domenica 21 maggio 2023

Spalla d'artista

 Tratto dal romanzo 'La Madonna del latte'


    Prima del suo arrivo avevamo suddiviso il locale nel seguente modo: a Bob avevamo concesso uno spazio complessivo di venticinque metri quadrati, diviso per due terzi da una tenda semirigida, una specie di porta a soffietto dietro cui si nascondeva una poltrona-letto. Lui non faceva che scrivere, pertanto non sembrava provare disagio per la precarietà della sistemazione. Era soddisfatto anche in assenza di luce, elemento che invece risultava prezioso e irrinunciabile per Brad e, come più tardi avrei scoperto, anche per Luna. Tuttavia la necessità di un giaciglio che altrove non avrebbe potuto permettersi, ci persuase a lasciargli tutto lo spazio che voleva. Quel locale era infatti per lui un ricovero, uno studio e un luogo di incontro. Le tristi vicende coniugali l’avevano lasciato al verde e senza un posto dove poter proseguire, con un briciolo di decoro, la propria esistenza. La sua ex-consorte non sembrava voler comprendere che anche senza di lei egli avrebbe dovuto abbigliarsi, nutrirsi, ripararsi dalle intemperie e dalla invadenza della civiltà e, di tanto in tanto, gli avrebbe giovato anche riposare. Col pretesto del mantenimento dei figliuoli ella vampirizzava le poche risorse di cui poteva disporre.

Gretha non aveva bisogno dei suoi denari ma lui insisteva lo stesso affinché non vi rinunciasse. Temeva il giudizio postumo dei figlioli e temeva che un giorno l’avrebbero potuto vedere sotto altra luce e tacciarlo di ostentato menefreghismo nei loro confronti. Avrebbe percepito i loro rimproveri come una colpa, una fuga dalle responsabilità. Per sé non teneva niente: viveva della carità di coloro che gli erano amici e così ogni mese prendeva il volo parte consistente del fondo cassa che avevamo in comune. Ma dopo tanto pena, era davvero un sollievo vederlo tirare il fiato. Quanto respirava bene il caro Bob senza assilli e quando i suoi polmoni si rigonfiavano della brezza giusta il suo talento si dipanava in una carezza vorticosa e instabile come una corrente ascensionale, come l’alito stesso dell’immaginazione. Lui sosteneva che, nonostante tutto, di volare non aveva mai cessato. Nemmeno quando faceva vita di clausura fra le quattro mura domestiche. Tutti noi però lo conoscevamo bene, sapevamo che il suo volo era come quello della mosca. Per riuscire a sopravvivere in quel clima greve, egli diceva infatti di essersi fatto piccolo e insignificante, proprio come un  insetto. Povero Bob!

   All’epoca non avrebbe ammesso le sue tribolazioni con nessuno, ma noi avvertivamo ugualmente nei suoi silenzi i segni di un disagio esistenziale e sapevamo bene che per l’uomo che si fa mosca qualsiasi donna diventa appiccicosa come carta moschicida. Fortunatamente la trappola in nevrosi e gonnella in cui si era infilato non gli risultò fatale e lui, che mosca non era, trovò la maniera di sottrarsene. La sistemazione ricavata nello studio era modesta sebbene a lui sembrasse più sfarzosa di una reggia. Non si trattava di una topaia, questo no, ma neppure era un maniero questo nostro locale. Anche se avesse trovato qualcosa di peggio sono sicuro che avrebbe fatto in modo di farselo bastare, dignitosamente, senza piagnistei e senza recriminazioni, com’era nel suo stile. Possedeva un animo poco incline alla lamentela: assolutamente amabile, peccato che la sua personalità celasse anche anfratti più spigolosi, visibili solo ai pochi che lo frequentavano assiduamente. Nondimeno, da che mondo e mondo, l’artista ha da esser duro. Egli ti vede per ciò che sei, senza veli o mascherature, senza l’imbruttimento dei patimenti che ti dannano la vita. A stento nella testa d’artista alberga pietà o un incongruo senso di partecipata commiserazione. E chi, nella speranza di una facile conforto, cerca in lui un ricovero per lenire crucci terreni, sbaglia di grosso. E sbaglia male, perché quello, come un bambino, ti dirà sempre come effettivamente stanno le cose e come effettivamente stai tu … Dentro. Se cerchi allora il confortante sostegno di una spalla amica, un approdo sicuro su cui riversare la spremuta di lacrime dei tuoi ordinari travagli, io ti consiglierei - e vivamente - di non soffermarti mai su una spalla d’artista, perché in essa, più che sollievo, troverai più facilmente la roccia. V’è forse compassione nel granito? In esso dimora piuttosto l’energia viva e compatta della terra. Ed alla terra dovrai tornare per sopravvivere alla tenacia della pietra o del ferro, alla inalterabile consistenza dell’acciaio. L’ipocrita ignaro che riposa in te abbisogna d’una spada? L’artista sarà allora la tua spada! oppure sarà il tuo tormento e il tuo martirio, l’incubo fratello che ti mette sull’avviso e ti raccomanda: la vita è Vita o è solo un brutto sogno!

Se però ti allevia indugiare nella tenebra del pianto, rimani pure stretto al caldo abbraccio di una narcosi ignara. Non cercar spalla (virtù) d’Artista, dammi retta. Egli è senza compassione, se non l’hai capito. E’ duro! E duro era Bob. Inflessibile e brutale, inamovibile e risoluto, se si trattava di darti una mano. Per questo gli era dovuto il rispetto assoluto che si concede solo agli autentici; e per questo chi l’amava non poteva tradirlo. Compresi allora quanto è impervia la strada dell’artista.

Solo al momento in cui lo studio si svuotava dai suoi eccentrici visitatori, e ciò non accadeva mai molto prima dell’alba, Bob rimaneva in completa solitudine. Solo allora avrebbe potuto finalmente schiacciare un pisolino, eppure, posto che fosse sfinito per davvero, non mi pare lo facesse mai. Non davanti ad estranei perlomeno. Il più delle volte non riposava affatto, né sembrava sul punto di farlo. Non mi capitò mai di vederlo abbassare le palpebre rese pesanti dai fumi dell’alcool o della marijuana, o di lasciarsi cullare dal trambusto perché Bob, nella sua insaziabile curiosità, non sembrava voler perdere una sola sillaba o un solo racconto fra i tanti, veri o falsi, che bocca d’uomo potesse pronunciare nel volger di una notte. E avrebbe di sicuro desiderato appropriarsi anche delle parole dette in sua assenza perché tutto per lui era fonte di novità e gioia. Ogni volta che le conversazioni di circostanza declinavano nelle storie di tristi vicende e vicissitudini di quella fetta di umanità che conosce solo sconfitte, la sua attenzione si faceva fluida e sgusciante come mercurio. Al fine settimana, poi, non ci sognavamo di lasciarlo in pace se non dopo le quattro del mattino. Solo a quell’ora riponevamo le apprensioni della giornata in un cassetto e lasciavamo assopire i nostri spiriti, sfibrati dalle inevitabili consuetudini della convivenza civile. E lui, che della civiltà se ne fregava, lasciava fare e neppure pareva voler recriminare su quel sonno andato perduto. In certi periodi, il nostro Bob, appariva demoniaco, quasi fosse pungolato sotto la coda dal forcone di un essere malvagio ed invisibile. In quelle occasioni egli eccedeva. Qualunque cosa facesse, eccedeva senza freno. Esuberava vita da ogni minima particella mitocondriale, da ogni singola cellula del corpo ed era facile si trascinasse anche un po’ oltre. Non sempre queste sue ridondanze si raccoglievano in un concentrato di vigore positivo, non sempre suscitavano l’ approvazione incondizionata del prossimo, persino da parte di chi l’amava. Ciononostante egli era vivo! Un formidabile anfetaminico naturale che fa omaggio di sé ad un mondo esangue, difficilmente generoso, difficilmente magnanimo ma facilmente pronto a sputar sentenze e accuse... Il mondo sputa sempre addosso alla bellezza e piscia senza alcun riguardo sui boccioli di rosa. Dare un letto a Bob era come offrirgli un vaso, un piccola zolla di terra dove far levare al cielo un tenero stelo. Un giorno mi confidò che tutte le robe di cui facevamo uso noi, su di sé non portassero alcun effetto. Eppure era difficile crederlo, specie in certi momenti. Lo credevamo schiavo di un dispositivo speciale innestato sottocute che si azionava imprevedibilmente e gli inoculava in vena una prodigiosa miscela di eccitanti e allucinogeni per poi riconsegnarcelo perfettamente carico, magnificamente disponibile ad ogni pazzia.. Mio Dio quanto scriveva il nostro Bob in quei periodi, e lo faceva maledettamente bene, oltretutto.

Se mai avesse preso della roba di nascosto, non lo scoprimmo mai, sebbene a me pareva lo facesse per davvero. Durante la notte lo vedevo spesso scrivere; solo ai primi chiarori si ricordava di riposare. Tic-tac-tic-tac, ticchete tic e ticchete tac, quel vecchio attrezzo sferragliante che chiamava macchina da scrivere, certe notti non aveva pace. Nella semioscurità scandiva il suo ritmo indiavolato, un tambureggiamento senza pause e senza coscienza del trascorrere delle ore. Temevo, un giorno, dover sottostare alla necessità di dover condividere quel modesto giaciglio con lui. Mio dio! Che supplizio sarebbe toccato alle mie orecchie. Bob avrebbe preferito scrivere, piuttosto che respirare. Le sue dita, agili e affusolate, torturavano i tasti neri incapaci di una remota forma di  commiserazone, costringendole e costringendosi a forsennati balletti che non sempre si riscattavano in un lavoro degno di lode. Non era detto dovesse incantare ad ogni costo. Le sue narrazioni potevano declinare in un'altamarea di noiose corbellerie che di tanto in tanto si aprivano in scampoli di lussureggiante saggezza. Non si poteva mai sapere dove sarebbe andato a parare…ma per quel poco che poteva elevarsi sopra un mucchio di inusitate sciocchezze, vi dico per quel poco che poteva partorire il suo estro mefistofelico, per Dio! con quel “poco” ci si poteva veramente rimpinzarsi lo spirito e sopravvivere a lungo, perfino con la merda di vacca alla gola.


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