sabato 12 settembre 2020

Il robot e il serpente (Seconda puntata)

 La prima puntata

   La foresta tuttavia, più che di insidie, risuonava di vita, nell’attraversarla provavo sempre una piacevole fatica, i sensi si acuivano e muscoli sotto la pelle guizzavano come anguille. Sgusciavo nel reticolo cespuglioso senza sosta , saltellando oltre il sentiero battuto, coi piedi nel fango bruno e limaccioso che mi inzaccherava fino alle ginocchia. L’unica minaccia di questi luoghi era data dall’acqua che talvolta risaliva in superficie dai bacini sotterranei, formava pozze invisibili, coperte da un tappeto di fogliame che  potevano ingoiare uno sprovveduto in pochi istanti. La terra umida poteva insomma diventare molto pericolosa e, come nell’ animo di ogni mihole, anche a me  procurava un terrore illogico e ancestrale: nessuno d'altronde aveva mai lasciato le penne in queste fosse melmose, perché mai sarebbe dovuto capitare proprio a me? Temevo troppo l’acqua per farmi sorprendere da simili trappole. Ero disorientata dalla pioggia, atterrita dalla nebbia, detestavo il vapore delle fornaci e perfino un piccolo addensamento nuvoloso poteva destare in me oscuri presagi. Al contrario era la folgore a restituirmi coraggio. La cosa poteva apparire del tutto insensata perché la pioggia non aveva mai fatto vittime, mentre i fulmini del cielo scaricavano a terra un tal potenziale di energia  da lesionare edifici o carbonizzare come uno stecco il più robusto fra i più poderosi lottatori mihole.     Il timore dell’umidità  l’avevo appreso da bambina, era un ingrediente imprescindibile nei racconti dei vecchi, nelle favole o nelle tragedie mitiche del mondo antico, un mondo che aveva maturato questi archetipi in un tempo lontanissimo e che, in un assurdo contro-meccanismo di difesa, pareva adesso minare la fiducia infantile verso la natura, luogo dell’imprevedibile, tana degli istinti e delle crudeltà; qui l’acqua rappresentava il fluido malefico, il demone da combattere e sconfiggere.   Eppure, era in essa custodita anche l’essenza vitale di tutte le creature dell’universo e, se non di quello, dell’intero pianeta. I luoghi selvaggi, insomma, mi attraevano da morire; avevo imparato come coglierne l’armonia , i colori , ogni rumore  e soprattutto i profumi con quella loro proprietà indecifrabile e meravigliosa di saper suscitare memorie lontane; ritrovavo nella Natura la gioiosa vocazione alla maternità, non alla prevaricazione e all’abominio. Nel suo utero smisurato erano state partorite tutte le genti; tuttavia la mia civiltà millenaria, per voce dei saggi, ne coltivava l’insensato timore. Al diavolo i saggi! - Pensai: avrebbero avuto bisogno di una bella svecchiata,  pure loro. 

   Come tutte le femmine mihole, anch’io abbeveravo i miei buoni conflitti interiori nelle esitazioni di un pessimismo latente che si faceva vincere solo dalla forza del ‘mito della sopravvivenza’, unica forma di speranza collettiva nata dalla fiducia sul progresso e sul lavoro degli scienziati. I giovani maschi all’opposto, non vivevano le stesse paure (mitiche) come debolezze, ma come sfide e, in età matura, i più capaci avrebbero intrapreso carriere di alto livello nei laboratori della Salvezza, per ricoprire incarichi di gran prestigio, coi titoli altisonanti di Garanti della Conoscenza, di Custodi Sapienziali, di eruditi e specialisti del ramo tecnico. Io  intendevo diventare come loro e fornire il mio contributo alla realizzazione dei Grandi Piani della Rinascita, i programmi scientifici più ambiziosi che fossero mai stati concepiti da una civiltà. Ed allora, quando mi capitava di immergermi nella vegetazione di quei luoghi paradisiaci gli ammonimenti dei vecchi si scioglievano come rugiada al primo tepore mattutino, la natura pareva sorridermi amica e solleticarmi l’animo coi suoi segreti, le  fragranze cremose pennellate nell’ atmosfera. La menta selvatica aveva il potere di darmi una leggera vertigine. Amavo la menta selvatica e chissà - mi chiedevo - se erano riusciti a trapiantarla anche nell’area del laboratorio, se le creature ne conoscessero il profumo, se anche loro venissero prese da quella dolcissima fitta dietro le orbite che si andava poi ad irradiare negli interstizi più intimi della Dura Madre e da lì in tutto l’organismo, come un anfetaminico sparato nelle vene. Inalai a pieni polmoni e accelerai il passo dove le conifere si infittivano a tal punto da negarmi la possibilità di osservare il cielo e le fluttuanti traiettorie dei suoi folletti vaporosi: quattro nuvolacce malevole non sarebbero riuscite a rovinarmi la giornata - giuravo a me stessa.

   La pianura cominciò intanto a degradare in un pendio leggero che pareva adoperarsi a fondo per fiaccare la mia tenacia. Ad ogni piè sospinto respiravo felicità purissima; mi sembrava di aver camminato a lungo, il pianeta nel frattempo doveva aver impiegato un quarto esatto del suo perenne ciclo attorno a se stesso. Nonostante la fiacca, le mie forze non davano segni di cedimento, ancora poche centinaia di passi e avrei avvistato il lato sud della grande recinzione metallica. Percepii le vibrazioni del bosco, il dolce ondeggiare delle felci giganti, il canto mite delle fronde e tante altre melodie che si conciliavano con gli echi di piccole bestiole laboriose. Quel posto mi pizzicava il cuore di emozioni e aveva il potere di farmi sentire bella, formicolante di desideri e curiosità. Nel bosco avevo tutto ciò che mi occorreva, nel suo grembo mi sembrava di tenere i sogni in una mano e i peggiori crucci si piegavano al cospetto di un ottimismo leggero. Nulla mi avrebbe portato a fondo, nell’abisso, dove le cose semplici si fanno oscure e impenetrabili: tutto insomma era a portata di mano e non v’era altro da fare che cogliere la vita e gioirne come un dono. Mi abbandonai alla dolce spinta del vento, contemplai la danza aggraziata delle foglie secche, le sentivo frusciare sulla punta delle orecchie, sulle spalle, sulle mani. Un tappeto di petali mi mostrava la strada. E finalmente raggiunsi il giardino proibito. Mi soffermai a perlustrare ogni particolare potesse tornare utile, un masso, un albero o un rovo amico che  mi avrebbe fornito la copertura giusta per  osservare senza esser osservata; poi mi decisi consumare un pasto frugale, mentre cesellavo nella memoria tutti i dettagli del paesaggio e dell’ostile barriera metallica. Pianificavo di  tornare al più presto, oltrepassarla e avere finalmente accesso ai luoghi interdetti della riserva.  

                                                                     §§§ 


  Non avevo ancora terminato di leggere questa lunga lettera quando  subito ne giunse una seconda, una terza ed una quarta, a poche decine di minuti di distanza l’una dall’altra. Raccolsi insieme tutte le pagine delle quattro e-mail inviate in sequenza, senza far caso al tempo che scorreva veloce su quel fiume di parole concitate, impressioni e lucide immagini di un passato emerso dalle nebbie più remote della memoria.

  Nelle successive comunicazioni Ohxen’im prese a raccontare di sé come di una adolescente. Descrisse inoltre con dovizia di particolari i tratti somatici di un giovane chiamato Coneh, con cui doveva esser stata in grande confidenza. Come mi aveva già riferito, questa figura amica non apparteneva alla sua infanzia, ma al tempo indefinito e sfuggente  del suo sé sognante. Riprese dunque il racconto dal giorno successivo in cui si era recata a ridosso delle recinzioni della riserva situata in un’estesa area collinare. 

 

  Il dì seguente mi levai molto tardi, indossai abiti freschi di lavatoio e calzai un paio di sandali vecchi e comodi, con le cuciture a vista oramai consunte, agguantai la sacca attaccata a un gancio sulla parete e, in un attimo, mi ritrovai a sgambettare verso l’istituto didattico rionale, uno dei due di Tarhar A’Ru. Un tempo se ne contavano più di venticinque. A metà strada incontrai Coneh, pareva alquanto seccato per il ritardo. Lo salutai senza fornire spiegazioni per l’orario insolito e senza accennare alla sera prima. Il portone dell’edificio era sbarrato e cominciammo a correre, poi lo tempestammo di pugni, urlacchiammo scuse scontate per motivare il ritardo, finché le ante si schiusero un poco e lasciarono intravedere mezzo corpo di un donna dall’aria irascibile: <<Dovete finirla con questo fracasso! A quest’ora non vi faccio entrare.>> La posizione delle sue braccia lanose non lasciava  adito a repliche.

   Desistetti levando gli occhi al cielo, poi guardai Coneh in una supplica di perdono. Dopo aver compreso che da quell‘accesso non sarebbe passato neppure un corrazzato della milizia, recitammo una coroncina di epiteti, e prima di allontanarci,  mandammo a farsi fottere il donnone scontroso e tutta l’istituzione formativa  scolastica. Trovammo presto un poggianatiche su cui trascorrere il tempo quando già la prima fase didattica della giornata era  andata a farsi benedire.

<<Quale strazio ci attende ancora? >> Feci a Coneh.

<<Non rammenti eh? Zucca vuota! Come farai a memorizzare le quindici tabelle video-didattiche del kher [Professor] Sholem?>>

<<Lasciami riprender fiato dannato saputello, crepo dalla fame.>>

<<Non hai mangiato niente prima di uscire di casa?>>

<<Magari ne avessi avuto  il tempo.>>

<<Ho portato con me delle buone focacce>> Disse Coneh. Consumammo in silenzio le poche fette di companatico e alcuni dolci di miglio. Subito dopo scoppiammo in una risata.

<<Ma sì…Chi se ne frega di quello zoticone di Sholem. Al diavolo lui e tutti i suoi indottrinamenti del cavolo!>> 

    <<Facciamo due passi?>>Propose, certo di trovare una facile approvazione. <<Ed ora sputa il rospo. Come è andata ieri sera? Li hai veduti?>>Mi chiese con impazienza . 

<<Mmh…Ho davvero troppa fame per riempirmi la bocca di sole parole. >>  E così dicendo mi  massaggiai lo stomaco. Con riluttanza lui cedette e mi offrì  le sue focacce.

 Le lezioni  trascorsero lente fino al segnale dell’intervallo, poi ci recammo alla mensa. Al termine dei masticamenti, ci attardammo a conversare dei futuri impegni, dei sogni irraggiungibili e dei rispettivi scampoli di tediosa routine familiare. Gli argomenti più banali fornivano un ottimo pretesto per stare insieme. A vederlo, questo affezionato compagno,  non differiva  poi  tanto da  altri coetanei, se non nella maniera in cui contemplava il mio profilo o nel tono di voce con cui cercava di attirare l' attenzione. Egli rappresentava per me tante cose piacevoli, come il divertimento o la complicità. Era a quel tempo un adolescente prestante, con  la zazzera birichina che si poggiava sui lineamenti del volto pulito. Se avessi per caso incespicato in quegli occhi scuri, resi più dolci dalla fiacca digestiva, avrei colto i versanti meno esposti della sua immaginazione. Ma non lo feci. Mai mi soffermai su quel respiro ruvido che trasudava emozioni pulite, o sul rossore d'imbarazzo con cui imprigionava i gesti più banali in un guscio di tenera goffaggine. Insomma non pensavo quasi mai a lui se non per farlo partecipe delle mie mascalzonate, soprattutto quelle che andavo progettando ad insaputa dei miei vecchi  e del mondo intero. Coneh non faceva parte né dell’una né dell’altro, non potevo quindi lasciarlo all’oscuro.

<<Un bel buco. Ecco che ci vuole! Dovremmo riuscire a scavare un passaggio in pochissimo  tempo e superare la recinzione. Ieri ho tracciato una mappa. Ce l’ho tutta qua dentro.>> Ammiccai, picchiettando il dito sulla tempia.

<< Ho individuato un accesso sicuro, lontano dagli occhi dei vigilanti. Il problema è  quella maledetta rete, piuttosto. Ho pensato che tornerebbe molto utile un’elettro-vanga.>> Coneh non avrebbe sperato in nulla di più facile per compiacermi. 

Con orgoglio si fece  carico dell’impegno.<< Me ne occupo io. Considerala cosa fatta.>>

<<Scaverei là sotto perfino con le unghie.>>Ammisi, con mimica esplicita. <<Rimane da decidere il tempo giusto per superare la recinzione.>>

Sorseggiai la mia bevanda quindi, con una fermezza che non andava cercando pareri,  esposi i miei piani:   

<<Ci muoveremo al sopraggiungere del vespro. A quell’ora l’intero settore sarà deserto, eccezion fatta per le ‘creature’ e qualche volatile insonne.>>

<<Già, non sarà difficile rintracciarle. Sappiamo che durante la notte si ritirano nei pressi del ruscello, nel quadrante ovest dell’area. Ah, se potessimo conoscere in anticipo la tabella dei controlli giornalieri.>> Disse sconsolato.

<<Roba non da poco.>> Aggiunsi.<< Lo studio sul campo non prevede pause perché i ricercatori devono registrare il maggior numero di informazioni possibili, ma io so che alla sera, almeno una volta ogni dieci aurore, l’intero settore viene presidiato da un piccolo drappello di addetti alla sicurezza. Non sospetteranno mai della nostra presenza. Dovrò comunque indagare a fondo: mio padre Khaled è sempre prodigo di chiarimenti e informazioni quando fingo di  interessarmi  al suo lavoro.>>

Coneh si sfregò le mani: <<Sarebbe un bel colpo avere certi ragguagli.Se avessimo modo di utilizzare gli specchi mimetici potremmo scoprire un mucchio di altre cose interessanti.>>

<<Puoi immaginarlo?>> Gli dissi. <<…Spiare quegli esseri quando si scambiano effusioni. O tenere fra le braccia i loro piccoli...Credi ce lo concederebbero?>>

<<Certamente. Appena si riprodurranno non ci faremo sfuggire l’occasione. E magari riusciremo perfino ad osservarli mentre si accoppiano.>> Coneh si rese conto del mio disagio, non aveva mai pensato di spiare le creature in un momento così intimo. Perché gli era scappato di bocca proprio ora?

   Le sue pupille incandescenti caddero sulle mie. Finsi indifferenza e cominciai a fissare un punto indefinito sulla parete, concentrando sull’ insignificante bersaglio ogni particolare mi tornasse in mente, cercando di prevenire eventuali intoppi o di escogitare il miglior percorso possibile una volta dentro la riserva. Apposta, il giorno prima, avevo speso molto tempo dietro quel cespuglio.

   L’oggetto che accendeva il nostro entusiasmo faceva parte del ceppo Mda 45, un genotipo di ultima generazione piuttosto sofisticato. Nessuno prima di lui era stato esaminato tanto a fondo in ogni specifica fase della crescita. Le procedure di collaudo avevano fornito dati incoraggianti. Con la loro progettazione, avvenuta molto tempo prima, si erano poste le basi sperimentali per il ripopolamento del pianeta e da questi tentativi aveva preso corpo la prima fase del Progetto della Rinascita, un disegno ambizioso ideato allo scopo di generare campioni altamente prolifici con cui far fronte alla piaga del calo demografico.

    La riduzione del tasso delle nascite si era verificata molte altre volte, ma non aveva creato squilibri tali da compromettere l’incremento della popolazione.    Improvvisamente,  all’alba  dell’ultima  era, quella  antecedente  al quinto  evento catastrofico planetario*, gran parte degli abitanti delle regioni più popolose del pianeta avevano cominciato a manifestare un declino di fertilità assai più critico che in passato. Al principio la genesi della super-specie era andata incontro a molte difficoltà tecniche, derivate per lo più da effetti collaterali successivi al processo di ibridazione indotta;  i primi esperimenti sulle razze potenzialmente compatibili avevano portato i ricercatori a conoscenza del fatto che, per via naturale, si sarebbero potuti generare solo individui sterili. Questo handicap aveva reso necessaria la cooperazione fra i migliori genetisti dell’Amadah e i medici chirurghi  del ramo  trapiantologico.  Attraverso  un   intervento   multidisciplinare  essi avrebbero tentato un primo innesto tissutale (di organi riproduttivi)  da  un  esemplare di  femmina fertile  a  uno  sterile, derivato  per l’appunto dall’ ibridazione. Lo scopo era quello di ottenere da un individuo infecondo, uno capace  di  accogliere  in  grembo  un  ovulo  inseminato  artificialmente  e di portarlo a maturazione fino alla gestione completa della gravidanza.  Questi fatti erano noti a tutti in quanto negli ultimi tempi erano diventati una priorità per la martellante propaganda delle rappresentanze di governo.  

 

                                                                       §  §  §

  

   Quando terminai di leggere questa lunga sfilza di missive, erano le quattro e mezza del mattino. Mi preparai un robusto caffè e senza perdere un istante provai a focalizzare meglio alcuni dubbi lasciati insoluti nella  prima, frettolosa lettura. Rimasi incuriosito dalla figura del genitore della donna, dalla qualità del loro vincolo parentale. Avrei così potuto sapere qualcosa di più riguardo la sua famiglia di provenienza.

   Determinati elementi non si possono indagare in modo troppo palese, per non intaccare il carattere di necessaria spontaneità richiesto al paziente. Il mio ruolo non doveva dettare i tempi e non poteva determinare il solco della deposizione. Le scrissi allora poche indicazioni che lei sarebbe stata libera di seguire, oppure no.

 

 

                                                Gentile Ohxen’im,

  se la sente di parlarmi ancora di suo padre?

Vorrei comprendere meglio le  mansioni

e le  responsabilità del  suo importante

  impegno  scientifico


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Al termine di ognuno dei quattro cicli temporali precedenti  (della singola durata di circa 26.000 anni), una calamità di portata globale aveva provocato l’annientamento di gran parte delle aree abitate del pianeta, oltreché lo scompenso della sua ricchezza biologica e faunistica. Ma nei periodi successivi una spinta procreativa vigorosa e spontanea, aveva favorito il regolare ripopolamento. Ora che però cominciava a  prospettarsi una grave carenza di soggetti fecondi, nella coscienza popolare prese a diffondersi il timore di un possibile rischio di estinzione. In un tal contesto allarmistico non fu difficile indirizzare robusti finanziamenti verso una serie di proposte programmatiche dalle quali avrebbe avuto inizio la pianificazione di una ricerca  che si poneva come massimo e più urgente obiettivo la creazione di una specie ibrida in grado di manifestare migliori potenzialità riproduttive.



continua -



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