mercoledì 9 febbraio 2022

Romanzo




                                                Prologo



Gentile Dott.  F,

    vi scrivo in un momento drammatico. Il mio capezzale è distante dal vostro studio, troppo distante nello spazio e ancor più nel tempo per sperare di potervi ricevere prima di esser morta. Vi chiedo solo di ascoltare la mia storia, portarmi conforto e garantire che la mia versione dei fatti possa raggiungere un’epoca della cui esistenza non posso che nutrire speranze. Tengo in particolare che mi  parliate un po’ di  questo vostro mondo, delle usanze e dei suoi costumi, ma soprattutto delle  genti e della civiltà che in esso hanno convissuto nel corso dei secoli. E’ un luogo felice o vi prosperano odio e rivalità?  Perché ve lo chiedo?  Vi starete domandando. -  Già:  perché?

   Se vi rispondessi che le mie son naturali premure di madre, non capireste. Pensereste di  aver a che fare con una pazza, perlopiù malata e moribonda.  Ed allora non ve lo dirò! Non ora. Non adesso. Forse in seguito comprenderete, ma per farlo dovrete disporvi all’ascolto, o alla lettura delle parole dell’ unico testimone  vivente  di una grande storia.

 

     Ohxen’im bat Asherah 


      §  §  §

  

    Di solito non ricevo grandi quantità di corrispondenza e quindi non ho l’abitudine di consultare la casella di posta elettronica. Da almeno quattro giorni ristagnava infatti una comunicazione solitaria, il cui mittente non pareva appartenere alla ristretta cerchia delle frequentazioni abituali e nemmeno a quella, altrettanto limitata, dei miei pazienti. Diviso a metà fra la consueta indolenza da fine settimana e la curiosità sbrigativa del mio temperamento impiccione, mi decisi a leggere e, in poche battute, a rispondere con garbo a quella missiva. 

    Come primo approccio inviai al mittente alcune semplici domande,  tanto per sapere se si trattasse di una vecchia conoscenza o di una persona che, solo dopo aver conferito con un mio paziente, si fosse decisa  a scrivermi. Di una cosa ero arcisicuro: un nome del genere non l’avevo mai sentito e neppure avrei avuto la necessaria fantasia per immaginarlo di sana pianta. Il contenuto della lettera mi trasmise ovvie curiosità. Incerto sul da farsi invitai la misteriosa donna a spiegarsi meglio, così da consentirmi di acquisire informazioni più precise sul suo conto. 



Gentile Sig.ra Ohxen’im bat Asherah, mi chiedevo 

come avesse avuto il mio recapito telematico, 

dato che non credo di averla mai conosciuta; tuttavia 

ciò non cambia di una virgola la mia disponibilità.

Potrei combinare un incontro con lei e riceverla

 nel mio studio domani stesso, ma suppongo non 

 sia nelle condizioni migliori per affrontare un

    viaggio. Le chiederei quindi di procedere con 

calma e di riprendere la sua storia dall’inizio.

 Non trascuri particolari e non si ponga

 limiti di spazio, proceda pertanto incominciando il                                                                                                                  racconto dall’inizio, dal suo primo ricordo e proceda pure speditamente.”


     

   Scrissi poche righe, intuendo che una simile vicenda avesse un principio lontano e che la donna che si era presentata col nome di Ohxen’im, soffrisse da tempo di disturbi dovuti a visioni notturne molto simili a sogni o, forse, di natura alquanto diversa. Dall’altra parte l’invito venne raccolto senza alcuna titubanza. Da quel momento in poi mi qualificai come dottor Effe. 

   Ricevetti la risposta appena un paio d’ore più tardi e già, fin dalle prime righe, avvertii nelle sue parole un repentino cambio di personalità: quella che all'inizio mi era sembrata una donna matura, si era calata nei panni di una giovane, forse un’adolescente. Mi ritrovai confuso, sebbene non di rado i miei pazienti saltano da una situazione all’altra senza curarsi di seguire un ordine cronologico, o un eloquio regolare. Rammentai però che fui proprio io a chiederle di riprendere il filo della storia dall’inizio e fui persino molto magnanimo nel concederle la possibilità di dilungarsi, senza imporre limiti di sorta, secondo una prassi clinica volta a garantire tranquillità. Lei non fece altro che attenersi alle mie indicazioni, senza alcun preambolo, senza ulteriori chiarimenti.


   

                                                    §  §  §

e-mail  n° 2

 

   La ringrazio per l’invito. Apprezzo la premura e la delicatezza mostrata nei miei confronti, vale a dire nei confronti di una perfetta sconosciuta. Dovrei presentarmi, lo so, e fornire i miei dati anagrafici, però al momento avrei soltanto bisogno di parlare un poco con qualcuno che sappia rispettare la mia esigenza di riservatezza. Perdoni, dottore, la mia pretesa. 

    Posso dirle che da qualche tempo ho cominciato a sognare in maniera assai realistica e che queste visioni mi hanno trasmesso forti turbamenti. Non chiedo che  essere aiutata a vivere serenamente gli ultimi giorni della mia esistenza terrena. Conosco la sua professionalità, per questo motivo ritengo che potrebbe concedermi un insperato  sostegno psicologico.

  Queste visioni insolite, insomma, sono iniziate pochi mesi fa e da allora non si sono più interrotte. Nel sonno  vedo immagini  che non appartengono a ricordi recenti e nemmeno lontani: forse non appartengono neppure al mio vissuto;  ciononostante tutto intorno a me scorre in maniera tanto chiara da  farmi smarrire gli appigli  con la realtà. Con la realtà di  questa parte, che è la nostra.

  Le prime volte che mi capitava di fare tali sogni non riuscivo a mantenerne la memoria, finché  i paesaggi presero forme familiari, i volti delle persone che ero certa di non aver mai veduto prima, cominciarono a trasmettermi sensazioni rassicuranti e poi, un giorno, al primo risveglio dopo periodi di totale confusione, mi parve tutto estremamente più preciso, più logico. 

   In uno dei primi sogni procedevo spedita su una strada polverosa, ero forse in un bosco e davanti a me ruscellavano  le acque allegre di un torrente posto a confine di una regione vibrante di mistero. Mani esperte sembravano aver ritratto la natura col rigoglio dei grandi arbusti ghiandiferi o con la monumentale autorità dei fitotitani dal fusto largo fino a dieci cubiti. Non so perché  continuo a chiamare tali alberi con quel nome assurdo. So solo che, dall’altra parte (nell’immaginazione onirica) mi sembra tutto perfettamente inserito in un contesto riconoscibile benché, strano a dirsi,  avulso  da riscontri reali. 

   Superai così quel  fiumiciattolo, con l'acqua alla vita,  facendo attenzione a non bagnare lo zaino. Quante volte, da bambina, un  luogo simile era stato teatro dei miei giochi. Però in quell’attimo preciso provavo sgomento e  dicevo a me stessa:

 – tieni gli occhi aperti, Ohxen! il bosco può riservare brutte sorprese. 

   Una volta giunta sulla riva opposta mi scrollai l’umidità di dosso con energici calcioni al suolo per poi alzare gli occhi verso l’orizzonte: le rassicuranti architetture delle grandi torri della luce mi avrebbero aiutata a ritrovare la strada di casa, al sopraggiungere  della sera. La notte mi ha sempre trasmesso le peggiori paure e sentivo che  quel luogo, al calar del regno delle ombre, avrebbe nascosto presenze minacciose; meno male mi  portavo sempre dietro un armamento leggero. Non erano i quadrupedi dai lunghi denti ad impensierirmi, difficilmente dopo la colonizzazione mihole e le invasioni latranidi ne avrei potuto incontrare qualcuno, perché nel tempo avevano mutato le migrazioni, andando ad insediarsi nelle regioni dove la luce nasceva e da dove i bagliori delle dodici lune di Tarhar A’Ru non si sarebbero potute scorgere. Una volta raggiunte le steppe del nord est, alle pendici dei freddi altipiani, non tornarono più nelle terre d’origine, dove rivali efferati  avrebbero reso precaria la loro sopravvivenza. 

   Ecco un’altra anomalia: le immagini del sogno si accompagnano sempre ad informazioni precise, nomi, situazioni che conoscevo e ripetevo perfettamente. Nel riprendere coscienza, rammento sempre i nomi delle cose e delle persone, in seguito la sensazione di familiarità svanisce. 

   Il ‘Medio Amadah’, che negli spazi onirici era la terra degli avi e  patria dei popoli amadahntini, era una località priva di coordinate geografiche: non esisteva perciò da nessuna parte del mondo reale.  In quel luogo sorgeva una città chiamata Tarhar A’Ru, e come ogni agglomerato urbano, anch'esso produceva enormi masse di rifiuti che venivano ammassati entro apposite aree per lo smaltimento, ubicate a debita distanza; queste avevano la funzione di garantire scorte  alimentari pressoché illimitate ad ogni genere di predatore, la cui presenza avrebbe altrimenti minacciato la popolazione residente. Per costoro difatti, era molto importante conoscere la posizione di tali luoghi maleodoranti, di solito confinati entro aree vistosamente segnalate sul territorio. Non v’erano dunque motivi per coltivare timori seppure, di tanto in tanto, capitava che qualche esemplare in fregola si portasse nei pressi dell’area edificata, o trovasse dimora in mezzo alla vegetazione. Paura e diffidenza lo potevano rendere pericoloso, dacché l’aggressività delle belve è ravvivata più dal timore di ciò che non conoscono che dalla fame. Sapevo perciò di dover girare alla larga da certi tipetti dai modi scontrosi e meglio avrei fatto se mi fossi tenuta lontano dalle discariche. Tempo addietro avevo veduto una di queste pericolose creature – la cui immagine mi tornava chiara anche in stato di veglia. - che grattava il terreno fresco del sottobosco in cerca di radici o grassi insetti commestibili. Avevo quindi atteso che si allontanasse facendomi scrupolo di non tradire la mia presenza. Quando però la bestia si era arrestata a pochi passi e aveva cominciato  ad annusare l’aria, avevo percepito un brivido lungo la schiena, una di quelle sensazioni che portano gli intestini a liquefarsi nelle brache in men che non  si dica.  Non ne avevo fatto un dramma, perché nelle mie perlustrazioni portavo sempre a tracolla un folgoratore elettrico. Di questo mostriciattolo ricordavo caratteristiche precise: era un prototipo maschio di vecchia generazione, un ibrido che aveva potenziato alcune facoltà e perduto altre, in una mescola di caratteri difficilmente prevedibile. Era stato un primo tentativo sperimentale  al quale ne sarebbero seguiti di nuovi. Il modello        ‘Zero punto Zero’, meglio conosciuto come mostro squartatore, era stato rimesso in libertà poiché le leggi amadahntine impedivano la soppressione di un individuo con un innesto genico primario, (della specie mihole) maggiore del quindici per cento. Il tasso ben più alto innestato su Zero punto Zero era servito così a salvargli la vita. In seguito si era velocemente e imprevedibilmente  riprodotto, mescolando i propri caratteri a quelli di altre specie compatibili, col risultato di sparpagliare nel bosco una considerevole quantità di materiale genico pronto a scattare su arti rapidi e  zanne letali con cui straziare le carni di chiunque avesse avuto la sorte talmente avversa di capitargli davanti. La pelle mi si accapponava all’idea di venir colta da un fortunale nel bel mezzo della notte (unica condizione che avrebbe reso i circuiti  della mia arma da passeggio,  nulla più di un ingombrante ammasso di ferraglia). La foresta tuttavia, più che di insidie, risuonava di vita. Nell’ attraversarla provavo sempre una piacevole fatica, i sensi si acuivano e muscoli sotto la pelle guizzavano come anguille. Sgusciavo così nel reticolo cespuglioso, finendo occasionalmente nel fango. L’unica minaccia di questi luoghi era data dall’acqua che poteva risalire in superficie dai bacini sotterranei, formare pozze invisibili e ingoiare uno sprovveduto in pochi istanti. La terra umida poteva insomma diventare molto pericolosa e, come nell’animo di ogni mihole, anche a me  procurava un terrore illogico e ancestrale: nessuno d'altronde aveva mai lasciato le penne in queste fosse melmose, perché mai sarebbe dovuto capitare proprio a me ? Temevo troppo l’acqua per farmi sorprendere. Ero disorientata dalla pioggia, atterrita dalla nebbia, detestavo il vapore delle fornaci e perfino un piccolo addensamento nuvoloso poteva destare in me oscuri presagi. Al contrario era la folgore a restituirmi coraggio. La cosa poteva apparire del tutto insensata perché la pioggia non aveva mai provocato vittime, mentre i fulmini del cielo scaricavano a terra un tal potenziale di energia  da lesionare edifici o carbonizzare come uno stecco il più robusto fra i più poderosi lottatori mihole. Il timore dell’umidità, l’avevo appreso da bambina, era un ingrediente imprescindibile nei racconti dei vecchi, nelle favole o nelle tragedie mitiche del mondo antico, un mondo che aveva maturato questi archetipi in un tempo lontanissimo e che, in un assurdo contro-meccanismo di difesa, pareva adesso minare la fiducia infantile verso la natura, luogo dell’imprevedibile, tana degli istinti e delle crudeltà; qui l’acqua rappresentava il fluido malefico, il demone da combattere e sconfiggere.   Eppure, era in essa custodita anche l’essenza vitale di tutte le creature dell’universo e, se non di quello, dell’intero pianeta. I luoghi selvaggi, insomma, mi attraevano da morire; avevo imparato come coglierne l’armonia, i colori  e soprattutto i profumi con quella loro proprietà indecifrabile e meravigliosa di saper suscitare memorie lontane; ritrovavo nella Natura la gioiosa vocazione alla maternità, non alla prevaricazione e all’abominio. Nel suo utero smisurato erano state partorite tutte le genti; tuttavia la mia civiltà millenaria, per voce dei saggi, ne coltivava l’insensato timore. Al diavolo i saggi! - Pensai. Avrebbero avuto bisogno di una bella svecchiata,  pure loro. 

   Come tutte le femmine mihole, anch’io abbeveravo i miei buoni conflitti interiori nelle esitazioni di un pessimismo latente che si faceva vincere solo dalla forza del ‘mito della sopravvivenza’, unica forma di speranza collettiva nata dalla fiducia sul progresso e sul lavoro degli scienziati. I giovani maschi all’opposto, non vivevano le stesse paure (mitiche) come debolezze, ma come sfide e, in età matura, i più capaci avrebbero intrapreso carriere di alto livello nei laboratori della ‘Salvezza’, per ricoprire incarichi di gran prestigio coi titoli altisonanti di Garanti della Conoscenza, di Custodi Sapienziali, di eruditi e specialisti del ramo tecnico. Io intendevo diventare esattamente come loro e fornire un valido contributo all’attuazione dei Grandi Piani della Rinascita, i programmi scientifici più ambiziosi che fossero mai stati concepiti da una civiltà. Ed allora, quando mi capitava di immergermi nella vegetazione di quei paradisiaci spazi, gli ammonimenti dei vecchi si scioglievano come rugiada al primo tepore mattutino, la natura pareva sorridermi amica e solleticarmi l’animo coi suoi segreti, le  fragranze cremose pennellate nell’ atmosfera. La menta selvatica aveva il potere di darmi una leggera vertigine. Amavo la menta selvatica e chissà - mi chiedevo - se erano riusciti a trapiantarla anche nell’ area del laboratorio, se le creature ne conoscessero il profumo, se anche loro venissero prese da quella dolcissima fitta dietro le orbite che si andava poi ad irradiare negli interstizi più intimi della Dura Madre e da lì in tutto l’organismo, come un anfetaminico sparato nelle vene. Inalai a pieni polmoni e accelerai il passo dove le conifere si infittivano a tal punto da negarmi la possibilità di osservare il cielo e in esso le fluttuanti traiettorie dei folletti vaporosi: quattro nuvolacce malevole non sarebbero riuscite a rovinarmi la giornata.

   La pianura cominciò intanto a degradare in un pendio leggero che pareva adoperarsi a fondo per fiaccare la mia tenacia. Ad ogni piè sospinto respiravo felicità purissima; mi sembrava di aver camminato a lungo mentre Uspà sul suo carro irraggiato di fuoco, aveva già percorso almeno un terzo del suo perenne tragitto segnato al mattino da petali d'oro purissimo che alla sera andavano diradandosi in un velo leggero ricamato di stelle. Nonostante la fiacca, le mie forze non davano segni di cedimento. Ancora poche centinaia di passi e avrei avvistato il lato sud della grande recinzione metallica. Percepii il dolce ondeggiare delle felci giganti, il canto mite delle fronde e tante altre melodie che si conciliavano con gli echi di piccole bestiole laboriose. Quel posto mi pizzicava il cuore di emozioni e aveva il potere di farmi sentire bella, formicolante di desideri e curiosità. Nel bosco avevo tutto ciò che mi occorreva, nel suo grembo mi sembrava di tenere i sogni in una mano e i peggiori crucci si piegavano al cospetto di un ottimismo leggero. Nulla mi avrebbe portato a fondo, nell’abisso, dove le cose semplici si fanno oscure e impenetrabili: tutto insomma era a portata di mano e non v’era altro da fare che cogliere la vita e gioirne come un dono.

         Mi abbandonai alla dolce spinta del vento, contemplai la danza aggraziata delle foglie secche, le sentivo frusciare sulla pelle Un soffice tappeto  di colori inerti mi mostrava la strada. E finalmente raggiunsi il giardino proibito. Mi soffermai a perlustrare ogni particolare potesse tornare utile, un grosso masso muschiato, un albero o un rovo amico che  mi avrebbe fornito la copertura giusta per  osservare senza esser osservata; poi mi decisi consumare un pasto frugale, mentre cesellavo nella memoria tutti i dettagli del paesaggio e dell’ostile barriera metallica. Pianificavo di  tornare al più presto, oltrepassarla e avere finalmente accesso ai luoghi interdetti della riserva.  


 


      

 

      continua qui

 

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