lunedì 29 gennaio 2024

Lezione sulla meccanica aristotelica. Da un convegno di Giorgio Israel. ( Terza ed ultima parte )

 Segue dalla precedente


Analisi delle due leggi
[ 40: 22 ] 

Se ora enunciassimo sia la legge della dinamica dei moti naturali che la legge della dinamica dei moti violenti, vedremmo immediatamente come non sia possibile enunciare una legge diversa dai moti che sia però analoga a quella newtoniana F = ma. Nello schema a sinistra leggiamo che la velocità (media) V di caduta di un corpo è proporzionale al peso P del corpo stesso, e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo (Con k costante di proporzionalità) V = K ( P/R ).
Nello schema a destra leggiamo che, una forza costante F su cui agisce un moto uniforme la cui velocità (media) è direttamente proporzionale alla forza impressa e inversamente proporzionale al peso del corpo I , sotto la condizione che              F > I (Con  k costante di proporzionalità )  V = K (F/I).
Senza la condizione F>I , questo enunciato potrebbe non avere alcun senso . Aristotele osserva infatti che la relazione vale, cioè che il fenomeno risponda alla legge enunciata, quando la forza motrice (F) è capace di spostare il peso ( I ) del corpo (dunque la resistenza data dal suo peso), altrimenti non potrebbe esserci spostamento. Egli afferma - infatti - che una forza A capace di spostare un corpo B in un certo spazio e in una data quantità di tempo, può far compiere a un corpo che sia la metà di B una distanza doppia nello stesso tempo. Non è detto, però, che la forza riesca a far muovere un corpo di massa e peso doppio di B per una distanza pari alla metà, proprio perché, egli scrive testualmente, in tal caso un solo uomo sarebbe capace di spostare e mantenere in moto un'intera nave. Vediamo quindi (Aristotele riesce qui ad essere molto concreto nella sua spiegazione e non trascuri affatto l'attrito) che potremmo scrivere il tutto introducendo una costante di proporzionalità (K) che indichi V = K
 che moltiplica F/I : V = K (F/I). Se ora volessimo unificare queste due leggi come caso particolare, dovremmo indicare F e P come due forze agenti sul corpo ed I ed R , come due forme di resistenza del mezzo 
V = K( P/R) ; V = K (F/I) 
ottenendo una legge unificata: K (F/R) , ovvero, F = h RV , che evidenzia la proporzionalità fra la forza F e la velocità V. Questa sarebbe dunque la famosa legge sbagliata imputata ad Aristotele che si differenzia dalla proporzionalità di forza e accelerazione (Newton).  Svolgere tuttavia un simile passaggio, cioè l'unificazione delle due leggi, non è corretto, mentre rimane altresì fondamentale mantenere la distinzione fra moti naturali e moti violenti, poiché nei primi ( I moti naturali), il peso non è una forza esercitata dall'esterno sul corpo, ma è un principio di moto intrinseco dovuto alla natura del corpo stesso (quindi intrinseco alla forma del corpo) che lo conduce al suo 'luogo naturale'. Nei secondi (I moti violenti) il peso è un agente sul corpo che è un motore congiunto, e qui il peso ha funzione di freno [ 45:01 ] sul moto, pertanto qui il peso non è assolutamente un caso di motore congiunto esterno, di quelli che producono un moto violento, poiché, in definitiva le due leggi sono e devono rimanere distinte ed ogni tentativo di unificazione teorica è privo di senso. Per essere più precisi, la funzione del peso è, nei due casi, molto differente: primo) nei moti naturali è (come detto) un agente del moto, espressione della sua forma sostanziale; secondo) nei moti violenti è un ostacolo al moto e da esso , dal peso, dipende l'attrito, ossia, l'inerzia, che è la tendenza di 'rimanere a riposo '.  Per questo motivo abbiamo usato simboli diversi anche in questa rappresentazione simbolica. Nel caso dei moti naturali il peso è P (principio intrinseco di moto); in quelli violenti il peso è I (Tendenza all'inerzia).                                                                                                                                                                                                 In definitiva, non è corretto parlare di una sola legge fondamentale della dinamica aristotelica, e non è corretto contrapporla , come legge unica, alla legge delle dinamica di Newton. Dunque, F = h RV non si può definire contrapposta a F = ma (Newton) [46:16]. La contraddizione non esiste, perché il tentativo di unificare le due distinte leggi aristoteliche è viziato dal significato moderno attribuito al concetto di forza e di inerzia [46:33], uso che - come ampiamente ripetuto - è assente nella visione aristotelica propriamente detta. Nella meccanica aristotelica , insomma, l'inerzia non è qualcosa che si riferisce a tutti i tipi di moto (Sia gli stati di movimento che quelli di quiete) , viceversa questo ruolo dell'inerzia (quella cioè riferita a tutti gli stati di moto), rappresenta in cuore della concezione dinamica newtoniana (Meccanica classica). L'idea che uno stato di moto persista quando non viene modificata la causa esterna (esattamente come lo stato di quiete) è totalmente estraneo alla meccanica antica ( Aristotelica), mentre è la meccanica classica che mette sullo stesso piano sia gli stati di quiete che gli stati di moto. Per Aristotele, allora, tutto ciò che si muove lo fa per azione di un altro motore e quando questo cessa di agire ha termine anche la virtù di muoversi ( virtus moventi ) e il moto ha termine. Si può anche dire che la caratteristica del moto violento è proprio quella di cessare e di avere perciò una durata limitata nel tempo per esaurimento della causa motrice. Ci soffermeremo adesso sulla questione del principio d'inerzia, anche perché esso ha introdotto il grossolano equivoco di attribuire al filosofo di Stagira la formulazione del principio d'inerzia. Se andassimo a consultare un preciso passaggio contenuto nel secondo libro della Fisica aristotelica, potremmo  erroneamente concludere che, effettivamente, Aristotele abbia formulato il principio d'inerzia; tuttavia dalla contestualizzazione del brano in questione, si può capire il fraintendimento. Ecco dunque il testo del brano:
" E' impossibile dire perché un corpo che è stato posto in movimento nel vuoto dovrebbe fermarsi in un posto anziché in un altro. Come conseguenza, esso resterà necessariamente in quiete o, se è in moto, si muoverà indefinitamente finché un qualche ostacolo non entri in collisione con esso".  (Aristotele, II° Libro della Fisica.) [49:09]
Il riferimento al vuoto - dice Israel - ci avrebbe già dovuto mettere sull'avviso, poiché l'attenzione di Aristotele è rivolta indubitabilmente a questo problema. Secondo quanto detto finora, in effetti, potremmo concludere che quello enunciato sia proprio il principio d'inerzia, tuttavia, è esattamente l'opposto del principio d'inerzia, difatti, Aristotele lo usa per negare la possibilità del vuoto. (Implicitamente, cioè, il corpo non viene inteso come immerso nel vuoto, è sottinteso che vi sia sempre una qualche forma di attrito - magari dell'aria - che fa da ostacolo. Egli parte dunque dalla premessa che nessun moto terrestre possa durare all'infinito. Ben diverso è il caso del moto circolare  , delle sfere celesti, le quali, non trovandosi sulla terra ma facenti parte del mondo super-lunare, ruotano sì all'infinito ed in modo armonico 'e regolare' (Oggi sappiamo non sia esattamente così ma, dato il periodo, il concetto può passare pure per buono) ;  d'altra parte tutti i testi di Aristotele sono pieni zeppi di tentativi alla ricerca di una dimostrazione  dell'inesistenza del vuoto assoluto. Non v'è dunque alcun dubbio rispetto le convinzioni di Aristotele, per il quale il vuoto non poteva esistere. Ne conseguiva che ogni moto sulla terra era soggetto a ostacoli dovuti all'attrito [50: 10]. 
Lo spazio aristotelico, quindi, non è il nostro spazio, quel luogo cioè che siamo abituati a concepire come un contenitore vuoto (Metafisica), geometrico ed astratto, nel quale   i corpi materici 'galleggiano', lo spazio di Aristotele è l'insieme dei corpi. Il 'luogo ' di un corpo non è , pertanto, uno spazio delimitato da una griglia di coordinate cartesiane (Definizione moderna) , ma - aristotelicamente parlando - il luogo di un corpo è il minimo corpo che lo contiene, così come la botte per il vino. Anche il contenitore è un elemento materiale. Notiamo che questa definizione di spazialità è strettamente legata all'idea di finitezza della materia e della inesistenza del vuoto, così almeno le cose sembrano essere sulla terra. Oltre di essa, nel cosmo superiore, i moti celesti non rispondono a tali caratteristiche , essi tracciano infatti traiettorie circolari e illimitate nel tempo. Essi, estranei alle dinamiche e alle leggi del mondo sub-lunare, si svolgono allora in coerenza con le figure perfette della geometria euclidea ma per Aristotele non rispondono alla concezione che le vuole infinite. Le rette delle traiettorie, infatti hanno lunghezza limitata , altrimenti il corpo in movimento non raggiungerebbe mai il suo status (O 'luogo naturale'). Ricordiamo che il mondo sub-lunare, è composto dalla quaterna elementare : fuoco, acqua, aria , terra, mentre nel mondo super-lunare è presente una quinta sostanza (Quintessenza) detta Etere, la quale verrà indicata con poche varianti sostanziali, anche nella fisica dell' Ottocento [53:30].
L' Etere non è soggetto alla forza di gravità, esso infatti è leggero. Non si altera o modifica in alcun modo e ciò fornisce per Aristotele e i suoi contemporanei, il motivo per il quale i moti celesti sono inalterabili e circolari. Essi violano dunque il principio di cessazione del moto terrestre. L'andamento continuo/perpetuo  di questi corpi caratterizza la dinamica delle sfere planetarie che sono 'Atti puri', prive di potenzialità ed eternamente mobili. E ciò, ancora una volta, sancisce che nel pensiero aristotelico la separazione del mondo terrestre e di quello celeste è insindacabile. Il primo è il mondo del imperfetto, mutabile e corruttibile, il secondo  è l'esatto contrario del primo. Aristotele riprende l'idea platonica dei moti planetari e preserva i carattere perfetto dei moti circolari, pensiero che dominerà la cultura scientifica europea fino al Seicento e dominerà con tale forza fino agli studi di Galileo che, tuttavia, non saranno sufficienti a far cadere nell'immediato, le convinzioni precedenti. Galileo avrà , sicuramente maggior peso più avanti con le ricerche di cinematica e con la nuova raffigurazione di un cosmo non più geocentrico, benché non modificherà la geometria dello spazio il quale, anche dopo di lui, rimarrà confinato nei limiti dello sferico, del limitato. Le rette delle traiettorie, infatti, continueranno a considerarsi finite , così da non farle uscire dai confini del cosmo. Sarà Newton, altresì , a parlare di universo aperto e infinito, illimitato e di struttura cartesiana. 

capisaldi del pensiero aristotelico:
- Tutto ha termine (Il celebre: 'Tutto si tiene')
- Il vuoto assoluto, non esiste.
- L'infinito non è contemplato e non esiste un luogo senza un termine naturale.
- Ogni cosa deve alfine raggiungere il suo 'luogo naturale'.                                             

Lezioni su Cartesio.
   Anche Cartesio (Descartes) fornisce un'immagine geometrica dell'universo. Anche lui tocca i rapporti fra matematica e fisica. Scriveva Alexandre Koyré (Storico e filosofo della Scienza): 'Nessuno mette in dubbio il valore intrinseco della matematica e della geometria.' 
  Tutti i filosofi perciò, Aristotele compreso, hanno considerato e ammesso che il rigore e la certezza che implicano le leggi della geometria possano spiegare il mondo e perciò la stessa natura fisica dell'universo. Aristotele ci dice che il rigore della geometria si occupa però di fenomeni 'astratti' , i cerchi e le rette non sono quindi, reali, ovvero non sono figure fisiche vere. La geometria è dunque una scienza astratta, distante dal reale che non è mai preciso, né regolare. 
 L'ipotesi galileiana che il mondo fisico sia riconducibile alla matematica, è  pertanto solo un'ipotesi, convalidata tuttavia, da successi indiscutibili. Anche se la storia ha dimostrato quanto funzioni la rappresentazione geometrica del mondo, essa è pura metafisica, mentre una scienza che si poggia sui sensi, come postulato da Aristotele , non può essere metafisica. La scienza di tipo cartesiano, invece, non può fare a meno di una visione metafisica delle cose. Che il mondo e l'universo siano entità matematiche, è dunque un principio metafisico, fermo restando che questo tipo di concetto abbia portato successi dal punto di vista del calcolo geometrico, di tempi e traiettorie. Cartesio, come Platone prima di lui, sapevano bene queste implicazioni, ma sostennero l'impostazione metafisica, nello studio del mondo reale. La scienza moderna, che da questi prende l'abbrivio, si sfama dunque dei suoi successi senza preoccuparsi della crisi dei suoi fondamenti prima o poi porterà a delle contraddizioni . Quindi, dice ancora Koyré: 'La crisi della scienza moderna verrà superata solo quando essa si farà carico della contraddizione insita nei suoi fondamenti concettuali e comincerà a cercare modelli coerenti con essi.' 

Il successo della fisica newtoniana può essere compreso nella previsione dei cicli cosmici (brevi), o fenomeni come eclissi, influssi gravitazionali, o altro ancora, ma sempre entro distanze planetarie modeste e tempi tarati sul ciclo di vita umano. Aldilà dei tempi brevi, però, quelli in cui  la rappresentazione geometrico- matematica può essere applicata al cosmo con successo, il calcolo predittivo diventa fallibile. Se infatti considerassimo tempi lunghi (In rapporto all' uomo e alla durata della sua vita),  e quindi se parlassimo di tempi e spazi dell'intero ambiente cosmico, la previsione newtoniana fallirebbe le sue previsioni e ciò deve portare dunque a una rivisitazione dei principi e dei concetti di natura metafisica di cui abbiamo detto, e che  - ribadisce ancora professor Giorgio Israel - non fanno parte del pensiero aristotelico.  


Fine trascrizione.  

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