lunedì 13 ottobre 2025

Le Sette chiese (Post completo con aggiunta della seconda parte)

Piccola prefazione, con riferimento                                                                                                                                                    a  precedenti contributi dei lettori.

Post aggiornato il 23 08 2025

    Da più parti mi si chiede di riprendere il discorso sull'Apocalisse, rimasto in sospeso, proprio come l'insoddisfazione di alcuni lettori che, forse, si aspettavano una soluzione facilmente raggiungibile. Purtroppo siamo ancora alle premesse che comunque pubblico a favore di quei pochi che non beneficiano del dono della pazienza. L'avevo detto: l'Apocalisse è un osso duro!

      Per quanto posso ricordare nell' Apocalisse vi sono troppi simboli, difficilissimo quindi  ricondurli a precisi schemi cosmici.  Con qualcuno può funzionare, ma che dire delle cavallette , o dei terribili scorpioni che portano inaudite sofferenze all'umanità?  E poi c'è quel dannatissimo seicentosessantasei                                                                                    Credo che tutti abbiano fallito nel nel proposito di  fornire una  spiegazione convincente.  Insomma, si è tentato di tutto e, sotto il profilo delle rappresentazioni astrali, mi è sembrato che l'impegno si sia rivelato anche più duro del previsto. Comunque l'argomento è troppo vasto per risolverlo in poco spazio e poco tempo, e poi ci sono i sigilli, le trombe etc. etc. Un bel casino! Occorre però cercare di fare chiarezza con l'impianto simbolico   Nella settima parte del libro di Daniele, da noi pubblicata   qui  , si fa cenno all'Apocalisse e, in particolar modo, ai 'sette tempi'. L'analogia coi sette sigilli e le sette trombe, balza all'occhio. Occorre riflettere bene su questi elementi. I sigilli potrebbero indicare la fine, la chiusura di un' epoca, così come Daniele doveva porre dei sigilli ai peccati commessi dal suo popolo. Non a caso i sigilli sono sette come le epoche della dannazione e del peccato commesse dall'umanità dopo l'armonia dell'Età dell'Oro. Invito ad un'attenta analisi riguardo questa soluzione: forse può rappresentare un primo tassello del complicato enigma del libro dell'Apocalisse. Rispetto a quanto detto precedentemente  aggiungerei che i primi passi del libro non trattano numeri, a parte il sette (Le stelle, le chiese, i sigilli e le trombe), benché il Cristo vestito di una tunica, pare somigliare, per caratteristiche delineate dall'autore, al gigante del sogno di Nabucco (Libro di Daniele). In questi nostri articoli, non so se qualcuno lo ricorda, generalmente quando si parla di drappeggi , tuniche o veli, si è fatto riferimento a rappresentazioni di cicli temporali. Il Vivente che si definisce 'alfa e omega', a mio avviso potrebbe indicare l'estensione temporale dei famosi sette tempi scanditi rispettivamente dall'età dell'Argento (Capelli bianchi come 'neve' recita il versetto Ap 1, 14 e anche qui la nostra idea dell'età dell'Argento vista come epoca delle glaciazioni , pare delineare un significato preciso), del Fuoco (Terra combusta provocata dalla scansione stagionale rappresentata dagli occhi fiammeggianti) e del Bronzo, elementi che compaiono nel Vivente della Rivelazione finale. Sono i tempi compresi fra l'età dell'oro (Rappresentata dalla cintola d'oro stretta in vita del Cristo, come a tenere insieme i sette cicli temporali durante i quali l'umanità si è degradata per demeriti propri) e i flagelli apocalittici

Da un commento di GBC (Giovanni) del dicembre del 2023:                                                                                                                                   In pratica sono i tempi del semi ciclo precessionale in cui l'umanità corrotta ha provocato l'intervento del Salvatore, l'Agnello.


         Questo motivo lo si ritrova nel mito di Zoroastro (Zarathustra) , dove il dio supremo Ahura Mazdā  invia il suo profeta all'umanità corrotta per porre termine al suo degrado spirituale fattosi oramai eccessivo, ai limiti del recupero. Zoroastro, allora, è un 'salvatore' . Anche quando viene chiesto a Giovanni di riportare alcuni messaggi degli angeli delle sette chiese, si entra nel merito di un' umanità infettata dal proprio peccato, specialmente per quanto concerne le chiese di Sardi, Filadelfia o Laodicea. Ogni brano del famoso libro apocalittico comincia col rimarcare le virtù degli angeli posti a guardia delle città (Cioè delle condotte dei loro abitanti) per poi terminare con esortazioni di obbedienza e fedeltà. Il Signore, che dovrebbe essere il Cristo,  si rivolge agli angeli delle sette chiese definendosi di volta in volta come Colui che porta sette stelle nella mano destra, poi come Colui che ha sconfitto la morte, ed ancora come Colui che apre e chiude porte già aperte. Gli abitanti delle città dell'Asia Minore sembrano rappresentare un campione significativo dell'umanità corrotta ed allora ecco che il numero sette calza a pennello con la fase dei sette tempi menzionata più volte, quella fase cioè che comprende i tempi fra l'età aurea e quella della salvezza, lasso temporale in cui l'uomo da creatura divina va via via degradando la sua purezza primigenia. Ma in definitiva questi primi passi del testo, paiono quasi totalmente privi di numeri. Procedendo con la lettura giungeremo allora alla descrizione del trono su cui siede il Cristo che 'ha sconfitto la morte e che vien retto da 'quattro viventi, indiscutibilmente rappresentati dalle quattro ere precessionali, corrispondenti alle figure astrali del Leone, del Vitello (Toro) , dell'Uomo (Acquario) e dell'Aquila/Scorpione (Tetramorfo sacro). 

  Qualcuno potrebbe notare, tuttavia, che i sette tempi qui menzionati, non combacino coi sette tempi dell'emiciclo cristiano, che comprende i sei dalla casa del Pane (Segno della Vergine) alla casa dei Pesci, + l'Acquario (O anche: Aquario), un intervallo poco più breve di 13.000 anni. Infatti, questa associazione non regge perché escluderebbe dal computo il motivo del vecchio 'coi capelli bianchi' , da noi individuato come rappresentazione dell'età dell'Argento. La versione apocalittica di Giovanni, in tutta evidenza, parte da un contesto universale e pone l'uomo con la tunica bianca, entro un lasso temporale geologico-mitologico ampio, nel quale dopo l'era dell'Argento giungerà il fuoco e il fenomeno della terra combusta, in piena concomitanza con le fasi stagionali.

La chiesa di Efeso. Vi sono comunque diversi riferimenti astronomico temporali da tener conto quando si parla delle sette chiese. In quella di Efeso, ad esempio, 'Colui che parla' tiene in mano sette stelle e dalla sua bocca esce una spada a doppio taglio. Nel passo in questione, l'evangelista comincia elencando le lodi per l'angelo fedele , tuttavia immediatamente dopo si vanno a riportare alcune sue inadempienze per poi proseguire con un'esortazione assai poco amichevole, quasi una minaccia nei suoi confronti: 'Altrimenti io verrò da te e, se non ti sarai convertito, rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto', per concludere con il 'premio' assegnato in caso di ubbidienza e adempimento delle attese: '...l'angelo vittorioso potrà mangiare dall'albero della vita che è nel paradiso di Dio'. Qui si promette, dunque, un ritorno al Gan-Eden, il luogo mitico dell'età dell'Oro. 

   In effetti questi elementi narrativi sembrano coerenti e comprensibili agli occhi di un lettore; non è così, invece, nei brani che riguardano le altre chiese, benché lo scritto mantenga alcuni caratteri comuni.  

I DIECI GIORNI. A Smirne, nell'odierna Turchia, il Signore si qualifica come 'il Primo e l' Ultimo' e, contemporaneamente, come 'Colui che giacque morto e poi resuscitò'. Nel medesimo  paragrafo compare poi una cifra, si parla del diavolo il quale mette in carcere alcuni fedeli che dovranno dimostrare di essere fedeli all'Agnello, resistendo a una tribolazione di dieci giorni. La compensa per il vittorioso sul diavolo sarà dunque la piena vittoria sulla morte. 

    Rispetto alla narrazione che riguarda la chiesa di Efeso si rammenta la presenza dell'albero della vita, da noi identificato come l'Axis Mundi pagano. Mangiare i suoi frutti significherebbe proseguire a scorrere secondo i tempi di armonia ed equilibrio del paradiso raggiunto. La presente citazione potrebbe - a nostro avviso - riguardare un'epoca priva di stagioni, cioè di sbalzi climatici. Se inoltre, come scritto in precedenza, il candelabro rappresentasse uno dei sette tempi ed allora, 'rimuoverlo dal suo posto' potrebbe voler dire  la sua rimozione dal tempo della salvezza finale. In pratica ci sembra che nei passi qui riportati si proclami anzitutto l'auspicio di un ritorno ai tempi della pace e dell'armonia, quelli che abbiamo visto far parte dell'età dell'Oro, l'era precedente a quella dell' Argento. Il tutto potrebbe riguardare per l'umanità,  la promessa del ritorno alle origini di purezza. Naturalmente la promessa sarebbe valida solo per coloro che si fossero dimostrati meritevoli.  

La chiesa di Smirne. In relazione a quanto abbiamo detto fino a questo momento, la Chiesa di Smirne potrebbe pertanto rappresentare l'era dell'Aquario (senza c). I dieci giorni di reclusione, in cui si accenna nel testo, sarebbero senza dubbio i dieci giorni/gradi amputati alla casa precessionale dell'Aquario, sempre secondo il ragionamento di cui abbiamo abbondantemente dibattuto nei precedenti articoli. I dieci giorni sarebbero in definitiva gradi precessionali della durata complessiva  di 720 anni solari.

La chiesa di Pergamo. In questo paragrafo troviamo l'uomo 'con la veste bianca', il quale si qualifica 'possessore della spada a doppio taglio'. L'angelo di Pergamo è lodato intensamente per la sua fermezza, soprattutto per la vicinanza della sua chiesa con la casa di Satana. A questo punto bisogna capire dove possa tenere dimora Satana. A nostro avviso Satana alloggia nel punto in cui il Salvatore è più debole; per capire dove, dunque , possa essere più debole il Salvatore, bisogna riprendere una precisa rappresentazione astrale che, ovviamente, riguarda la posizione del sole nel suo ciclo di continua nascita (al solstizio d'inverno) e morte (al solstizio estivo),  oppure, secondo come lo si vuol considerare, all'equinozio  autunnale. Quando nasce egli è dunque più debole, o per lo meno così intendiamo noi le cose. E se così l'avesse inteso anche l'Autore dell'Apocalisse, potrebbe significare che il punto in cui il sole nasce è anche quello in cui il potere del buio è al suo massimo livello, da qui il concetto di 'vicinanza' alla dimora di Satana. Si pensi che al solstizio invernale la luce solare alle nostre latitudini (Che poi sono anche quelle di Patmos) dura 10 ore - Per questo si dice ' il sole bambino' -  mentre il buio mantiene una durata di 14 ore. Da qui si deduce che siamo in prossimità del 'punto zero', punto di transizione che, riportato nella scala dei tempi umani, indicherebbe il punto di divisione fra le epoche del peccato  precedenti,  e quelle successive della redenzione che prendono l'abbrivio ufficialmente quando il Salvatore nasce ed è ancora un fragile 'infante'. Il passo in cui si dice che è stato messo a morte un 'testimone fedele', coerentemente con le soluzioni da noi esposte, specifica ancora che proprio là  Satana avrebbe collocato la sua dimora. Il 'fedele testimone' sembra essere quindi Giovanni Battista, indicato da altre fonti come 'colui che si ferma (che ferma la sua vita, dunque viene messo a morte) laddove il Cristo comincia a crescere', e qui la rappresentazione del ciclo annuale del sole sembra essere l'interpretazione più attinente. Tutti gli elementi riportati nei testi paiono così connessi fra loro. Nel paragrafo sulla chiesa di Pergamo si menziona inoltre Balaam, portatore di corruzione e si conclude con la minaccia della spada, altro elemento simbolico che potrebbe suggerire l'avvento dell'epoca di transizione. Al vittorioso si promette infine la manna nascosta e il sassolino bianco. Soffermiamoci adesso su questi simboli e  quali possano essere i loro significati. 


  1. La spada a doppio taglio. Abbiamo sempre inteso che il simbolo della spada, o della lancia, riporti il significato di 'punto di transizione fra due epoche '. Mettendo insieme la casa di Satana, il punto cioè dove Satana è più potente, la figura di Ponzio Pilato, e non ultima quella di Longino. La spada a doppio taglio indicherebbe che il Dio è presente sui due versanti del tempo , prima e dopo la nascita del Cristo. Longino infatti usa la lancia in una direzione , indica – secondo noi -  il tempo della conversione, mentre il significato di Pilato Ponzio, ( letterale: portatore di lancia che viene dal mare ) potrebbe suggerire che in quel frangente   Satana è più presente che  in passato, è insomma molto più forte di sempre. Ma si tratta di un tempo parallelo dove il  bene/Dio e il male/Impero Romano, si contenderanno il predominio. Sono perciò tanti gli indizi in ballo con un' unica accezione: siamo nel punto di passaggio fra l'epoca dell'Ariete e quella dei Pesci (Elemento correlato al mare/pontium ma anche al numero cinque che è un'altra traduzione del termine 'Ponzio'. Se dunque l'era fosse, come da noi sostenuto, quella dei Pesci , dopo le altre due rispettivamente settima e sesta, cioè Efeso e Smirne, Pergamo corrisponderebbe come cifra alll' era numero cinque: Ponzio per l'appunto

   Per quanto concerne il 'sassolino bianco ' , ricordo che su At 26:10, menzionando l'autorizzazione ricevuta dai capi dei sacerdoti , Paolo afferma (In riferimento  all'esecuzione dei discepoli di Yeshùa):      ' Quando erano messi a morte io davo il mio voto '.   Questa la frase in greco:  κατήνεγκα ψῆφον (katènenka psèfon),   vuol dire letteralmente : 'gettai giù una pietruzza' . Sappiamo infatti che nei tribunali, per emettere il giudizio definitivo, erano impiegate delle pietruzze (Dei sassolini, per l'appunto) di colore bianco per scegliere l'assoluzione e di colore nero per determinare il giudizio di colpevolezza.  I giudici gettavano i loro sassolini in un'urna e così manifestavano il loro voto. 

   E siamo alla quarta chiesa, quella di Tiatira. Abbiamo constatato che la chiesa di Smirne può essere correlata in chiave precessionale alla casa dell'Acquario e quella di Pergamo alla casa zodiacale dei Pesci, seguendo il ragionamento allegorico e procedendo in ordine inverso al ciclo zodiacale, potremmo dunque identificare la chiesa di Tiatira con la casa dell' Ariete. Il brano comincia con l'immagine degli occhi ardenti e i piedi di bronzo del Vivente in tunica bianca. L'angelo della chiesa di Tiatira sembra far parte della schiera dei fedelissimi anche se gli si rimprovera fermamente di tollerare oltre ogni misura lecita Gazabele, la prostituta. Nel punto in cui è scritto: 'io sono Colui che scruta reni e cuore' , si lascerebbe intendere la possibilità che dietro questi termini, riferiti a organi vitali dell'uomo, si nasconda un nuovo impianto simbolico. Tuttavia non  approfondiremo questo aspetto delle scritture, proprio perché privo di contenuti cifrati. Per quanto riguarda invece la chiesa di Tiatira, aggiungerei soltanto che la citazione della prostituta (O falsa profetessa) Gazabele, pare ricollegarsi alla prostituta citata in  Ap 17, cioè  Babilonia. Da questo dato abbiamo ricostruito uno schema temporale preciso che si riferisce all'epoca storica in cui il sovrano babilonese deportò gli ebrei a nord. Dovremmo riferirci perciò ad un arco di seicento anni precedenti la venuta del Cristo, in piena era dell' Ariete. Il premio per chi non seguirà l'esempio della meretrice babilonese sarà quello di dominare su tutte le nazioni, sovranità - sempre secondo il testo - suggellata dal possesso dello scettro di ferro. Il capitolo, in un nuovo quadro di evidenti richiami simbolici, si conclude con la rottura dei vasi d'argilla, quindi col presagio della fine delle autorità pagane ostili all'Agnello. Ed infine riportiamo un ultimo elemento su cui ragionare, ma sul quale non ci soffermeremo ulteriormente, che è il possesso della 'stella del mattino'. 

   La chiesa di Sardi. A questo punto della narrazione giovannea, se la precedente chiesa di Tiatira rappresentasse la fase precessionale dell'Ariete, la successiva chiesa introdotta nell'elenco  (quella di Sardi, per l'appunto) potrebbe essere identificata certamente come la casa del Toro. Ci è sembrato particolarmente significativo che questa chiesa venisse definita 'morta' , poiché il Toro, in precedenza, aveva indicato il contesto delle religioni 'pagane' che erano state superate con l'avvento dell'Ariete,  nel senso che, il Toro all'equinozio di primavera, aveva lasciato il proprio posto nella sua sede precessionale, mantenuto per 2160 anni, all'Ariete. Ad ogni modo, a questa chiesa, quella di Sardi, si rivolge Colui che possiede  'i sette spiriti di Dio e delle stelle'. In questo passo, il Signore esorta con queste precise parole l'angelo di Sardi:   'Svegliati!' Poi gli dice ' rinvigorisciti!, volendo così suggerire  che da quel poco di devozione autentica rimasta  in quel luogo possa rinascere una forza di devozione del tutto nuova e, per l'appunto, piena di vigore. Allo stesso tempo l'esortazione 'rinvigorisciti', potrebbe significare che l'Agnello è ancora in fase ascendente, non è cioè giunto al pieno del suo potere salvifico. Infine seguono lodi del Signore per gli abitanti di Sardi, non molti in realtà, che nonostante i tempi difficili sono riusciti a mantenere salda la loro fede. Ed ancora nel testo si parla di vesti di purezza e della possibilità di salvezza come condizione permanente entro il 'grande libro della vita' .

Chiesa di Filadelfia. Anche sulla chiesa di Filadelfia non vi sono contenuti cifrati. Per questioni di consequenzialità la identificheremo dunque alla casa precessionale dei Gemelli, senza l'ausilio di ulteriori indizi. Continuando la lettura del testo vediamo che, quasi stesse dettando le sue indicazioni, il 'Signore' in vesti bianche già incontrato in precedenza, si qualifica come 'Colui che ha la chiave di Davide', e da questo motivo introduce l'elemento delle porte chiuse e aperte. Potrebbe significare che ha il potere di decidere quando e come far concludere i tempi , quando scandire cioè i tempi delle ere. La chiave d'Israele fornisce dunque il lasciapassare per la Città Santa, nel senso che, una volta entrati in essa gli uomini diventeranno finalmente liberi, nel senso più pieno del termine. Il testo pone poi il problema dei 'falsi giudei' da redimere . Il Signore in vesti immacolate esorta così a mantenere la corona e afferma di fare, dell'angelo di Filadelfia, una colonna del tempio e in seguito egli dice che inciderà su di lui, e per sempre, il nome del suo Dio e della città di Gerusalemme. Da questo scritto - come si può notare - non trapelano correlazioni evidenti col segno dei Gemelli , a meno che non si voglia alludere al nome arcaico della città santa che, appunto, significava Città di Shalem, nel mito antico, uno dei due gemelli nipoti del dio supremo El (Fonte Wikipedia). L'archeologia data il primo insediamento di un nucleo di abitazioni nell'area esatta in cui oggi sorge Gerusalemme, cinquemila anni avanti Cristo. Curioso constatare che quell'epoca corrisponde in chiave precessionale proprio alla fine dell'era dei Gemelli (Era dell'Ariete : 0- 2160 anni a. C. ; Era del Toro : 2160 - 4320 a.C. ; Era precessionale dei Gemelli : 4320 - 6480 a.C.)  

Chiesa di Laodicea. Per tutto ciò che riguarda la Chiesa di Laodicea non posso affermare vi siano nel testo giovanneo correlazioni evidenti con qualche fenomeno astronomico. Secondo il nostro parere, tutt'altro che insindacabile, la Chiesa di Laodicea corrisponderebbe alla casa precessionale del Cancro. Secondo il sottoscritto i punti focali andrebbero cercati nei passi che parlano di luogo 'né freddo, né caldo' e dalla purificazione dell'oro attraverso il potere catartico del fuoco. Vi sono diversi indirizzi interpretativi da tenere in considerazione, uno legata per l'appunto al luogo inteso come fase transitoria precedente alla purificazione. Il fuoco, cioè il luogo caldo, agirebbe cioè sulla materia da purificare, il metallo grezzo  alchemico , quindi il simbolo dell'anima immonda (O perlomeno che si è resa tale.) 


    Abbiamo detto quindi che la chiesa di Laodicea corrisponderebbe  alla casa precessionale del Cancro per il fatto che i passi del testo parlano di luogo 'né freddo, né caldo' e dal principio di purificazione dell'oro col fuoco. Queste rappresentazioni richiamano il fenomeno ampiamente riportato in precedenza, della terra combusta, , un fenomeno cronologicamente collocabile al periodo immediatamente successivo all'epoca mitica dell'Età dell'oro. La venuta del Cristo, rappresentata nel firmamento zodiacale dalla mangiatoia (Stella Praesepe, stella Regulus, ovvero 'piccolo Re', entrambe nella costellazione del Cancro), sarebbe quindi da mettere in correlazione con la nascita del Sole (L'alba , o il solstizio invernale nel ciclo annuale). Ed anche alle sue origini, la città era chiamata città di Zeus, (E prima ancora, città di  Amon), Nel procedimento alchemico, su base simbolica, non sarà difficile individuare questa fase come quella di purificazione dell'oro, il quale, per l'appunto, comporta una fusione dell'elemento solido in elemento liquido (fase primordiale). Nella trasposizione simbolica la purificazione corrispondente al fenomeno della terra combusta, riguarderebbe dunque un procedimento rivolto all'umanità che una volta fuori dalla Età Aurea, il leggendario Eden biblico, avrebbe cominciato a perdere purezza, dunque a contaminarsi spiritualmente. Fino a questo passaggio catartico, quello della purificazione ardente, l'umanità si sarebbe trovata in uno stato termicamente tiepido, né caldo, né freddo in rapporto al calore vivo della Fede, Ciò perché il Bimbo Salvatore , appena nato ed ancora incapace di esercitare il suo potere,  non aveva ancora raggiunto la maturità , epoca in cui sarebbe stato consacrato simbolicamente come  fuoco purificatore. Il bimbo adagiato nella mangiatoia era insomma ancora troppo tiepido ed infatti la narrazione cristiana neotestamentaria gli affianca due bestie da stalla che col loro fiato eviteranno al piccolo l'ipotermia letale. 

                   moltitudine di vegliardi                                                            



La questione dei 'ventiquattro vegliardi in tunica bianca', muniti di corona rappresenta un qualcosa a cui non siamo riusciti a dare un senso astronomico. Impensabile, infatti, si tratti delle ore del giorno, dato che i vegliardi sono pressoché somiglianti fra loro, mentre le ore della giornata sono molto diverse, specialmente quelle diurne e quelle notturne. Il tratto simbolico della figura insomma è chiaro, ma solo all'autore, per quanto ci pare di capire. 

Per concludere metto a margine le seguenti note:

I Caldei distinguevano, al di fuori del cerchio zodiacale, 24 stelle di cui 12 australi e 12 boreali, chiamate “Giudici dell’Universo”. Esseri celesti che secondo la mitologia babilonese e persiana costituiscono la corte celeste. Questi 24 Vegliardi corrispondono alle 12 grandi forze cosmiche celestiali e alle 12 terrestri. Colui che è sul Trono è il Sole Centrale - il Nucleo della Cellula Solare. Le corone d’oro sulle teste dei Vegliardi simboleggiano la loro forza individuale o potenza di vita, materiale e spirituale. Per l’antica sapienza cinese, 24 sono le fasi dell’anno solare, chiamate chieh-ch’i.





 

Trumpozzi: sconcertanti analogie

 

Da non credere

   Trumpozzi, paladino convinto delle democrazie occidentali piange come un vitello davanti ai lussi e agli sfarzi di corte della Corona britannica. In pratica si commuove, certo. Come no. Ma non per quel passato di sofferenze subite da una consistente fetta di umanità in schiavitù,  bensì per una sorta di affettata ammirazione che puzza di complesso di inferiorità  per  le ricchezze, le tenute a perdita d'occhio e i castelli grondanti di sangue, edificati sulla carne, sul sudore e sulle inaudite sevizie patite  dalle popolazioni colonizzate nei secoli dai monarchi inglesi.  Che pena! Che democratica ignoranza! 

                      18 Settembre 2025.

                     -   Facci pure signor Trumpocci. Facci pure come se fosse a casa sua. 


   


sabato 4 ottobre 2025

Tango

 

                                                                                     Tango

venerdì 19 settembre 2025

Trumpozzi : sconcertanti analogie.

18 Settembre 2025.

                                           -   Facci pure signor Trumpocci. Facci pure come se fosse a casa sua. 



 

giovedì 31 luglio 2025

Buone Ferie estive

 Per un mese, o forse più (?), interromperemo la pubblicazione di nuovi contributi. Rimarremo però sempre  in campana per coloro che, durante l'estate , vorranno interagire nel commentario dei nostri post. 

Riprenderemo quindi  nel mese di Settembre, massimo ad Ottobre, con la pubblicazione del post rimasto in sospeso sulle Sette chiese, tratto dai primi capitoli dell'Apocalisse di Giovanni. Il lavoro in fase di rifinitura avrà come titolo: Le Sette Chiese. In questa ultima pubblicazione riprenderemo la prima parte debitamente aggiornata e accorperemo ad essa la restante porzione dell'articolo, con la grafica riassuntiva (uno schema) in cui ogni chiesa sarà associata a una specifica casa zodiacale.  

   Non ci resta che augurare a tutti di trascorrere un' estate serena, a che ciascuno abbia modo di riprendere saldamente l'equilibrio necessario e le energie per affrontare gli impegni del prossimo inverno.  


Buone vacanze!

FPB

mercoledì 23 luglio 2025

Senza giardinieri non c'è Natura. (Seconda parte)

 Il mio commento approvato e pubblicato nel post dell' articolo di Giorgio Mascitelli, sul sito Nazione Indiana, mira a far notare come, a fronte di un pezzo scritto con l'intento di criticare l'uso della IA nelle scuole, si finisce per far passare un'analogia piuttosto discutibile, quando non pericolosa, fra scrittura e tecnologia, inducendo velatamente il lettore a ritenere che, in fin dei conti la scrittura è diventata utile (utilità attribuita quindi alla 'tecnologia' scrittura) se non indispensabile allo sviluppo e all'emancipazione della cultura. Tuttavia, come cercheremo di confutare in questo articolo, partendo da una premessa sbagliata anche la conclusione finirà per essere fallace e quindi l'IA come acquisizione tecnologica può portare sviluppi ben diversi dalla scrittura, la quale - a nostro avviso - non può essere ritenuta una tecnologia nel senso moderno del termine. 

   L'articolista Giorgio Mascitelli introduce cioè un criterio improprio ponendo la scrittura come una qualsiasi tecnologia volta a facilitare la trasmissione della memoria e quindi a sostituirsi al metodo orale, che secondo gli 'innovatori' della modernità indicati dal Mascitelli, avrebbe costituito un importante metodo per emancipare la cultura e quindi lo sviluppo di una civiltà superiore. I contenuti impliciti in questo assunto, sono vari e  poco attinenti a concepire il senso più profondo dello strumento scrittura, la cui origine - com'è noto - parte dalla possibilità che ad un certo punto del suo sviluppo, la mente umana abbia cominciato a tradurre in figure dipinte, le immagini che costituivano la base del proprio pensiero. Con le immagini estremamente semplificate, in guisa di segni rappresentativi, trasformate prima  in geroglifici e poi in ideogrammi riferiti allo schema figurato, si è poi passato alle lettere e alla scrittura vera e propria, senza che questo passaggio limitasse le facoltà artistiche con le quali il processo era iniziato. Il risultato ottenuto non può essere considerato sostitutivo delle prime forme di rappresentazione grafica, che infatti non sono state messe da parte dal genere umano, semmai si sono perfezionate rimanendo fortemente ancorate anche alle sue dinamiche di conoscenza , analisi e rappresentazione della realtà, e fin ad oggi ritenuti a ragion veduta importanti metodi di sviluppo ed emancipazione, anzitutto della mente, della capacità critica e di indagine individuale. Chiusa questa necessaria parentesi e assodato che la scrittura non ha sostituito altri e più importanti  metodi di rappresentazione artistica (come invece sta facendo la tecnologia digitale e la stessa IA), quindi non ha definito un salto tecnologico, si può capire che la scrittura non ha nulla a che vedere con i principi di sviluppo tecnologico moderno, con la sua falsa ambizione di traghettare il genere umano verso traguardi di superiorità intellettuale, culturale, civile, nei confronti delle popolazioni vissute nel passato. Insinuarlo fra le righe, lasciando passare il concetto scrittura = tecnologia, vuol dire , viceversa non aver compreso un batacchio arrugginito, delle culture che ci hanno preceduto e quindi non poter progredire verso un futuro migliore, in tutti i sensi. 

Commento su Nazione Indiana, al post di Giorgio Mascitelli dal titolo: Sull'avvenire intelligente delle nostre scuole 

   Ora si potrà comprendere meglio l'orrore da me provato per l'uso strumentale che si fa ancor oggi, di Platone,  la cui opera immensa, non mi sembra sia stata tramandata oralmente bensì attraverso testi scritti. Il perfido greco forse voleva cominciare a colpire la memoria, ergo le facoltà intellettive, del torbido genere umano? La memoria , si è detto. Le biografie parlano di un Einstein un po’ carente sotto il profilo mnemonico, mi pare di ricordare. E allora? Viene lecito chiedersi quale significato abbia la memoria nella costruzione di quella Conoscenza tanto cara al filosofo ateniese. La memoria è anzitutto una capacità compensabile, così come lo sono altri sensi, altre abilità. Mica ci vuole Einstein per capire che memoria e intelligenza non sono sinonimi, né  complementari. Un sistema che progredisce in misura utile alla memoria pertanto non può essere parimenti assimilato ad un sistema che produce un supporto all'intelligenza propriamente detta la quale può, come suggerisce il caso di Albert Einstein, progredire ugualmente anche in condizioni di carenza mnemonica.  Ed inoltre che fine ha fatto il valore di quel linguaggio simbolico col quale Platone affrontava il problema di tramandare la Conoscenza ai posteri, sviluppato  successivamente ed esplicitamente nel suo Mito della caverna? L’emancipazione dell’uomo dunque passava per ben altre questioni e non capisco proprio l’origine della citazione che, alla fine sembra aver il solo scopo di paragonare impropriamente la scrittura alla moderna tecnologia.  Ancora una volta si trattano gli autori della tradizione arcaica, interpretando i loro insegnamenti con gli schemi mentali e l’approccio analitico di un uomo moderno. Non capisco nemmeno come si possa pensare che per gli antichi la scrittura fosse semplicemente un supporto alla memoria, quindi all’intelligenza stessa, dato che implicitamente si è voluto lasciar intendere che l’una fossa prerogativa dell’altra. All’opposto, il significato e il valore dell’intelligenza (il nous intuitivo, anzitutto), come insegna proprio Platone, sta nella facoltà di ‘lettura interiore ( leggersi dentro = intelligenza), non certo nella quantità delle informazioni ricordate per lungo tempo, che relega la facoltà mnemonica a struttura puramente materiale dato che la si può comprendere e misurare entro le categorie fisiche dello spazio-tempo. La memoria , come la carta, è dunque il supporto organico/materiale (quindi ben diverso dalla struttura delle idee e della psiche ψυχή ) del pensiero, ossia il mezzo col quale l’idea trova la maniera di manifestarsi nel mondo fisico/materia. Ma non ne è la causa! Il significato profondo non sta nelle pagine di un libro, nè nella possibilità di ricordarle. Se pur distruggessimo tutti i libri della Divina Commedia, non ne distruggeremmo il significato. E nemmeno dimenticandola riusciremmo a scalfire il messaggio veicolato che troverebbe modo di manifestarsi ancora in quanto patrimonio della psiche, quindi dell’anima estranea allo spazio-tempo. Neppure il cervello può essere paragonato o considerato sede della psiche, altro elemento connesso impropriamente e materialisticamente al significato di intelligenza e ciò è dimostrato dall’importanza (scarsa) che (nel mondo antico) si attribuiva a quell’organo. Ma è proprio da quanto ci tramanda/suggerisce Platone che si può far fronte ai rischi , facilmente intuibili, che può apportare una falsa-innovazione e perfino si può giungere a comprendere chiaramente e formulare un  criterio selettivo col quale comprendere quali innovazioni siamo davvero tali , nel senso che concorrono al raggiungimento della saggezza/sapienza all’elevazione/salvezza dell’uomo, e quali invece no; che in termini junghiani vorrebbe dire come tenere sotto controllo l’espansione incontrollata dell’ego da cui ogni brama di potere (l’ia è solo l’ultima di queste aspirazioni) prende l’abbrivio.

questo commento è stato pubblicato su Nazione Indiana.

Attendiamo la risposta. 

Dopo aver atteso invano, possiamo affermare che ad oggi,  data della pubblicazione di questo post,  il nostro commento su NI non ha provocato reazioni. Il fatto era peraltro facilmente prevedibile, il Mascitelli non ha ritenuto opportuno replicare, forse perché non ne aveva i mezzi. Ed allora ecco che l'interrogativo posto da un lettore, quello cioè che si chiedeva chi programmerà le macchine in un futuro senza programmatori, dato che l'IA farà piazza pulita anche di loro, si rivela un falso problema dal momento che le idee, o i calcoli specifici della programmazione che valgono qualcosa, non richiedono alcuna figura specializzata per esser mantenuti. Infatti se i calcoli non li eseguirà nessuno significherà inevitabilmente che la programmazione delle macchine non è un'attività importante affinché  l'umanità, intesa come parte della psiche collettiva, possa elevarsi a rango più alto.  A ben vedere oggi i calcoli a mano non si eseguono più neanche nella scuola dell'obbligo, allo stesso modo un domani la figura umana potrà premere un tasto per attivare un programmatore automatico, a seconda del compito che intende svolgere, come oggi preme i tasti di una calcolatrice per eseguire un calcolo complesso.  Sarà questo il massimo sforzo richiesto alla nostra psiche. E non dico 'al nostro cervello' , quello così com'è va benissimo per adeguarsi al livello di una tecno-scimmia. Come già scrisse qualcuno, "siamo nati per essere dèi, ma ci accontentiamo di essere, o rimanere - aggiungo io - , scimmie violente". 

     Ma potremmo considerare anche uno scenario diverso, in un mondo che di menti pensanti potrà  farne tranquillamente a meno, ciò significa che il genere umano potrebbe affidarsi completamente a uno specifico tipo di tecnologia, così come un ragazzino può guidare un'automobile e portarla alla massima velocità senza aver idea di come funzioni la sua parte meccanica ed elettronica, o come si fa uso di piccoli dispositivi Smart senza capire quali condizionamenti possono provocare sullo sviluppo mentale. Che questa tecnologia, l' IA,  possa rappresentare un vantaggio per l'intelligenza e il progresso dell'umanità, è un fattore del tutto incognito al momento. A meno che non volessimo rispolverare il saggio monito degli antichi, che fecero punire Prometeo (Colui che pensava prima di agire e che diede all'umanità il fuoco, quindi la tecnologia) per il suo atteggiamento filantropico, ritenuto dannoso per la Natura, nelle vesti archetipiche dell'onnipotente Zeus.  Porsi un simile problema, cioè considerare la programmazione delle macchine come fosse una risorsa imprescindibile per un non meglio definito progresso, è come dire  che la Natura per manifestarsi in tutto il suo splendore avesse  bisogno dei giardinieri, o che l'idea di Dio  avesse bisogno dei preti, delle gerarchie e del cattolicesimo per poter germogliare nel cuore delle persone. Qui però non si parla né di Dio né di Natura, ma di qualcosa che si vuol sostituire ad essi.  

lunedì 30 giugno 2025

Senza giardinieri non c'è Natura

 dedichiamo questo post all'articolo pubblicato il 23 Giugno 2025 su NAZIONE INDIANA

dal titolo 'Sull'avvenire intelligente delle nostre scuole'. Il contributo di Giorgio Mascitelli ci ha incuriosito soprattutto per l'uso che si fa di Platone. Non è l'articolista ad attribuire determinati significati alle parole del filosofo ateniese. tuttavia il suo commento indiretto, lascia pienamente percorribili i significati , a nostro avviso fuorvianti, impressi dall'interprete occasionale di Platone, che il Mascitelli propone ai lettori come  ' Uno dei topoi degli innovatori tecnologici della scuola', cioè come un leitmotiv, un innocuo luogo comune usato come trampolino di lancio dell'innovazione tout court, salvo poi non commentare adeguatamente quanto di implicito rimaneva nel messaggio conchiuso nel topos in questione, ovvero l'identificazione della memoria come un attributo, quasi sostitutivo dell'intelligenza. Che il cuore, il sunto più significativo della vasta opera di PLatone, sia ignorato tanto dai lettori (come verificabile da commentario del post di NI) quanto dal Mascitelli,  lo mostra chiaramente il seguente scambio di battute fra l'autore e il gentile lettore Domenico : 

- L’intelligenza artificiale puo’ essere un valido aiuto a scuola specialmente per quelle operazioni che richiedono calcoli complessi con procedure che richiedono calcoli di integrali  e derivate , seno e coseno e tangenti. Possono semplificare di gran lunga le operazioni , ma cio’ non toglie che gli studenti devono sempre essere in grado di riprodurre i calcoli manualmente, se no nel futuro chi e’ che programma le macchine per effettuare i calcoli?

 Così replica Giorgio Mascitelli il   :

- E’ una domanda più che legittima che andrebbe rivolta a coloro che caldeggiano l’uso dell’IA nella scuola.



   A nostro avviso, sia interlocutore di turno che Autore , col loro commento non fanno che consolidare anziché dissipare, il vizio contenuto nello slogan attribuito a Platone. Perché  - concedeteci la licenza - di stupido slogan si tratta. Non viene infatti chiarita la posizione indubbia, a considerare l'opera di Platone, del suo pensiero e dei suoi criteri. Così facendo però i partecipanti alla conversazione finiscono per assecondare il sistema propagandistico che promuove l'IA (I sedicennti 'innovatori' , cioè i fautori della tecnologia chatGpt ad uso scolastico), anziché formulare un ragionamento corretto ma soprattutto più rispettoso del pensiero di un Grande Autore del passato. 



ma veniamo all'articolo.

Sull’avvenire intelligente delle nostre scuole

di Giorgio Mascitelli

    A partire dagli scorsi mesi si è cominciato ad assistere anche in Italia a una campagna mediatica sommessa ma costante sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola. Dall’appello a non trascurare l’occasione eccezionale e irrinunciabile fino al richiamo del rischio di perdere il treno del futuro passando per la denuncia della paura dell’innovazione, una serie di argomenti già usati nel passato per abituare l’opinione pubblica all’ineluttabilità di altre innovazioni tecnologiche è tornata a circolare. Sarebbe riduttivo spiegare questo fatto con il tentativo di creare una domanda per questo genere di prodotti magari intercettando fondi o creando un consenso per stanziamenti pubblici in tal senso, non perché interessi del genere non esistano ma perché queste reazioni esprimono uno dei punti chiavi dell’ideologia contemporanea in cui la fiducia razionale nella tecnologia produce atteggiamenti irrazionali nei confronti delle conseguenze sociali che le innovazioni generano.

I toni sono ragionevoli e moderati: si ricorda che in ogni caso l’IA non sostituisce l’insegnante, ma è un prezioso strumento in grado di rinnovare la didattica, addirittura in un supplemento dedicato all’argomento del Corriere della sera, Paolo Ferri con indubbia abilità persuasiva nei confronti  del mondo docente arriva a suggerire che chatGpt potrebbe incaricarsi della stesura di verbali e di altre corvée burocratiche che infestano la vita dell’insegnante. Eppure è difficile che vengano discusse opinioni come quelle di Manfred Spitzer : “I bambini a scuola imparano a percepire, pensare, comprendere, pianificare, valutare e decidere (insomma a svolgere una serie di funzioni cognitive) dapprima sotto la guida di un maestro e poi in modo autonomo. Così facendo si modificano le connessioni tra le cellule nervose responsabili di quelle funzioni cognitive e si vanno letteralmente a formare sia il cervello sia la personalità degli individui. Ne consegue quindi che delegare o lasciare fare il lavoro intellettivo alle macchine debba per forza portare a un livello di apprendimento minore da parte dei bambini” (Intelligenza artificiale, trad.it 2024, pp.558-559). La cosa interessante di questa posizione non è soltanto che Spitzer è un neurologo, ma che essa viene espressa all’interno di un libro sull’intelligenza artificiale che è decisamente ottimistico sulle prospettive, insomma quanto di più lontano ci possa essere dall’approccio apocalittico, per usare la vecchia categoria di Umberto Eco. Per esempio, nella disputa tra coloro che parlano di pappagalli stocastici a proposito dei chatbot, alludendo con questo termine ad algoritmi più veloci e potenti ma in sostanza legati alla vecchia logica dei calcolatori, e coloro che ritengono che in realtà questi algoritmi siano riusciti a creare un salto qualitativo agendo come delle vere e proprie reti di neuroni, Spitzer si schiera senza dubbio da quest’ultima parte. Insomma l’allarme non viene lanciato da un allarmista. Se andiamo a rileggerci quanto si scriveva negli anni Novanta sull’importanza della rete e sulle sue prospettive, ciò che colpisce oggi è l’assoluta incapacità di vedere i problemi sociali che essa avrebbe provocato, anche quando erano facilmente prevedibili. Basta prestare attenzione a un problema come quello delle fake news, che esistevano già nell’ambito mediatico tradizionale: in fondo pensare che avrebbero potuto essere diffuse ancor più efficacemente tramite la rete non era poi così assurdo,  e invece all’epoca abbondiamo di descrizioni estatiche di una società futura in perenne crescita grazie alla libera circolazione della conoscenza, quasi che i vincoli giuridici che regolano la proprietà intellettuale fossero stati aboliti da internet, mentre non vi era nessuna previsione delle dinamiche sociali indesiderate. Ancora una volta vorrei sottolineare che questo tipo di atteggiamento non è spiegabile solo con uno spirito pubblicitario, ma rientra in una forma mentis ideologica che vale la pena di analizzare perché sull’IA nella scuola si sta riproponendo esattamente lo stesso tipo di atteggiamento degli anni Novanta. In generale, quando si parla dell’innovazione tecnologica nella nostra società e se ne elencano benefici e rischi, si parte da una considerazione astratta della nuova tecnologia che viene descritta come funzionante, senza effetti collaterali di alcun genere, in una società concepita come spazio vuoto, in cui non ci sono conflitti di interesse e forze economiche e sociali che perseguono dinamiche totalmente indifferenti al bene collettivo. Al massimo si riconosce la necessità di alcuni adeguamenti di ordine giurisprudenziale, meglio se risolti con la governance ovvero senza nessun vincolo di legge, saltando a piè pari qualsiasi considerazione sul fatto che uno dei problemi centrali del nostro tempo è l’indebolimento della legislazione rispetto all’azione dei grandi gruppi finanziari e industriali.

    Eppure una macchina, intelligente o stupida che sia, da questo punto di vista non è importante, non è solo uno strumento, ma è un condensato di rapporti sociali che stanno a monte del suo impiego e della sua progettazione. Il tipo di uso per cui ogni macchina è progettata è strettamente collegato agli investimenti effettuati per produrla e alla domanda sociale a cui risponde, che in un sistema capitalistico è innanzi tutto generare profitti. Questo non vuol dire che in astratto non la si possa usare in maniera creativa o differente rispetto alla logica generale, ma tendenzialmente la diffusione del suo uso seguirà questa logica generale del profitto. E l’Intelligenza Artificiale non fa eccezione. Ora se poniamo mente a dove nasce l’IA nelle sue attuali applicazioni, incontriamo le logiche del capitalismo neoliberista, del downsizing, dell’ottimizzazione dei tagli sui posti di lavoro anche in attivo per produrre più profitti. Allo stesso tempo è la società della concorrenza di tutti contro tutti e della frammentazione delle relazioni. Dunque se l’IA appare indiscutibilmente come un progresso irrinunciabile e si diffonde capillarmente, succede anche perché risponde a questi interessi e a queste logiche in maniera più efficiente delle tecnologie precedenti. Introdurre l’IA nelle scuole significa fare i conti con questo genere di dinamiche e non immaginare astrattamente il suo uso in quella ideale (o idealizzata?), cioè completamente distaccata dai meccanismi sociali dominanti e, naturalmente, allo stesso tempo iperconnessa grazie alle macchine prodotte da quella stessa logica sociale, alla quale ci si immagina estranei. 

Naturalmente un’obiezione a questa analisi critica è che essa è troppo astratta e lontana dalle esperienze reali di studenti e insegnanti. E’ un’obiezione assolutamente fondata, alla quale si può replicare solo che un determinato meccanismo sociale, anche se astratto, non per questo motivo non ha effetti molti tangibili nella vita delle persone. Se prendiamo in esame in concreto l’esperienza individuale, è verosimile che con l’IA avremo un aumento delle possibilità di fare cose, che prima erano difficili o impossibili, e allo stesso tempo una minore coscienza del modo e delle ragioni di farle, come mostra Spitzer. Il modello implicito sembra essere colui che ha un macchinone da duecento chilometri orari ed è stato bocciato all’esame di teoria della patente per incapacità di capire le norme del codice della strada.  Uno dei topos degli innovatori tecnologici della scuola è la citazione del passo di Platone in cui viene condannata l’introduzione della scrittura perché avrebbe indebolito le facoltà mnemoniche individuali.

                                             Platone afferma che la scrittura avrebbe indebolito le facoltà mnemoniche ?

    Il senso di questo esempio è che una perdita individuale viene ricompensata da un aumento della facoltà della memoria a livello sociale e collettivo: insomma la diminuzione di memoria del singolo venne ampiamente compensata dall’aumento della capacità di memorizzazione della società nel suo complesso tramite il ricorso alla nuova tecnologia della scrittura. Nel caso dell’IA questo esempio rivela due punti di crisi: in primo luogo che la scuola non può per suo compito istituzionale sacrificare le capacità degli individui, ma al contrario ha il dovere di svilupparle; in secondo luogo l’unica cosa che verrà rafforzata sembrano essere i processi di accumulazione di un capitale che estrae i propri profitti anche sfruttando determinate relazioni umane come quelle presenti nel mondo scolastico. Infatti, quando Bill Gates dice che tra pochi anni l’intelligenza artificiale renderà superflui gli insegnanti, da un punto di vista pedagogico afferma un’assurdità, nel senso che la scuola esiste solo all’interno di un rapporto docente-discente, che è una relazione di tipo umano. Se però prendiamo questa affermazione all’interno dell’ideologia corrente, essa diventa un’espressione assolutamente coerente di un programma. Questo programma è quello che vuole eliminare la scuola come forma di socializzazione del sapere in nome di un radicale individualismo e di un processo di accumulazione non regolato da nessuna istanza. L’intelligenza artificiale ha il compito nel concreto di creare le possibilità tecnologiche per realizzare l’effettiva caduta dell’idea di scuola, che, se fosse annunciata in maniera diretta ed esplicita, solleverebbe proteste, e allo stesso tempo di iscrivere tale perdita sotto la categoria del progresso, quindi come elemento fatale e indiscutibile nella nostra società. Il grande vantaggio dell’IA nella scuola è quello di indurre la gente a credere che un’assenza di scuola sia la scuola del futuro.       Le ragioni sistemiche dell’introduzione dell’IA a scuola sono queste e se qualcuno affermasse che comunque a livello individuale è possibile usare l’IA in maniera costruttiva, risponderei che non ho difficoltà a crederlo, ma che questi usi individuali saranno eccezioni trascurabili rispetto all’impatto del suo impiego generale. In realtà anche a livello collettivo si potrebbero immaginare usi pertinenti e creativi, ma solo a patto di sottoporre a una radicale critica politica l’uso e la concezione stessa dell’IA attualmente dominanti. Questo il compito di docenti e studenti, cioè degli esseri umani che abitano la scuola. 

L'articolo originale con il suo commentario in aggiornamento si trova   qui 

al quale è seguito un nostro commento che proporremo nel prossimo post (su questo blog, ma che, se passerà la moderazione del sito di NI, si potrà leggere direttamente in quello spazio

martedì 10 giugno 2025

Il traditore è peggio del nemico giurato

Considerazioni a ruota libera sul referendum dell' 8-9 Giugno 




Lo sconforto tuttavia, ha prevalso e, per una volta, abbiamo ritenuto più opportuno parlare chiaro, provare a manifestare la nostra posizione che non è una posizione 'di parte', un giudizio preso a prestito dai bollettini dei partiti di governo o uno slogan, buono soprattutto per i teatrini televisivi o per quelli, mordi e fuggi, delle pagine social dei leader più influenti e visibilizzati della politica italiana. Non sarà il nostro , un appello a un voto o a una presa di posizione fideistica: ". . . Perché lo dice la Giorgia! "Perché lo dice la Elly."  Nulla di tutto ciò. 

                                     

                                                   Un  giovane disoccupato in cerca di lavoro (e di barbiere)                                       

      Ciò, insomma, che ci ha costretto a toccare seppur con le canne, tali volgarità (motivazioni false e faziose) elettorali ,  è il richiamo alle politiche giovanili, alla necessità di un ritorno alla tutela dei giovani, al loro ingresso nel mondo del lavoro. E poco importa che il dietrofront sia un passaggio storico da imputare alle sinistre, le stesse che il Jobs-act l'avevano voluto , anche a costo della vita di qualcuno che si era speso affinché queste dissennate strategie potessero essere tradotte in leggi precise. Ma adesso anziché difenderle, e con esse la dignità di chi si è imbattuto nelle reazioni scomposta di una sparuta compagine di spietati 'giustizieri' , le basi di quelle politiche vorrebbero essere smantellate a favore dei giovani, si dirà nei mesi a venire. E sempre a favore dei giovani che la legge Fornero, vorrebbe operare , lasciando decrepiti vecchietti su posto di lavoro ad un'età che tempi addietro  si considerava buona per portare a passeggio i nipotini, tutt'al più a sparger briciole di pane nelle piazze, ad ingrassar volatili. Altra perla delle famigerate politiche per i giovani inventate dalla sinistra e dalla sinistra difese a spada tratta, finché le aziende a beneficiarne fossero le 'loro' (Diremmo con una semplificazione suggerita dalle virgolette). Ma quando si è compreso che questi meccanismi  avrebbero finito per foraggiare aziende affiliate alla controparte politica, consolidando i ruoli di potere di quegli avversari che tali si mostravano solo agli occhi di una coscienza popolare oscurata da decenni di bugie, ecco che il Lavoro Giovanile prese ad essere scritto nuovamente con le maiuscole, ecco che il vocabolario di taluni personaggi riportò sugli scudi termini divenuti nel frattempo obsoleti, retrogradi e fuori corso come : diritto, difesa della sicurezza, giusta causa e via dicendo.  Mi fermo qua, cercando di non farmi prendere la mano dalla rabbia. Con calma, vorrei invece invitare, proprio i giovani a lasciar cadere gli abiti delle contrapposizioni faziose, dimenticare i linguaggi plastificati di una retorica della competizione vocata allo scontro delle parti, invece che al dialogo. Vorrei che si prendesse coscienza del mondo in cui viviamo, di quella stessa realtà dove non si contrappongono più interessi aziendali a interessi dei lavoratori, quando i partiti  si facevano rappresentanze di due diversi modi di intendere la vita, il lavoro e lo sviluppo economico e sociale e dal cui dialogo scaturiva un compromesso utile. Oggi rimangono le rappresentanze della finanza che vede solo la logica dei profitti, subordinando gli interessi dei piccoli lavoratori a quelli delle multinazionali. A destra e a sinistra non esistono che quelli; i rappresentanti dei confinati dietro i cordoni di sicurezza dei consigli di amministrazione, invece, vengono sempre dopo: gli stati non sono più organismi di tutela delle persone ma delle dirigenze aziendali. Non sono più a favore delle persone comuni e delle imprese onestamente inserite nel mercato, ma dei faccendieri, dei voltagabbana e dei cerchiobottisti . Questo è il punto, ed allora ecco che l'elettorato di sinistra perspicace non va più a esprimere il proprio diritto di scegliere, eligere, quindi votare. Il traditore è peggio del nemico giurato. Questo è un altro  punto da tenere in mente! E' questo l'unico  motivo che manterrà gli attuali squilibri elettorali nei prossimi anni. Ma ciò non riguarda solo la politica dei nostri  campanili, il modello economico imposto difatti proviene dall'esterno, da un potere che oramai agisce localmente scimmiottando le dinamiche consolidate altrove, nei grandi paesi della 'civiltà' e del benessere. E per quei luoghi lontani malgovernati (dittatori disegnati a tavolino) che ancora resistono con certe balordaggini sul diritti dei popoli sovrani, ecco un pacchetto di misure pronto a condizionare gli esponenti partitici degli stati nazionali, per piegarli, asservirli come vassalli ai piedi di un signorotto prepotente. Poco importa che il più potente paese del pianeta sia governato da un vecchino arteriosclerotico col pannolone  o dal buzzurro col suo  iconico riporto  antivento (A cinque tacche di resistenza, come gli accendini dei marinai), in un caso , come nell'altro, le politiche favoriranno interessi finanziari vincolati agli armamenti, alla sanità e alle risorse petrolifere da una parte, piuttosto che al Green , alla tecnologia aerospaziale e alla robotica dall'altra, in barba allo stato sociale, ai diritti retributivi e a qualunque altro inghippo capace di rallentare la vertiginosa corsa al controllo della spesa, alla spasmodica ed inarrestabile concentrazione del potere e della finanza entro recinti sempre più piccoli, sempre più avidi. Ecco perché , all'ombra del nostro piccolo campanile, la grande menzogna dell'alternanza ( e della conseguente falsa contrapposizione fra destra e sinistra) servirà solo a mantenere ben saldi sullo stello binario, interessi distanti da quelli dei cittadini, o forse è meglio dire, della massa ignorante, destinata a benedire il padronato per quel tozzo di pane che filantropicamente si guarderà bene da non fargli mai mancare, fino al momento in cui - non facciamoci illusioni - la produzione e la finanza punteranno le loro fiches sulla casella delle servitù biologiche. E non ci stupiremmo di certo se qualche acuto filosofo prima o poi, coniasse un neologismo di tendenza per descrivere l'assurdità di questa situazione divenuta oramai infestante, quello di 'zavorra sociale', unico appellativo degno di quelle piccole compagini partitiche che ancora si ostinano a voler parlare di diritti mantenendone perlopiù anche l'originario significato sociale.  




 

J

sabato 31 maggio 2025

Meriti non sindacabili dell'Intelligenza artificiale

 Fra le tante (benché inutili) critiche alla IA, ci premuriamo di magnificare un indiscutibile merito di questa nuova (? Si tratta in fondo di una macchina) tecnologia. Ma sì, parliamo anche noi del tema più in voga del momento. Ne avremmo volentieri fatto a meno, ma i primi (Era ora) articoli che denotano una lucida analisi rispetto ai rischi e alle prossime probabilissime  'vittime' della IA, ci hanno davvero incuriosito. Chi l'avrebbe mai detto che i giornalisti ben rappresentati dal pittore Grost col vaso da notte sulla testa, si sarebbero alla fine svegliati? Uno di loro ha pubblicato un buon articolo sul sito        MInima & Moralia, immediatamente l'abbiamo commentato ed ora attendiamo la sua replica. Se avrà il coraggio di rispondere, naturalmente.

                                                                                        I pilastri della società

Ah, sì. Il merito, dicevamo. Quello di far piazza pulita in poco tempo di questa massa di inutili personaggi che si definiscono cani da guardia della democrazia, ma che si sono qualificati solo come cani al guinzaglio del potere. 

Cosa sta succedendo al giornalismo italiano al tempo dell’Intelligenza artificiale

                                                                                            foto di Markus Winkler su Unplash

    Ho iniziato a fare il giornalista nel 2008. Avevo ventun anni. Lavoravo in redazione mentre i social stavano diventando l’infrastruttura culturale del mondo e i giornali italiani si chiedevano ancora se fosse il caso di aprire una pagina Facebook. Internet aveva già trasformato tutto, ma sembrava che il giornalismo non se ne fosse accorto. O, peggio, che avesse deciso di ignorarlo. Di quella rivoluzione digitale io ho sentito l’eco. I racconti dei colleghi più anziani, l’unico computer connesso a Internet in redazione, le notizie scaricate da Ansa e battute a mano come se fosse un passaggio rituale. Quel tempo non l’ho vissuto, ma le sue paure sono rimaste. Le ho viste trasmettersi e stratificarsi. Consolidarsi. Come un riflesso condizionato: ogni cosa nuova è sopratutto una minaccia. Poi sono arrivati i social e lì c’ero. Pensavamo che sarebbe stato il momento di cambiare passo. Di aprire, innovare, ripensare il nostro mestiere. Invece no: si è replicato lo stesso schema. Prima il sospetto, poi l’adozione passiva, infine l’uso distorto. Abbiamo inseguito la visibilità, dimenticato il metodo, smarrito la funzione. E oggi siamo di nuovo qui. Davanti a una tecnologia che cambia tutto – l’intelligenza artificiale – e ci trova, ancora una volta, immobili.

Non scrivo questo pezzo per insegnare qualcosa. Non ho soluzioni da offrire, né modelli da proporre. Scrivo per provare a fermare il meccanismo. Perché la traiettoria che stiamo percorrendo è sempre la stessa: paura, arretramento, resa. Ma stavolta rischia di non esserci un’altra occasione. Lo scrivo da freelance, dopo anni passati alle dipendenze di un grande gruppo editoriale. Oggi lavoro da solo e lavoro anche con l’IA. Non perché sia la salvezza, ma perché è già parte del nostro presente. Non usarla non è una scelta etica: è una scelta miope. La rivoluzione di Internet, dicevo, non l’ho vissuta. Era già passata quando ho cominciato. Ma le sue conseguenze erano ancora lì, sedimentate nelle redazioni, come una frattura mal rimarginata. Ne sentivo parlare dai colleghi di una generazione diversa dalla mia. Bastava ascoltare molti di quei racconti per capire che la tecnologia non era mai stata accolta. Era stata tollerata, al massimo. La rete, per com’era stata percepita, non era una nuova casa per il giornalismo. Era una minaccia. Una copia sbiadita. Un luogo dove l’informazione si sporcava. I siti web dei giornali erano poco più che bacheche. Spesso si pubblicava il pdf del giornale del giorno, come a dire: questo è l’unico formato vero, il resto è contorno.                                    Intanto, fuori, il mondo cambiava. Il tempo reale diventava norma. I lettori imparavano a cercare le notizie altrove. E il giornalismo italiano — salvo poche eccezioni — reagiva irrigidendosi. Difendeva la propria forma invece della propria funzione. Scambiava la distanza per autorevolezza. Non è stata una sconfitta tecnologica, ma culturale. Il problema non era Internet. Era il modo in cui lo si guardava: come a qualcosa di transitorio, persino volgare. E invece stava ridefinendo il mestiere. Questa attitudine, questa paura ereditata, è ancora viva oggi. Non è mai stata superata, solo traslata: in questi mesi, mentre l’IA si insinua in ogni processo produttivo, siamo fermi nello stesso punto. Come se non avessimo imparato niente. Come se quella lezione non fosse mai esistita. La mia generazione era considerata quella i social “li capiva”. Per anagrafe, più che per cultura. E quindi ci toccava il compito di tradurre quel mondo ai capiservizio, ai capiredattori, agli editori. Ma senza spazio vero per costruire. Dovevamo usarli, non capirli. Dovevamo “farli funzionare”, ma senza cambiare davvero nulla. E così si è cominciato a postare. A rilanciare articoli con titoli più aggressivi. A cercare l’engagement. A rincorrere il traffico. Il criterio di valore non era più il contenuto, ma la sua capacità di generare reazioni. L’indignazione diventava una leva. Il commento acido, una metrica. Il post virale, un obiettivo. E intanto la profondità del racconto si assottigliava. Il mestiere veniva svuotato dalla logica dell’urgenza continua. Anziché governare il cambiamento, o almeno provarci, ci siamo adattati a esso nel modo peggiore. Sfruttando la velocità senza curare il senso. Lasciando che il rumore sostituisse il racconto. E illudendoci che bastasse esserci, per esserci davvero. Quello che è successo con i social è lo stesso schema che si ripete ora con l’IA. Molte redazioni italiane hanno un’età media altissima ma il problema non è prettamente anagrafico. È l’assenza di integrazione generazionale. I giovani entrano, ma non lasciano traccia. Non vengono ascoltati, né formati, né responsabilizzati. Portano competenze nuove, ma restano ai margini. I senior si proteggono, i junior si adattano. E il giornalismo, nel mezzo, resta fermo.              Non è questione di “fare i moderni”. È questione di non restare scollegati dal presente. Se il mondo cambia e chi lo racconta non cambia con lui, qualcosa si rompe. E quando si rompe, si sente. Nel tono, nei titoli, nella voce fuori sincrono con il tempo. Ecco perché l’IA ci trova così impreparati. Perché non è la prima trasformazione a cui non siamo pronti. È solo la più rapida. E forse la più definitiva. Già esistono siti completamente generati da IA, che pubblicano decine di articoli al giorno su ogni tipo di argomento. Mi è capitato personalmente di trovarmi descritto in uno di questi: articoli che parlavano di me come se fossi un personaggio molto noto, con toni trionfali, informazioni inventate, dati falsati. Io non sono un volto mainstream, tutt’altro: sono un giornalista che ha lavorato in redazioni locali, ha scritto libri, dirige una rivista e collabora con diverse realtà nazionali, ma di certo non sono Bruno Vespa. Eppure l’IA ha connesso elementi sparsi, costruendo una narrazione che non mi appartiene. Nessuna verifica, nessun contatto, nessuna lettura critica. Solo un algoritmo che riempie spazi. Eppure, dall’altra parte, ci sono tentativi diversi. Tentativi onesti. Virgilio.it, ad esempio, ha già cominciato a usare l’IA per generare articoli brevi, spesso basati su comunicati stampa o piccoli episodi di cronaca. La differenza è che questi contenuti vengono esplicitamente segnalati come generati da IA e poi rivisti da un redattore. È tutto dichiarato, tutto trasparente. Il lettore sa cosa sta leggendo. È un esempio semplice, ma significativo. Un modello da osservare, non da liquidare con sufficienza.

Il punto non è impedire all’IA di scrivere. Il punto è decidere chi controlla il processo. Chi si prende la responsabilità. Chi garantisce che quello che arriva al lettore sia ancora, in qualche modo, giornalismo. Io l’intelligenza artificiale la uso. Non per scrivere articoli al posto mio, ma per fare meglio il mio lavoro. Mi aiuta a riformulare, a risparmiare tempo su ciò che non richiede creatività o profondità. Mi affianca, non mi sostituisce. E se lo dico non è per fare il brillante. È perché dovremmo smettere di far finta che non succeda. Il punto è che questa possibilità, oggi, non la si può nemmeno nominare. La si nasconde. Si fa, ma non si dice. Come se fosse un vizio, una colpa. Come se usare uno strumento rendesse meno vero il lavoro. Ma allora dovremmo smettere anche di usare le agenzie, i CMS, i software di trascrizione. O fingere che il lavoro del giornalista sia rimasto identico a com’era trent’anni fa. Non lo è. Non può esserlo. Eppure restiamo ancorati a un’idea sacrale della professione. Quasi liturgica. Quando invece avremmo bisogno di una etica dell’efficacia: fare bene, fare meglio, restare centrati sulla responsabilità, non sul feticcio della tecnica. L’IA può aiutare il giornalismo, se accettiamo di usarla con consapevolezza. Può essere un filtro, e una leva, persino un’estensione. Ma solo se restiamo padroni del processo. Non serve coraggio per usare l’IA. Serve coraggio per dirlo. E dire che si può essere giornalisti, seri, rigorosi, umani, anche quando si usano strumenti nuovi. A patto che la voce resti nostra. E che il mestiere non venga scambiato con la macchina. Uno dei pericoli meno discussi dell’intelligenza artificiale applicata al giornalismo è quello dell’imitazione. Non solo nel tono, ma nei contenuti. L’IA è allenata su testi esistenti. Impara da ciò che trova online. Assimila tutto, ma non distingue il vero dal falso, il firmato dall’anonimo, l’inchiesta dal comunicato. Riproduce. Riformula. Rimescola.

Nel 2023, il New York Times ha scoperto che alcuni siti generati da IA stavano pubblicando articoli che riprendevano in modo evidente — a volte parola per parola — pezzi usciti sul giornale. Non solo un problema di copyright, ma un problema di senso: l’informazione diventava una massa indistinta, senza firme, senza fonti, senza responsabilità. I contenuti veri venivano “assorbiti” da sistemi automatici, spogliati del contesto, e riproposti altrove come se nulla fosse.       Questa dinamica ha un nome: plagio algoritmico. Ed è una delle forme più subdole di crisi del giornalismo. Perché toglie valore proprio a ciò che dovrebbe essere difeso: l’autorialità, la cura, la veridicità. L’intelligenza artificiale, se usata senza filtri, produce testi che sembrano veri. Ma solo perché sembrano scritti da qualcuno. Quando invece non sono scritti da nessuno. O, peggio, sono scritti da troppi. Troppe fonti, troppi stili, troppe citazioni mescolate insieme senza gerarchia, senza direzione. È un rumore. Un grande rumore che somiglia alla verità, ma non lo è. C’è un equivoco di fondo in tutto questo discorso: credere che sarà l’intelligenza artificiale a distruggere il giornalismo. Non sarà così. A distruggerlo sarà, semmai, il modo in cui l’editoria deciderà di usarla. Perché la tendenza è già chiara. Non si tratta di innovare, ma di tagliare. Di ridurre i costi, velocizzare i processi, riempire spazi. L’IA può fare tutto questo. Può scrivere migliaia di righe al giorno, può farlo gratis, può farlo subito. E allora diventa perfetta per chi vede l’informazione come un contenitore, non come un servizio.    I posti di lavoro, quelli veri, quelli tutelati, li abbiamo persi ben prima dell’IA. Li abbiamo persi quando il giornalismo ha iniziato a vivere nell’emergenza perenne. Quando il collaboratore è diventato la norma. Quando le redazioni si sono svuotate senza rinnovarsi. Quando l’informazione ha smesso di investire sul lungo periodo. L’IA non farà che prolungare questa deriva, se lasciata nelle mani di chi la considera solo uno strumento di riduzione dei costi. Se usata senza un’idea di fondo. Se piegata a logiche di mera produttività che con il giornalismo non hanno nulla a che vedere. Ma non è inevitabile. Potrebbe essere l’opposto. Potrebbe diventare un alleato. Potrebbe alleggerire il lavoro ripetitivo, liberare tempo per l’approfondimento e l’inchiesta, facilitare l’accesso a fonti complesse. Potrebbe, se la usiamo dentro un progetto, non al posto di un progetto. E invece ci muoviamo senza pensiero. Aspettando che siano gli altri a decidere. Lasciando campo libero a piattaforme che vivono di contenuti usa e getta, di testi senz’anima, di strategie industriali che producono informazione come si produce una lattina. La verità è semplice: non possiamo permettere che a definire il futuro del giornalismo siano solo gli interessi economici. Serve un modello, serve una visione, serve una cultura del mestiere che non sia nostalgia ma ricostruzione. Altrimenti l’IA non sarà il problema. Sarà solo il chiodo definitivo su una bara che avevamo già costruito da soli. Non so come sarà il giornalismo tra cinque anni. Nessuno lo sa. Ma so che adesso, in questo preciso momento, possiamo ancora scegliere. Possiamo decidere se restare fermi — per paura, per inerzia, per orgoglio — oppure provare a costruire qualcosa di nuovo, anche senza garanzie. Anche a tentoni.                          Eppure siamo ancora lì. Ancora fermi. Ancora convinti che basti rifiutare per salvarsi. Ma il giornalismo non è un bastione da difendere. È un sistema da rinnovare. E per farlo servono scelte. Servono voci, tentativi. Il giornalismo non è nostro. Non appartiene ai giornalisti. Non è un privilegio, è un servizio. Appartiene a chi lo legge. A chi ci cerca per capire, per orientarsi, per respirare nel rumore. Se smette di essere utile, non sopravvive. Se si chiude, si spegne. E quando si spegne, non muore solo un mestiere: muore un pezzo di società. In un’epoca in cui l’informazione è dappertutto e la fiducia è ai minimi storici, abbiamo bisogno di giornalismo più che mai. Ma non di un giornalismo nostalgico e impaurito. Abbiamo bisogno di una voce che non rincorra la tecnologia, ma che sappia dialogarci. Che non la neghi, ma la guidi. Che non la subisca, ma la usi — con intelligenza, appunto. Non ho ricette. Ma so che serve agire. Subito. Senza aspettare un’altra crisi, un’altra emergenza e nemmeno un altro convegno.

Ora non serve crederci. Serve provarci.

Con lucidità. Con rigore. Con quel senso di responsabilità che — a dispetto di tutto — fa ancora la differenza tra chi scrive e chi genera contenuti.