La foresta tuttavia, più che di insidie, risuonava di vita, nell’attraversarla provavo sempre una piacevole fatica, i sensi si acuivano e muscoli sotto la pelle guizzavano come anguille. Sgusciavo nel reticolo cespuglioso senza sosta , saltellando oltre il sentiero battuto, coi piedi nel fango bruno e limaccioso che mi inzaccherava fino alle ginocchia. L’unica minaccia di questi luoghi era data dall’acqua che talvolta risaliva in superficie dai bacini sotterranei, formava pozze invisibili, coperte da un tappeto di fogliame che potevano ingoiare uno sprovveduto in pochi istanti. La terra umida poteva insomma diventare molto pericolosa e, come nell’ animo di ogni mihole, anche a me procurava un terrore illogico e ancestrale: nessuno d'altronde aveva mai lasciato le penne in queste fosse melmose, perché mai sarebbe dovuto capitare proprio a me? Temevo troppo l’acqua per farmi sorprendere da simili trappole. Ero disorientata dalla pioggia, atterrita dalla nebbia, detestavo il vapore delle fornaci e perfino un piccolo addensamento nuvoloso poteva destare in me oscuri presagi. Al contrario era la folgore a restituirmi coraggio. La cosa poteva apparire del tutto insensata perché la pioggia non aveva mai fatto vittime, mentre i fulmini del cielo scaricavano a terra un tal potenziale di energia da lesionare edifici o carbonizzare come uno stecco il più robusto fra i più poderosi lottatori mihole. Il timore dell’umidità l’avevo appreso da bambina, era un ingrediente imprescindibile nei racconti dei vecchi, nelle favole o nelle tragedie mitiche del mondo antico, un mondo che aveva maturato questi archetipi in un tempo lontanissimo e che, in un assurdo contro-meccanismo di difesa, pareva adesso minare la fiducia infantile verso la natura, luogo dell’imprevedibile, tana degli istinti e delle crudeltà; qui l’acqua rappresentava il fluido malefico, il demone da combattere e sconfiggere. Eppure, era in essa custodita anche l’essenza vitale di tutte le creature dell’universo e, se non di quello, dell’intero pianeta. I luoghi selvaggi, insomma, mi attraevano da morire; avevo imparato come coglierne l’armonia , i colori , ogni rumore e soprattutto i profumi con quella loro proprietà indecifrabile e meravigliosa di saper suscitare memorie lontane; ritrovavo nella Natura la gioiosa vocazione alla maternità, non alla prevaricazione e all’abominio. Nel suo utero smisurato erano state partorite tutte le genti; tuttavia la mia civiltà millenaria, per voce dei saggi, ne coltivava l’insensato timore. Al diavolo i saggi! - Pensai: avrebbero avuto bisogno di una bella svecchiata, pure loro.
Come tutte le femmine mihole, anch’io abbeveravo i miei buoni conflitti interiori nelle esitazioni di un pessimismo latente che si faceva vincere solo dalla forza del ‘mito della sopravvivenza’, unica forma di speranza collettiva nata dalla fiducia sul progresso e sul lavoro degli scienziati. I giovani maschi all’opposto, non vivevano le stesse paure (mitiche) come debolezze, ma come sfide e, in età matura, i più capaci avrebbero intrapreso carriere di alto livello nei laboratori della Salvezza, per ricoprire incarichi di gran prestigio, coi titoli altisonanti di Garanti della Conoscenza, di Custodi Sapienziali, di eruditi e specialisti del ramo tecnico. Io intendevo diventare come loro e fornire il mio contributo alla realizzazione dei Grandi Piani della Rinascita, i programmi scientifici più ambiziosi che fossero mai stati concepiti da una civiltà. Ed allora, quando mi capitava di immergermi nella vegetazione di quei luoghi paradisiaci gli ammonimenti dei vecchi si scioglievano come rugiada al primo tepore mattutino, la natura pareva sorridermi amica e solleticarmi l’animo coi suoi segreti, le fragranze cremose pennellate nell’ atmosfera. La menta selvatica aveva il potere di darmi una leggera vertigine. Amavo la menta selvatica e chissà - mi chiedevo - se erano riusciti a trapiantarla anche nell’area del laboratorio, se le creature ne conoscessero il profumo, se anche loro venissero prese da quella dolcissima fitta dietro le orbite che si andava poi ad irradiare negli interstizi più intimi della Dura Madre e da lì in tutto l’organismo, come un anfetaminico sparato nelle vene. Inalai a pieni polmoni e accelerai il passo dove le conifere si infittivano a tal punto da negarmi la possibilità di osservare il cielo e le fluttuanti traiettorie dei suoi folletti vaporosi: quattro nuvolacce malevole non sarebbero riuscite a rovinarmi la giornata - giuravo a me stessa.
La pianura cominciò intanto a degradare in un pendio leggero che pareva
adoperarsi a fondo per fiaccare la mia tenacia. Ad ogni piè sospinto respiravo
felicità purissima; mi sembrava di aver camminato a lungo, il pianeta nel
frattempo doveva aver impiegato un quarto esatto del suo perenne ciclo attorno
a se stesso. Nonostante la fiacca, le mie forze non davano segni di cedimento,
ancora poche centinaia di passi e avrei avvistato il lato sud della grande
recinzione metallica. Percepii le vibrazioni del bosco, il dolce ondeggiare
delle felci giganti, il canto mite delle fronde e tante altre melodie che si
conciliavano con gli echi di piccole bestiole laboriose. Quel posto mi
pizzicava il cuore di emozioni e aveva il potere di farmi sentire bella,
formicolante di desideri e curiosità. Nel bosco avevo tutto ciò che mi
occorreva, nel suo grembo mi sembrava di tenere i sogni in una mano e i
peggiori crucci si piegavano al cospetto di un ottimismo leggero. Nulla mi
avrebbe portato a fondo, nell’abisso, dove le cose semplici si fanno oscure e
impenetrabili: tutto insomma era a portata di mano e non v’era altro da fare
che cogliere la vita e gioirne come un dono. Mi abbandonai alla dolce spinta del vento, contemplai la danza
aggraziata delle foglie secche, le sentivo frusciare sulla punta delle
orecchie, sulle spalle, sulle mani. Un tappeto di petali mi mostrava la strada.
E finalmente raggiunsi il giardino proibito. Mi soffermai a perlustrare ogni
particolare potesse tornare utile, un masso, un albero o un rovo amico che mi avrebbe fornito la copertura giusta
per osservare senza esser osservata; poi
mi decisi consumare un pasto frugale, mentre cesellavo nella memoria tutti i
dettagli del paesaggio e dell’ostile barriera metallica. Pianificavo di tornare al più presto, oltrepassarla e avere
finalmente accesso ai luoghi interdetti della riserva.
Non avevo ancora
terminato di leggere questa lunga lettera quando subito ne giunse una seconda, una terza ed
una quarta, a poche decine di minuti di distanza l’una dall’altra. Raccolsi
insieme tutte le pagine delle quattro e-mail inviate in sequenza, senza far
caso al tempo che scorreva veloce su quel fiume di parole concitate,
impressioni e lucide immagini di un passato emerso dalle nebbie più remote
della memoria.
Nelle successive comunicazioni Ohxen’im prese a raccontare di sé come di una adolescente. Descrisse
inoltre con dovizia di particolari i tratti somatici di un giovane chiamato
Coneh, con cui doveva esser stata in grande confidenza. Come mi aveva già
riferito, questa figura amica non apparteneva alla sua infanzia, ma al tempo
indefinito e sfuggente del suo sé
sognante. Riprese dunque il racconto dal giorno successivo in cui si era recata
a ridosso delle recinzioni della riserva situata in un’estesa area
collinare.
Il dì seguente mi levai molto tardi, indossai
abiti freschi di lavatoio e calzai un paio di sandali vecchi e comodi, con le cuciture a vista oramai consunte, agguantai la sacca attaccata a un gancio sulla parete e, in un attimo, mi
ritrovai a sgambettare verso l’istituto didattico rionale, uno dei due di
Tarhar A’Ru. Un tempo se ne contavano più di venticinque. A metà strada incontrai Coneh, pareva alquanto
seccato per il ritardo. Lo salutai senza fornire spiegazioni per l’orario
insolito e senza accennare alla sera prima. Il portone dell’edificio era
sbarrato e cominciammo a correre, poi lo tempestammo di pugni, urlacchiammo
scuse scontate per motivare il ritardo, finché le ante si schiusero un poco e lasciarono intravedere mezzo corpo
di un donna dall’aria irascibile: <<Dovete finirla con questo fracasso! A
quest’ora non vi faccio entrare.>> La posizione delle sue braccia lanose
non lasciava adito a repliche.
Desistetti
levando gli occhi al cielo, poi guardai Coneh in una supplica di perdono. Dopo
aver compreso che da quell‘accesso non sarebbe passato neppure un corrazzato
della milizia, recitammo una coroncina di epiteti, e prima di allontanarci, mandammo a farsi fottere il donnone scontroso
e tutta l’istituzione formativa
scolastica. Trovammo presto un poggianatiche su cui trascorrere il tempo quando già la prima fase didattica della giornata era andata a farsi benedire.
<<Quale
strazio ci attende ancora? >> Feci a Coneh.
<<Non
rammenti eh? Zucca vuota! Come farai a memorizzare le quindici tabelle
video-didattiche del kher [Professor] Sholem?>>
<<Lasciami
riprender fiato dannato saputello, crepo dalla fame.>>
<<Non
hai mangiato niente prima di uscire di casa?>>
<<Magari
ne avessi avuto il tempo.>>
<<Ho
portato con me delle buone focacce>> Disse Coneh. Consumammo in silenzio
le poche fette di companatico e alcuni dolci di miglio. Subito dopo scoppiammo
in una risata.
<<Ma
sì…Chi se ne frega di quello zoticone di Sholem. Al diavolo lui e tutti i suoi
indottrinamenti del cavolo!>>
<<Facciamo due passi?>>Propose,
certo di trovare una facile approvazione. <<Ed ora sputa il rospo. Come è
andata ieri sera? Li hai veduti?>>Mi chiese con impazienza .
<<Mmh…Ho
davvero troppa fame per riempirmi la bocca di sole parole. >> E così dicendo mi massaggiai lo stomaco. Con riluttanza lui
cedette e mi offrì le sue focacce.
Le lezioni trascorsero lente fino al segnale dell’intervallo, poi ci recammo alla mensa. Al termine dei masticamenti, ci attardammo a conversare dei futuri impegni, dei sogni irraggiungibili e dei rispettivi scampoli di tediosa routine familiare. Gli argomenti più banali fornivano un ottimo pretesto per stare insieme. A vederlo, questo affezionato compagno, non differiva poi tanto da altri coetanei, se non nella maniera in cui contemplava il mio profilo o nel tono di voce con cui cercava di attirare l' attenzione. Egli rappresentava per me tante cose piacevoli, come il divertimento o la complicità. Era a quel tempo un adolescente prestante, con la zazzera birichina che si poggiava sui lineamenti del volto pulito. Se avessi per caso incespicato in quegli occhi scuri, resi più dolci dalla fiacca digestiva, avrei colto i versanti meno esposti della sua immaginazione. Ma non lo feci. Mai mi soffermai su quel respiro ruvido che trasudava emozioni pulite, o sul rossore d'imbarazzo con cui imprigionava i gesti più banali in un guscio di tenera goffaggine. Insomma non pensavo quasi mai a lui se non per farlo partecipe delle mie mascalzonate, soprattutto quelle che andavo progettando ad insaputa dei miei vecchi e del mondo intero. Coneh non faceva parte né dell’una né dell’altro, non potevo quindi lasciarlo all’oscuro.
<<Un bel buco. Ecco che ci vuole! Dovremmo riuscire a scavare un passaggio in pochissimo tempo e superare la recinzione. Ieri ho tracciato una mappa. Ce l’ho tutta qua dentro.>> Ammiccai, picchiettando il dito sulla tempia.
<< Ho individuato un accesso sicuro, lontano dagli occhi dei vigilanti. Il problema è quella maledetta rete, piuttosto. Ho pensato che tornerebbe molto utile un’elettro-vanga.>> Coneh non avrebbe sperato in nulla di più facile per compiacermi.
Con orgoglio si fece carico dell’impegno.<< Me ne occupo io. Considerala cosa fatta.>>
<<Scaverei là sotto perfino con le unghie.>>Ammisi, con mimica esplicita. <<Rimane da decidere il tempo giusto per superare la recinzione.>>
Sorseggiai la mia bevanda quindi, con una fermezza che non andava cercando pareri, esposi i miei piani:
<<Ci
muoveremo al sopraggiungere del vespro. A quell’ora l’intero settore sarà
deserto, eccezion fatta per le ‘creature’ e qualche volatile insonne.>>
<<Già,
non sarà difficile rintracciarle. Sappiamo che durante la notte si ritirano nei
pressi del ruscello, nel quadrante ovest dell’area. Ah, se potessimo conoscere
in anticipo la tabella dei controlli giornalieri.>> Disse sconsolato.
<<Roba
non da poco.>> Aggiunsi.<< Lo studio sul campo non prevede pause
perché i ricercatori devono registrare il maggior numero di informazioni
possibili, ma io so che alla sera, almeno una volta ogni dieci aurore, l’intero
settore viene presidiato da un piccolo drappello di addetti alla sicurezza. Non
sospetteranno mai della nostra presenza. Dovrò comunque indagare a fondo: mio
padre Khaled è sempre prodigo di chiarimenti e informazioni quando fingo di interessarmi
al suo lavoro.>>
Coneh si sfregò le mani: <<Sarebbe un bel colpo avere certi ragguagli.Se avessimo modo di utilizzare gli specchi mimetici potremmo scoprire un mucchio di altre cose interessanti.>>
<<Puoi
immaginarlo?>> Gli dissi. <<…Spiare quegli esseri quando
si scambiano effusioni. O tenere fra le braccia i loro piccoli...Credi ce lo
concederebbero?>>
<<Certamente.
Appena si riprodurranno non ci faremo sfuggire l’occasione. E magari riusciremo
perfino ad osservarli mentre si accoppiano.>> Coneh si rese conto del mio
disagio, non aveva mai pensato di spiare le creature in un momento così intimo.
Perché gli era scappato di bocca proprio ora?
Le sue pupille incandescenti caddero sulle
mie. Finsi indifferenza e cominciai a fissare un punto indefinito sulla parete,
concentrando sull’ insignificante bersaglio ogni particolare mi tornasse in
mente, cercando di prevenire eventuali intoppi o di escogitare il miglior
percorso possibile una volta dentro la riserva. Apposta, il giorno prima, avevo
speso molto tempo dietro quel cespuglio.
L’oggetto che accendeva il nostro entusiasmo
faceva parte del ceppo Mda 45, un genotipo di ultima generazione piuttosto
sofisticato. Nessuno prima di lui era stato esaminato tanto a fondo in ogni
specifica fase della crescita. Le procedure di collaudo avevano fornito dati
incoraggianti. Con la loro progettazione, avvenuta molto tempo prima, si erano
poste le basi sperimentali per il ripopolamento del pianeta e da questi
tentativi aveva preso corpo la prima fase del Progetto della Rinascita, un
disegno ambizioso ideato allo scopo di generare campioni altamente prolifici
con cui far fronte alla piaga del calo demografico.
La riduzione del tasso delle nascite si era verificata molte altre volte, ma non aveva creato squilibri tali da compromettere l’incremento della popolazione. Improvvisamente, all’alba dell’ultima era, quella antecedente al quinto evento catastrofico planetario*, gran parte degli abitanti delle regioni più popolose del pianeta avevano cominciato a manifestare un declino di fertilità assai più critico che in passato. Al principio la genesi della super-specie era andata incontro a molte difficoltà tecniche, derivate per lo più da effetti collaterali successivi al processo di ibridazione indotta; i primi esperimenti sulle razze potenzialmente compatibili avevano portato i ricercatori a conoscenza del fatto che, per via naturale, si sarebbero potuti generare solo individui sterili. Questo handicap aveva reso necessaria la cooperazione fra i migliori genetisti dell’Amadah e i medici chirurghi del ramo trapiantologico. Attraverso un intervento multidisciplinare essi avrebbero tentato un primo innesto tissutale (di organi riproduttivi) da un esemplare di femmina fertile a uno sterile, derivato per l’appunto dall’ ibridazione. Lo scopo era quello di ottenere da un individuo infecondo, uno capace di accogliere in grembo un ovulo inseminato artificialmente e di portarlo a maturazione fino alla gestione completa della gravidanza. Questi fatti erano noti a tutti in quanto negli ultimi tempi erano diventati una priorità per la martellante propaganda delle rappresentanze di governo.
Quando terminai di leggere questa lunga
sfilza di missive, erano le quattro e mezza del mattino. Mi preparai un robusto
caffè e senza perdere un istante provai a focalizzare meglio alcuni dubbi
lasciati insoluti nella prima,
frettolosa lettura. Rimasi incuriosito dalla figura del genitore della donna,
dalla qualità del loro vincolo parentale. Avrei così potuto sapere qualcosa di
più riguardo la sua famiglia di provenienza.
Determinati elementi non si possono indagare in modo troppo palese, per
non intaccare il carattere di necessaria spontaneità richiesto al paziente. Il
mio ruolo non doveva dettare i tempi e non poteva determinare il solco della
deposizione. Le scrissi allora poche indicazioni che lei sarebbe stata libera di
seguire, oppure no.
“Gentile Ohxen’im,
se la sente di parlarmi ancora di suo padre?
Vorrei
comprendere meglio le mansioni
e le responsabilità del suo importante
impegno scientifico”
___________________________________________________________________
- continua -
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