In questa prima uscita del ‘progetto letterario’ del quale si è abbondantemente parlato qui, ho voluto proporre l’incipit dinamico (Cioè senza nulla di definitivo) del romanzo ‘Il robot e il serpente’.
Breve premessa (da omettere le parti retro-colorate in rosso):
Uno psicologo di mezza età ritrova nella posta elettronica del suo computer un’enigmatica missiva. Non realizza a primo acchito chi possa essere, ma pensa si tratti di una vecchia paziente, affetta da chiassà quale malanno e, per giunta, un po’ bislacca. Legge velocemente poche righe cariche di apprensione:
vi scrivo in un momento , per me, drammatico. Il mio capezzale è distante dal vostro studio, troppo distante nello spazio e ancor più nel tempo per sperare di potervi ricevere prima di esser morta. Sento di procedere speditamente verso la fine. Vi chiedo solo di ascoltare la mia storia, portarmi conforto, garantire che la mia versione dei fatti possa raggiungere un mondo della cui esistenza non posso che nutrire speranze. Tengo in particolare che mi parliate un po’ di questo vostro mondo, delle usanze e dei suoi costumi, ma soprattutto delle genti e della civiltà che in esso hanno convissuto nel corso dei secoli. E’ un luogo felice o vi prosperano odio e rivalità?
Perché ve lo chiedo? Vi starete domandando. - Già: perché?
Se vi rispondessi che le mie son naturali premure di madre, non capireste. Pensereste di aver a che fare con una pazza, perlopiù malata e moribonda. Ed allora non ve lo dirò! Non ora. Non adesso. Forse in seguito comprenderete, ma per farlo dovrete disporvi all’ascolto, o alla lettura delle parole dell’ unico testimone vivente di una grande storia.
Adian
Ohxen’im bat Asherah , madre di Temah figlia di Havel
Il contenuto della lettera gli trasmette ovvie curiosità. Incerto sul da farsi invita così la misteriosa donna a spiegarsi meglio, per permettergli di acquisire informazioni sul suo conto. Dall’altra parte l’invito è raccolto senza alcuna titubanza. L’uomo, qualificatosi come dottor Effe, riceve da quel momento in poi una serie di comunicazioni e si dispone di buon grado alla lettura.
Parte prima
Di solito non ricevo grandi quantità di posta e quindi non ho l’abitudine di consultare la casella elettronica. Da almeno quattro giorni ristagnava infatti una comunicazione solitaria, il cui mittente non pareva appartenere alla ristretta cerchia delle mie frequentazioni e nemmeno a quella, altrettanto scarna, dei miei pazienti. Diviso a metà fra la consueta indolenza da fine settimana e la curiosità sbrigativa di un temperamento impiccione, mi decisi a leggere e, in poche battute, a rispondere con tutto il garbo di cui ero capace.
Come primo approccio inviai all’indirizzo di questa enigmatica missiva alcune semplici domande, tanto per sapere se si trattasse di una vecchia conoscenza o di una persona che, solo dopo aver conferito con un mio paziente, si fosse decisa a scrivermi. Di una cosa ero arcisicuro: un nome del genere non l’avevo mai sentito e neppure avrei avuto la necessaria fantasia per immaginarlo di sana pianta. .
Scrissi appena poche righe, intuendo che una simile vicenda avesse un principio lontano e che la donna che si era presentata col nome di Ohxen’im, soffrisse da tempo di disturbi dovuti a visioni notturne molto simili a sogni, ma di natura alquanto diversa.
Ricevetti la risposta appena un paio d’ore dopo e già, fin dalle prime righe, avvertii nelle sue parole un repentino cambio di personalità: quella che all'inizio mi era sembrata una donna matura, si era calata nei panni di una giovane, forse un’adolescente.
Mi ritrovai confuso, sebbene non di rado i miei pazienti saltano da una situazione all’altra senza curarsi di seguire un ordine cronologico, o un eloquio regolare. Rammentai però che fui proprio io a chiederle di riprendere il filo della storia dal principio e fui persino molto magnanimo nel concederle la possibilità di dilungarsi, senza imporre limiti di sorta, secondo una prassi clinica volta a garantire tranquillità. Lei non fece altro che attenersi alle mie indicazioni, senza alcun preambolo, senza ulteriori chiarimenti.
e-mail n° 2
La ringrazio per l’invito. Apprezzo la sua premura e la delicatezza mostrata nei miei confronti vale a dire, nei confronti di una perfetta sconosciuta. Dovrei presentarmi, lo so e fornire i miei dati anagrafici, ma al momento ho soltanto bisogno di parlare con qualcuno che sappia rispettare la mia esigenza di riservatezza. Perdoni, dottore, la mia pretesa.
Posso dirle tuttavia che da qualche tempo ho cominciato a sognare in maniera assai realistica e che queste visioni mi hanno trasmesso forti turbamenti. Non chiedo che essere aiutata a vivere serenamente gli ultimi giorni della mia vita. Conosco la sua professionalità, per questo motivo ritengo che potrebbe concedermi un insperato sostegno psicologico.
Queste visioni insolite, insomma, sono iniziate pochi mesi fa e da allora non si sono più interrotte. Nel sonno vedo immagini che non appartengono a ricordi recenti e nemmeno lontani: forse non appartengono neppure a me, al mio vissuto; eppure tutto intorno scorre in maniera tanto chiara da farmi smarrire gli appigli con la realtà. Con la realtà di ‘questa parte’, che è la nostra.
Le prime volte che mi capitava di fare tali sogni non riuscivo a mantenerne la memoria, poi i paesaggi presero forme familiari, i volti delle persone che ero certa di non aver mai veduto prima, cominciarono a trasmettermi sensazioni rassicuranti, finché un giorno al primo risveglio, dopo periodi di totale confusione, mi parve tutto estremamente più preciso, più logico. In uno dei primi sogni mi vedevo procedere spedita su un tratto di strada polveroso, ero forse in un bosco e davanti a me ruscellavano le acque di un torrente posto a confine di una regione ammantata di mistero. Mani esperte sembravano aver ritratto il volto della natura di quei luoghi, col rigoglio dei grandi arbusti ghiandiferi o con la monumentale autorità dei fitotitani dal fusto largo fino a dodici cubiti. Non so perché continuo a chiamare tali alberi con quel nome assurdo. So solo che, dall’altra parte (nell’immaginazione onirica) mi sembra tutto perfettamente inserito in un contesto conosciuto sebbene slegato da riscontri reali. Superai così quel fiumiciattolo, con l'acqua alla vita, facendo attenzione a non bagnare lo zaino. Quante volte, da bambina, un luogo simile era stato teatro dei miei giochi. Però in quell’attimo preciso provavo sgomento e dicevo a me stessa:
– tieni gli occhi aperti, Ohxen! il bosco può riservare brutte sorprese. Sulla riva opposta mi scrollai l’umidità di dosso con energici calcioni al suolo per poi alzare gli occhi verso l’orizzonte: le rassicuranti architetture delle grandi torri della luce mi avrebbero aiutata a ritrovare la strada di casa, al sopraggiungere della sera.
La notte mi ha sempre trasmesso le peggiori paure e sentivo che quel luogo brulicava di oscure e minacciose presenze; meno male che in queste occasioni portavo sempre con me un armamento leggero. Non erano i quadrupedi dai lunghi denti a preoccuparmi, difficilmente dopo la colonizzazione mihole e le invasioni latranidi, ne avrei potuto incontrare qualcuno perché nel tempo avevano mutato le migrazioni andando ad insediarsi nelle regioni dove la luce nasceva e da dove le dodici lune di Tarhar A’Ru non si sarebbero potute scorgere. Una volta raggiunte le steppe del nord est, alle pendici dei freddi altipiani, non tornarono più nelle terre d’origine, dove rivali efferati avrebbero minacciato la loro sopravvivenza.
Ecco un’altra anomalia: le immagini del sogno si accompagnano sempre ad informazioni precise, nomi, situazioni che conoscevo e ripetevo perfettamente. Nel riprendere coscienza, rammento sempre i nomi delle cose e delle persone, poi la sensazione di familiarità svanisce come rugiada al sole.
Il ‘Medio Amadah’, che negli spazi onirici era la terra degli avi e patria dei popoli amadahntini, era una località priva di coordinate geografiche: non esisteva perciò da nessuna parte del mondo. In quel luogo sorgeva una città chiamata Tarhar A’Ru. Come ogni agglomerato urbano, anch'esso produceva rifiuti, che venivano ammassati entro apposite aree per lo smaltimento organico le quali erano ubicate a debita distanza e avevano la funzione di garantire scorte alimentari pressoché illimitate ad ogni genere di predatore, la cui presenza avrebbe altrimenti minacciato la popolazione residente. Per costoro era molto importante conoscere la posizione di questi luoghi maleodoranti, che venivano sistemati a distanza di sicurezza e concentrati entro località circoscritte e vistosamente segnalate sul territorio. Non v’erano dunque motivi per coltivare timori seppure, di tanto in tanto, capitava che qualche esemplare in fregola si portasse nei pressi dell’area edificata, o trovasse dimora in mezzo alla vegetazione. Paura e diffidenza lo potevano rendere pericoloso, dacché l’aggressività delle belve è ravvivata più dal timore che dalla fame. Sapevo perciò di dover girare alla larga da certi tipetti tarchiati dai modi scontrosi e meglio l’avrei fatto se mi fossi tenuta lontano dalle discariche.
Tempo addietro ne avevo veduto uno – l’immagine mi tornava chiara anche in stato di veglia. - grattava il terreno fresco del sottobosco in cerca di radici o insetti commestibili. Avevo quindi atteso che si allontanasse facendomi scrupolo di non tradire la mia presenza. Quando però la bestia si era arrestata a pochi passi e aveva cominciato ad annusare l’aria, avevo percepito un brivido lungo la schiena, una di quelle sensazioni che portano gli intestini a liquefarsi nelle brache in men che non si dica. Ma non ne avevo fatto un dramma, perché nelle mie perlustrazioni portavo sempre a tracolla un folgoratore elettrico. Di questo mostriciattolo ricordavo caratteristiche precise: era un prototipo maschio di vecchia generazione, un ibrido che aveva potenziato alcune facoltà e perduto altre, in una mescola di caratteri difficilmente prevedibile. Era stato un primo tentativo sperimentale a cui ne sarebbero seguiti di nuovi. Il modello Zero punto Zero, meglio conosciuto come mostro squartatore, era stato rimesso in libertà poiché le leggi impedivano la soppressione di un individuo con un innesto genico primario, (della specie mihole) maggiore del quindici per cento. Il tasso ben più alto innestato su Zero punto Zero era servito così a salvargli la vita. In seguito si era velocemente riprodotto mescolando i propri caratteri con quelli di altre specie compatibili, col risultato di sparpagliare nel bosco una considerevole quantità di materiale genico pronto a scattare su arti rapidi e zanne letali con cui straziare le carni di chiunque avesse avuto la sorte talmente avversa di capitargli davanti. La pelle mi si accapponava all’idea di venir colta da un fortunale nel bel mezzo della notte (unica condizione che avrebbe reso i circuiti della mia arma da passeggio, nulla più di un ingombrante ammasso di ferraglia ).
La foresta tuttavia, più che di insidie, risuonava di vita, nell’attraversarla provavo sempre una piacevole fatica, i sensi si acuivano e muscoli sotto la pelle guizzavano come anguille. Sgusciavo nel reticolo cespuglioso senza sosta , saltellando oltre il sentiero battuto, coi piedi nel fango bruno e limaccioso che mi inzaccherava fino alle ginocchia. L’unica minaccia di questi luoghi era data dall’acqua che talvolta risaliva in superficie dai bacini sotterranei, formava pozze invisibili, coperte da un tappeto di fogliame che potevano ingoiare uno sprovveduto in pochi istanti. La terra umida poteva insomma diventare molto pericolosa e, come nell’ animo di ogni mihole, anche a me procurava un terrore illogico e ancestrale: nessuno d'altronde aveva mai lasciato le penne in queste fosse melmose, perché mai sarebbe dovuto capitare proprio a me? Temevo troppo l’acqua per farmi sorprendere da simili trappole. Ero disorientata dalla pioggia, atterrita dalla nebbia, detestavo il vapore delle fornaci e perfino un piccolo addensamento nuvoloso poteva destare in me oscuri presagi. Al contrario era la folgore a restituirmi coraggio. La cosa poteva apparire del tutto insensata perché la pioggia non aveva mai fatto vittime, mentre i fulmini del cielo scaricavano a terra un tal potenziale di energia da lesionare edifici o carbonizzare come uno stecco il più robusto fra i più poderosi lottatori mihole. Il timore dell’umidità l’avevo appreso da bambina, era un ingrediente imprescindibile nei racconti dei vecchi, nelle favole o nelle tragedie mitiche del mondo antico, un mondo che aveva maturato questi archetipi in un tempo lontanissimo e che, in un assurdo contro-meccanismo di difesa, pareva adesso minare la fiducia infantile verso la natura, luogo dell’imprevedibile, tana degli istinti e delle crudeltà; qui l’acqua rappresentava il fluido malefico, il demone da combattere e sconfiggere. Eppure, era in essa custodita anche l’essenza vitale di tutte le creature dell’universo e, se non di quello, dell’intero pianeta. I luoghi selvaggi, insomma, mi attraevano da morire; avevo imparato come coglierne l’armonia , i colori , ogni rumore e soprattutto i profumi con quella loro proprietà indecifrabile e meravigliosa di saper suscitare memorie lontane; ritrovavo nella Natura la gioiosa vocazione alla maternità, non alla prevaricazione e all’abominio. Nel suo utero smisurato erano state partorite tutte le genti; tuttavia la mia civiltà millenaria, per voce dei saggi, ne coltivava l’insensato timore. Al diavolo i saggi! - Pensai: avrebbero avuto bisogno di una bella svecchiata, pure loro.
Come tutte le femmine mihole, anch’io abbeveravo i miei buoni conflitti interiori nelle esitazioni di un pessimismo latente che si faceva vincere solo dalla forza del ‘mito della sopravvivenza’, unica forma di speranza collettiva nata dalla fiducia sul progresso e sul lavoro degli scienziati. I giovani maschi all’opposto, non vivevano le stesse paure (mitiche) come debolezze, ma come sfide e, in età matura, i più capaci avrebbero intrapreso carriere di alto livello nei laboratori della Salvezza, per ricoprire incarichi di gran prestigio, coi titoli altisonanti di Garanti della Conoscenza, di Custodi Sapienziali, di eruditi e specialisti del ramo tecnico. Io intendevo diventare come loro e fornire il mio contributo alla realizzazione dei Grandi Piani della Rinascita, i programmi scientifici più ambiziosi che fossero mai stati concepiti da una civiltà. Ed allora, quando mi capitava di immergermi nella vegetazione di quei luoghi paradisiaci gli ammonimenti dei vecchi si scioglievano come rugiada al primo tepore mattutino, la natura pareva sorridermi amica e solleticarmi l’animo coi suoi segreti, le fragranze cremose pennellate nell’ atmosfera. La menta selvatica aveva il potere di darmi una leggera vertigine. Amavo la menta selvatica e chissà - mi chiedevo - se erano riusciti a trapiantarla anche nell’area del laboratorio, se le creature ne conoscessero il profumo, se anche loro venissero prese da quella dolcissima fitta dietro le orbite che si andava poi ad irradiare negli interstizi più intimi della Dura Madre e da lì in tutto l’organismo, come un anfetaminico sparato nelle vene. Inalai a pieni polmoni e accelerai il passo dove le conifere si infittivano a tal punto da negarmi la possibilità di osservare il cielo e le fluttuanti traiettorie dei suoi folletti vaporosi: quattro nuvolacce malevole non sarebbero riuscite a rovinarmi la giornata - giuravo a me stessa.
La pianura cominciò intanto a degradare in un pendio leggero che pareva adoperarsi a fondo per fiaccare la mia tenacia. Ad ogni piè sospinto respiravo felicità purissima; mi sembrava di aver camminato a lungo, il pianeta nel frattempo doveva aver impiegato un quarto esatto del suo perenne ciclo attorno a se stesso. Nonostante la fiacca, le mie forze non davano segni di cedimento, ancora poche centinaia di passi e avrei avvistato il lato sud della grande recinzione metallica. Percepii le vibrazioni del bosco, il dolce ondeggiare delle felci giganti, il canto mite delle fronde e tante altre melodie che si conciliavano con gli echi di piccole bestiole laboriose. Quel posto mi pizzicava il cuore di emozioni e aveva il potere di farmi sentire bella, formicolante di desideri e curiosità. Nel bosco avevo tutto ciò che mi occorreva, nel suo grembo mi sembrava di tenere i sogni in una mano e i peggiori crucci si piegavano al cospetto di un ottimismo leggero. Nulla mi avrebbe portato a fondo, nell’abisso, dove le cose semplici si fanno oscure e impenetrabili: tutto insomma era a portata di mano e non v’era altro da fare che cogliere la vita e gioirne come un dono. Mi abbandonai alla dolce spinta del vento, contemplai la danza aggraziata delle foglie secche, le sentivo frusciare sulla punta delle orecchie, sulle spalle, sulle mani. Un tappeto di petali mi mostrava la strada. E finalmente raggiunsi il giardino proibito. Mi soffermai a perlustrare ogni particolare potesse tornare utile, un masso, un albero o un rovo amico che mi avrebbe fornito la copertura giusta per osservare senza esser osservata; poi mi decisi consumare un pasto frugale, mentre cesellavo nella memoria tutti i dettagli del paesaggio e dell’ostile barriera metallica. Pianificavo di tornare al più presto, oltrepassarla e avere finalmente accesso ai luoghi interdetti della riserva.
§§§
Non avevo ancora terminato di leggere questa lunga lettera quando subito ne giunse una seconda, una terza ed una quarta, a poche decine di minuti di distanza l’una dall’altra. Raccolsi insieme tutte le pagine delle quattro e-mail inviate in sequenza, senza far caso al tempo che scorreva veloce su quel fiume di parole concitate, impressioni e lucide immagini di un passato emerso dalle nebbie più remote della memoria.
Nelle successive comunicazioni Ohxen’im prese a raccontare di sé come di una adolescente. Descrisse inoltre con dovizia di particolari i tratti somatici di un giovane chiamato Coneh, con cui doveva esser stata in grande confidenza. Come mi aveva già riferito, questa figura amica non apparteneva alla sua infanzia, ma al tempo indefinito e sfuggente del suo sé sognante. Riprese dunque il racconto dal giorno successivo in cui si era recata a ridosso delle recinzioni della riserva situata in un’estesa area collinare.
Il dì seguente mi levai molto tardi, indossai abiti freschi di lavatoio e calzai un paio di sandali vecchi e comodi, con le cuciture a vista oramai consunte, agguantai la sacca attaccata a un gancio sulla parete e, in un attimo, mi ritrovai a sgambettare verso l’istituto didattico rionale, uno dei due di Tarhar A’Ru. Un tempo se ne contavano più di venticinque. A metà strada incontrai Coneh, pareva alquanto seccato per il ritardo. Lo salutai senza fornire spiegazioni per l’orario insolito e senza accennare alla sera prima. Il portone dell’edificio era sbarrato e cominciammo a correre, poi lo tempestammo di pugni, urlacchiammo scuse scontate per motivare il ritardo, finché le ante si schiusero un poco e lasciarono intravedere mezzo corpo di un donna dall’aria irascibile: <<Dovete finirla con questo fracasso! A quest’ora non vi faccio entrare.>> La posizione delle sue braccia lanose non lasciava adito a repliche.
Desistetti levando gli occhi al cielo, poi guardai Coneh in una supplica di perdono. Dopo aver compreso che da quell‘accesso non sarebbe passato neppure un corrazzato della milizia, recitammo una coroncina di epiteti, e prima di allontanarci, mandammo a farsi fottere il donnone scontroso e tutta l’istituzione formativa scolastica. Trovammo presto un poggianatiche su cui trascorrere il tempo quando già la prima fase didattica della giornata era andata a farsi benedire.
<<Quale strazio ci attende ancora? >> Feci a Coneh.
<<Non rammenti eh? Zucca vuota! Come farai a memorizzare le quindici tabelle video-didattiche del kher [Professor] Sholem?>>
<<Lasciami riprender fiato dannato saputello, crepo dalla fame.>>
<<Non hai mangiato niente prima di uscire di casa?>>
<<Magari ne avessi avuto il tempo.>>
<<Ho portato con me delle buone focacce>> Disse Coneh. Consumammo in silenzio le poche fette di companatico e alcuni dolci di miglio. Subito dopo scoppiammo in una risata.
<<Ma sì…Chi se ne frega di quello zoticone di Sholem. Al diavolo lui e tutti i suoi indottrinamenti del cavolo!>>
<<Facciamo due passi?>>Propose, certo di trovare una facile approvazione. <<Ed ora sputa il rospo. Come è andata ieri sera? Li hai veduti?>>Mi chiese con impazienza .
<<Mmh…Ho davvero troppa fame per riempirmi la bocca di sole parole. >> E così dicendo mi massaggiai lo stomaco. Con riluttanza lui cedette e mi offrì le sue focacce.
Le lezioni trascorsero lente fino al segnale dell’intervallo, poi ci recammo alla mensa. Al termine dei masticamenti, ci attardammo a conversare dei futuri impegni, dei sogni irraggiungibili e dei rispettivi scampoli di tediosa routine familiare. Gli argomenti più banali fornivano un ottimo pretesto per stare insieme. A vederlo, questo affezionato compagno, non differiva poi tanto da altri coetanei, se non nella maniera in cui contemplava il mio profilo o nel tono di voce con cui cercava di attirare l' attenzione. Egli rappresentava per me tante cose piacevoli, come il divertimento o la complicità. Era a quel tempo un adolescente prestante, con la zazzera birichina che si poggiava sui lineamenti del volto pulito. Se avessi per caso incespicato in quegli occhi scuri, resi più dolci dalla fiacca digestiva, avrei colto i versanti meno esposti della sua immaginazione. Ma non lo feci. Mai mi soffermai su quel respiro ruvido che trasudava emozioni pulite, o sul rossore d'imbarazzo con cui imprigionava i gesti più banali in un guscio di tenera goffaggine. Insomma non pensavo quasi mai a lui se non per farlo partecipe delle mie mascalzonate, soprattutto quelle che andavo progettando ad insaputa dei miei vecchi e del mondo intero. Coneh non faceva parte né dell’una né dell’altro, non potevo quindi lasciarlo all’oscuro.
<<Un bel buco. Ecco che ci vuole! Dovremmo riuscire a scavare un passaggio in pochissimo tempo e superare la recinzione. Ieri ho tracciato una mappa. Ce l’ho tutta qua dentro.>> Ammiccai, picchiettando il dito sulla tempia.
<< Ho individuato un accesso sicuro, lontano dagli occhi dei vigilanti. Il problema è quella maledetta rete, piuttosto. Ho pensato che tornerebbe molto utile un’elettro-vanga.>> Coneh non avrebbe sperato in nulla di più facile per compiacermi.
Con orgoglio si fece carico dell’impegno.<< Me ne occupo io. Considerala cosa fatta.>>
<<Scaverei là sotto perfino con le unghie.>>Ammisi, con mimica esplicita. <<Rimane da decidere il tempo giusto per superare la recinzione.>>
Sorseggiai la mia bevanda quindi, con una fermezza che non andava cercando pareri, esposi i miei piani:
<<Ci muoveremo al sopraggiungere del vespro. A quell’ora l’intero settore sarà deserto, eccezion fatta per le ‘creature’ e qualche volatile insonne.>>
<<Già, non sarà difficile rintracciarle. Sappiamo che durante la notte si ritirano nei pressi del ruscello, nel quadrante ovest dell’area. Ah, se potessimo conoscere in anticipo la tabella dei controlli giornalieri.>> Disse sconsolato.
<<Roba non da poco.>> Aggiunsi.<< Lo studio sul campo non prevede pause perché i ricercatori devono registrare il maggior numero di informazioni possibili, ma io so che alla sera, almeno una volta ogni dieci aurore, l’intero settore viene presidiato da un piccolo drappello di addetti alla sicurezza. Non sospetteranno mai della nostra presenza. Dovrò comunque indagare a fondo: mio padre Khaled è sempre prodigo di chiarimenti e informazioni quando fingo di interessarmi al suo lavoro.>>
Coneh si sfregò le mani: <<Sarebbe un bel colpo avere certi ragguagli. Se avessimo modo di utilizzare gli specchi mimetici potremmo scoprire un mucchio di altre cose interessanti.>>
<<Puoi immaginarlo?>> Gli dissi. <<…Spiare quegli esseri quando si scambiano effusioni. O tenere fra le braccia i loro piccoli...Credi ce lo concederebbero?>>
<<Certamente. Appena si riprodurranno non ci faremo sfuggire l’occasione. E magari riusciremo perfino ad osservarli mentre si accoppiano.>> Coneh si rese conto del mio disagio, non aveva mai pensato di spiare le creature in un momento così intimo. Perché gli era scappato di bocca proprio ora?
Le sue pupille incandescenti caddero sulle mie. Finsi indifferenza e cominciai a fissare un punto indefinito sulla parete, concentrando sull’ insignificante bersaglio ogni particolare mi tornasse in mente, cercando di prevenire eventuali intoppi o di escogitare il miglior percorso possibile una volta dentro la riserva. Apposta, il giorno prima, avevo speso molto tempo dietro quel cespuglio.
L’oggetto che accendeva il nostro entusiasmo faceva parte del ceppo Mda 45, un genotipo di ultima generazione piuttosto sofisticato. Nessuno prima di lui era stato esaminato tanto a fondo in ogni specifica fase della crescita. Le procedure di collaudo avevano fornito dati incoraggianti. Con la loro progettazione, avvenuta molto tempo prima, si erano poste le basi sperimentali per il ripopolamento del pianeta e da questi tentativi aveva preso corpo la prima fase del Progetto della Rinascita, un disegno ambizioso ideato allo scopo di generare campioni altamente prolifici con cui far fronte alla piaga del calo demografico.
La riduzione del tasso delle nascite si era verificata molte altre volte, ma non aveva creato squilibri tali da compromettere l’incremento della popolazione. Improvvisamente, all’alba dell’ultima era, quella antecedente al quinto evento catastrofico planetario*, gran parte degli abitanti delle regioni più popolose del pianeta avevano cominciato a manifestare un declino di fertilità assai più critico che in passato. Al principio la genesi della super-specie era andata incontro a molte difficoltà tecniche, derivate per lo più da effetti collaterali successivi al processo di ibridazione indotta; i primi esperimenti sulle razze potenzialmente compatibili avevano portato i ricercatori a conoscenza del fatto che, per via naturale, si sarebbero potuti generare solo individui sterili. Questo handicap aveva reso necessaria la cooperazione fra i migliori genetisti dell’Amadah e i medici chirurghi del ramo trapiantologico. Attraverso un intervento multidisciplinare essi avrebbero tentato un primo innesto tissutale (di organi riproduttivi) da un esemplare di femmina fertile a uno sterile, derivato per l’appunto dall’ ibridazione. Lo scopo era quello di ottenere da un individuo infecondo, uno capace di accogliere in grembo un ovulo inseminato artificialmente e di portarlo a maturazione fino alla gestione completa della gravidanza. Questi fatti erano noti a tutti in quanto negli ultimi tempi erano diventati una priorità per la martellante propaganda delle rappresentanze di governo.
§ § §
Quando terminai di leggere questa lunga sfilza di missive, erano le quattro e mezza del mattino. Mi preparai un robusto caffè e senza perdere un istante provai a focalizzare meglio alcuni dubbi lasciati insoluti nella prima, frettolosa lettura. Rimasi incuriosito dalla figura del genitore della donna, dalla qualità del loro vincolo parentale. Avrei così potuto sapere qualcosa di più riguardo la sua famiglia di provenienza.
Determinati elementi non si possono indagare in modo troppo palese, per non intaccare il carattere di necessaria spontaneità richiesto al paziente. Il mio ruolo non doveva dettare i tempi e non poteva determinare il solco della deposizione. Le scrissi allora poche indicazioni che lei sarebbe stata libera di seguire, oppure no.
“Gentile Ohxen’im,
se la sente di parlarmi ancora di suo padre?
Vorrei comprendere meglio le mansioni
e le responsabilità del suo importante
impegno scientifico”
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