un fenomeno planetario che per gli antichi doveva rappresentare la base di ogni conoscenza astronomica: il lento ciclo della precessione degli equinozi. Al giorno d’oggi, viceversa, pur reputandoci superiori alla loro cultura e ritenendo la nostra civiltà ben più evoluta delle loro, non abbiamo grande dimestichezza col significato di questo concetto astronomico, né conserviamo alcuna conoscenza di quello che pur viene frequentemente citato e ricordato come ‘anno platonico’. Se questa inadempienza può sembrare una grave lacuna in seno alla schiera di teologi, storici, traduttori e specialisti nell’analisi del mito, non lo è di certo per il comune lettore, per quelli cioè che - come il sottoscritto - si avvicinano per la prima volta alla complessità dello studio del mito antico. Ho trovato utile riporre in poche righe le nozioni fondamentali che bisogna conoscere per districarsi in questa disciplina o, se non altro, per afferrare alcuni concetti di cui faremo largo uso nei successivi paragrafi di questo saggio. Ho trovato particolarmente adatto e conciso il materiale pubblicato in rete dal bel sito di Adriano Gaspani, del quale riporto il link a fine capitolo. Per chi trovasse difficoltà, suggerirei invece di seguire la spiegazione di Robert Bauval (Il link è facilmente rintracciabile in rete); ancora su You Tube, vorrei segnalare il canale associato all’interessante sito Profezie Evangeliche, affinché coloro che, pur del tutto profani di questi argomenti, possano trovare un aiuto concreto, direttamente per bocca di grandi e capaci divulgatori.
L'anno platonico
Prima di addentrarmi nella disamina vera e propria della parte cosiddetta alfanumerica dei Testi, ho preferito soffermarmi meglio sul concetto di ‘anno platonico’. Si è visto che se ci attenessimo alle informazioni passate dalla rete ci ritroveremmo a considerare a una serie di valori estremamente difformi rispetto la durata del ciclo precessionale biblico. Dopo una breve indagine verremmo tuttavia a conoscenza del fatto che le attuali rilevazioni, portate avanti coi mezzi e gli strumenti avanguardistici della fisica astronomica del Ventesimo Secolo, differiscono sostanzialmente dai valori individuati col ‘vecchio’ criterio di rilevazione, quello che si atteneva al rapporto con un punto fisso nel cielo.
Le pagine
digitali dello strumento di informazione più in voga del momento, Wikipedia,
lasciano intendere che i sistemi moderni, valutando lo spostamento della stella
polare o ‘fissa’ (che fissa non è), giungono a calibrare con precisione il
ciclo di precessione degli equinozi. Anticamente gli astronomi si rifacevano
invece ad un diverso criterio che, ignorando l’ ulteriore e lentissimo
movimento astrale del polo ‘fisso’, prendeva in considerazione solo una
posizione dell’astro su cui puntava l’asse di rotazione terrestre. In tempi
successivi essi devono aver scoperto che lo spostamento lentissimo della stella
polare rispetto all’asse di rotazione terrestre ( in realtà è quest’ultimo a
non mostrare regolarità a causa di un’ulteriore, impercettibile vibrazione del
suo moto millenario) causasse una perdita dell’armonia del sistema cielo e
spostasse di parecchi gradi il moto degli astri, cosicché essi finissero per
mutare lentamente i loro rapporti con i punti equinoziali.
Le cifre riportate in alcuni
libri del Pentateuco (indifferentemente, in tutte le traduzioni) mostrano
invece di attenersi a un solo valore, corrispondente alla durata di un
trecentosessantesimo dell’intero ciclo
precessionale ( lo spostamento di un grado dei riferimenti astrali
convenzionali).
Possiamo
perciò affermare senza incorrere nel rischio di una smentita, che anticamente,
il ciclo precessionale fosse calcolato secondo
uno ed un solo metodo e che venissero rilevati costantemente gli stessi
valori i quali risultano giungere a noi attraverso l’opera e gli studi di
Ipparco di Nicea (II Sec. a.C.), a sua volta attinti da antichi documenti
(forse risalenti al periodo delle deportazione babilonese) provenienti dai rapporti
dei Caldei in lingua accadica e
poi trasmessi
alla cultura ellenica attraverso la mediazione di quella ebraica. Detto ciò, lasciamo al lettore la libertà di farsi un’idea rispetto la modalità di rilevazione e l’epoca in cui possa essere stata calcolata la durata del ciclo precessionale.
…….………..
L’illustrazione è tratta dal sito di Adriano Gaspani
INAF (Istituto Nazionale di
Astrofisica.
Osservatorio astronomico di Brera
– Milano.
adriano.gaspani@brera.inaf.it
http://www.duepassinelmistero.com/elementiarcheoastro4.htm
La posizione degli astri. I fenomeni che fanno variare la posizione apparente degli astri
Esistono almeno cinque fenomeni che causano la variazione delle coordinate di un oggetto celeste nel cielo. Esse sono: la Precessione, la Nutazione, l'Aberrazione, il Moto Proprio e la Parallasse Annua, ma altri fenomeni di entità minore agiscono unitamente a questi cinque. La variazione delle coordinate istantanee di un astro durante il tempo può essere sostanzialmente di due tipi. Il primo tipo include variazioni a tempo breve le quali sono da mettere in relazione con il cambiamento istantaneo di posizione della Terra nello spazio e al suo moto orbitale attorno al Sole, mentre il secondo tipo include le variazioni di natura secolare legate alla periodica oscillazione della direzione dell'asse di rotazione della Terra per effetto delle influenze gravitazionali combinate della Luna, del Sole e in misura molto minore, ma non trascurabile, di tutti gli altri pianeti appartenenti al Sistema Solare, soprattutto quelli di massa più elevata quali Giove e Saturno. Il periodo storico generalmente preso in esame dalle ricerche archeoastronomiche si estende dal 6000 a.C. fino ai primi secoli dopo Cristo, di conseguenza anche le piccole perturbazioni sommandosi con il passare del tempo diventano importanti e producono praticamente una sensibile variazione della posizione degli astri nel cielo, della posizione dei punti di levata e di tramonto all'orizzonte astronomico locale e delle loro date, osservati da una determinata località geografica. Se non si tiene conto in maniera accurata di tutti i fattori, o almeno i principali, che producono una variazione delle coordinate di un oggetto celeste, risulta molto difficile, se non impossibile, identificare il corretto significato degli allineamenti osservati nei siti archeologici di rilevanza archeoastronomica. Un intervallo di tempo di 8000 anni è in grado di produrre un rilevante cambiamento di orientazione dell'asse della Terra con la conseguenza che il cielo visibile oggi e quello visibile 8000 anni fa nella medesima località geografica risultano essere consistentemente differenti. A titolo di esempio osserviamo che da Milano, 7000 anni fa, poteva essere agevolmente osservata la costellazione della Croce del Sud, cosa che attualmente non è più possibile, ma che lo sarà di nuovo in un lontano futuro.
La Precessione lunisolare
Attualmente il polo nord celeste è situato molto vicino alla stella alpha Ursae Minoris, cioè la Stella Polare, ma in passato non fu così e non lo sarà neanche in futuro. Un'altra conseguenza del moto di precessione dell'asse terrestre è che il punto occupato dal Sole nell'istante dell'equinozio di primavera, cioè una delle intersezioni tra l'Eclittica e l'equatore, regredisce di circa 50" d'arco ogni anno muovendosi incontro al Sole sull'Eclittica. Oltre a questo si verifica che il piano dell'Eclittica non è fisso nello spazio, ma a causa dell'attrazione gravitazionale dei restanti otto pianeti sulla Terra esso ruota lentamente attorno alla linea dei nodi con una velocità di circa 47" d'arco per secolo. Siccome, sia l'Eclittica che l'Equatore sono cerchi fondamentali per due differenti sistemi di coordinate, quello eclittico e quello equatoriale, i valori delle coordinate degli astri visibili nel cielo variano continuamente; quindi la posizione
apparente di un astro nel cielo deve essere riferita ad una data. Una delle
conseguenze della Precessione è che talune costellazioni che erano visibili
nell'antichità in corrispondenza di un determinato luogo geografico sulla
Terra, oggi non lo sono più a causa del fatto che esse non salgono più sopra
l'orizzonte astronomico locale. Talvolta accade che in taluni siti archeologici
esistano allineamenti che puntano verso punti dell'orizzonte in corrispondenza
dei quali, durante il Neolitico o l'età del Bronzo, o del Ferro sorgevano
stelle luminose appartenenti a costellazioni situate nell'emisfero celeste
australe che oggi ci sono precluse a meno di spostarsi molto più a sud rispetto
a dove le strutture furono edificate.
Il fenomeno della Precessione è
quello che produce la variazione più forte della posizione degli astri nel
cielo e quindi è un fenomeno che riveste un carattere fondamentale dal punto di
vista archeoastronomico specialmente laddove è necessario ricostruire
accuratamente l'aspetto del cielo nell'antichità.
non è un cerchio e nemmeno una curva chiusa, ma è
una curva leggermente irregolare. Una
conseguenza estremamente interessante dal nostro punto di vista sarà che la
posizione del polo boreale si sposterà virtualmente sulla sfera celeste
attraversando alcune costellazioni in modo che con l'andare dei secoli e dei
millenni varie stelle più o meno luminose avranno la sorte di essere le più
prossime al polo. Esse saranno quindi le stelle polari tipiche delle varie
epoche.
La Sfera Celeste nella direzione del Polo
Nord Celeste
dell’anno 2000
Traiettoria del Polo Nord Celeste tra le costellazioni in seguito alla Precessione lunisolare. Appare quindi evidente che durante le varie epoche preistoriche e proto-storiche diverse stelle potevano essere utilizzate come indicatrici della direzione cardinale nord. Durante il periodo in cui furono costruite le grandi piramidi nella piana di Gizeh, in Egitto, la stella polare fu alpha Draconis (Thuban), mentre durante l'età del Bronzo, la stella luminosa più prossima al polo boreale fu k Draconis, sempre nella costellazione del Drago. Durante l'età del Ferro, la stella visibile ad occhio nudo che indicava la posizione del polo nord celeste fu invece b Ursae Minoris, (Kochab) una delle componenti della costellazione del Piccolo Carro.
Informazioni tratte dal sito di :Adriano
Gaspani, aprile 2008
http://www.duepassinelmistero.com/elementiarcheoastro4.htm